La libertà alla radice dell’opera

Da Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 98-101, 118-123
Luigi Giussani


Le opere nascono solo quando uno ha il coraggio di dire «io»
Ricordo una frase di Kierkegaard il quale diceva che i valori restano astratti fino a quando uno non ha il coraggio di dire «io» («Ogni comunicazione della verità è divenuta un’astrazione […]. Nessuno ha il coraggio di dire “Io”»; S. Kierkegaard, Diario, Bur Rizzoli, Milano 1983, 249). Allo stesso modo possiamo dire: le opere nascono solo quando uno ha il coraggio di dire «io».
Voi avete avuto il coraggio di dire «io» e in qualche modo, secondo svariatissime circostanze, avete rischiato.
Mi viene in mente anche la frase di un altro filosofo, Nietzsche, il quale, attaccando i cristiani, diceva che anche le loro virtù sono molto modeste perché, come gli altri, non fanno altro che cercare il proprio comodo. Ora, nessuno di voi ha seguito la regola del proprio comodo per poter creare un’opera; qualsiasi tipo di opera abbiate creato non siete annegati nella ricerca del comodo.
A che cosa avete dato spazio, voce, forma di azione? La parola che dobbiamo ripeterci sempre, la parola che definisce la grandezza dell’uomo rispetto a tutta la realtà - per quanto piccolo e inerme possa sembrare, o sia, di fronte a tutti i fenomeni che caratterizzano la realtà che ci circonda - è la parola «libertà». Avete dato spazio e avete dato iniziativa alla vostra libertà. Questa è la parola più sacra che la Chiesa e l’educazione cristiana ci hanno abituato a considerare e a venerare. È la parola che viene immediatamente dopo la parola Dio. L’inevitabilità del destino, che la parola Dio implica ed esplicita, si pone, si impone davanti alla libertà del piccolo uomo. Il piccolo uomo è, infatti, quel livello della realtà in cui la realtà diventa coscienza di un destino senza limite, infinito; la libertà è desiderio di una soddisfazione intera e compiuta, ma nell’uomo non è compiuta se non in rapporto con l’infinito. Per questo parlare di libertà è parlare della religiosità come il cristianesimo la percepisce, come Cristo ci ha ridestati a percepire.
La libertà è esigenza, desiderio, tensione all’infinito. Ma l’infinito, questo destino infinito che abbiamo, si realizza attraverso i bisogni quotidiani in cui la propria sete si articola e si concreta. I bisogni quotidiani ci sollecitano ai passi verso l’infinito. Il bisogno della cosa particolare è la modalità con cui il destino, l’infinito, ci tocca, e noi reagiamo al desiderio della cosa particolare; e questo reagire - se è fatto da un io impegnato e non troppo «modesto», non teso al comodo - affronta naturalmente il bisogno con una certa sistematicità.
Questa è l’origine dell’opera: il tentativo di rispondere sistematicamente a un bisogno che urge la propria vita nell’ora, nella giornata.
Ma come non si può nascere da soli e come non si può vivere da soli, così non si può rispondere al proprio bisogno - qualunque esso sia, anche quello che sembra più singolare possibile - se non in una compagnia, se non con l’aiuto di una compagnia. Da soli nessun bisogno può essere affrontato con quella sistematicità che l’organicità della nostra vita esige.

Educazione alla libertà
E la libertà è adesione all’essere, amore all’essere, sete di essere, perciò apertura senza limite: non c’è temperamento, carattere, che si possa offendere o ritirare da questa felice proposta originale.
Come verifica di quanto detto, vengono dunque segnalati questi punti.
Innanzitutto, la stima sincera per il lavoro, stima sincera per il lavoro che ha una prova del nove, ed è l’insofferenza (non nel senso rabbioso, ma nel senso etimologico della parola: non si può stare tranquilli) per la disoccupazione di tanti altri. Che tanti non abbiano lavoro non può lasciare tranquillo me oggi. Non posso essere contento del mio lavoro, che va bene e mi dà risultati, e basta. La stima sincera per il lavoro, innanzitutto, dà un’intollerabilità al fatto che altri non lavorino, perché l’educazione alla libertà è astratta se un uomo non ha un lavoro da imparare. È nella realizzazione del mio lavoro che capisco di essere libero, di essere lasciato libero, che la mia libertà è rispettata, e capisco quando invece tutto è bloccato, ridotto, ristretto, inadeguatamente definito, predefinito. È impossibile che avvenga l’educazione alla libertà senza la possibilità di un lavoro. Spiegavo ai ragazzi che un uomo disoccupato soffre un attentato grave alla coscienza di se stesso, secondo un principio di san Tommaso, il quale dice che l’uomo conosce se stesso in azione. L’uomo non conosce se stesso quando si mette lì e pensa a se stesso (occorrerebbe in tal caso una oggettività che pochi raggiungono attraverso una educazione filosofica adeguata), ma percepisce il suo valore, le sue facoltà, quello di cui è capace, lavorando, in actu exercito (cfr.: «In hoc aliquis percipit se animam habere et vivere et esse, quod percipit se sentire et intelligere et alia huiusmodi opera vitae exercere»; San Tommaso, Quaestiones Disputatae De Veritate, q. X, art. 8, c.; cfr. anche L.Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2001, pp. 46 ss), come dice san Tommaso d’Aquino. Un uomo conosce se stesso solo in azione, durante l’azione, mentre è in azione. Perciò, se la vita non ha lavoro, uno conosce meno se stesso, smarrisce il senso del vivere, tende a smarrire il senso del perché vive. Dobbiamo fare di tutto per collaborare alle forze sociali e politiche che mirano a trovare un lavoro per tutti! Non come tante volte certo sindacalismo, che va nel fuoco per quelli che lavorano e se ne infischia di quelli che non lavorano - non ho detto che tutti i sindacati, sempre, facciano così: ho limitato un po’ la mia osservazione.
Secondo. La libertà ha la sua prima espressione nel poter educare. Nella vita concreta, la prima libertà non è verso me stesso, per così dire, ma verso chi amo: il figlio, il fratello, ma, cristianamente parlando, il più estraneo di tutti - come quel musulmano che, l’altro ieri sera a Forlì, dopo aver sentito uno di noi presentare il libro Si può vivere così? (cfr. L.Giussani, Si può vivere cosi?, Bur, Milano 2001), è andato a parlargli, ed entusiasta aderiva a quanto aveva sentito; ma era già fratello nostro prima che si facesse avanti. Come è desiderabile, di fronte a chi si ama, la libertà all’educazione, nell’educazione, nell’aiutarlo a entrare in tutta la realtà! È desiderabile per me, quasi più di quanto sia desiderabile per una madre - la madre lo desidera per il figlio. Sarà l’esagerazione dell’amore! Ma non è esagerazione: è la logica dell’amore.
Libertà educativa. Non si può giocare politicamente, è vergognoso giocare politicamente con forze che neghino la libertà educativa! A meno che ci si lavori per cambiarle, ma bisogna essere realisti: non deve essere solo un sogno, ci devono essere dei motivi solidi per sperarlo - per sperare nella tua influenza, amico mio, altrimenti perdi tempo, ti illudi, Perciò, la libertà dell’educazione è la questione principale. Se un padre e una madre generano un figlio e non lo educano, verrebbe da usare le parole che Gesù disse a Giuda: «Sarebbe meglio per lui se non fosse mai nato» (Mt 26,24; Mc 14,21) (Gesù lo diceva di Giuda, perché il destino della vita dell’uomo è Lui: Gesù, il Verbo fatto carne, il Mistero fatto carne; e Giuda tradiva questo). La libertà d’educazione riguarda la famiglia non solo quando ha lì i bambini in casa, piccoli; ma quando deve mandarli all’asilo, quando deve mandarli alla scuola elementare, quando deve mandarli alla scuola media, e ancora di più quando li manda alla media superiore e all’università. Sembrano capaci di guidarsi da soli! E invece no! Bisogna assisterli, non con la mano stretta come quando sono piccoli, ma più da lontano; bisogna seguirli, però (come si accende la televisione da lontano col telecomando).
Terzo. La giustizia: che esista, in una vita sociale, una giustizia attivata seriamente, lealmente, innanzitutto rispettando quei diritti del singolo, della persona, che hanno caratterizzato la storia della giurisprudenza nella civiltà. La civiltà c’è quando la giurisprudenza rispetta questo, incomincia col rispettare questo. Non si può affermare una giustizia distruggendo il tessuto della vita di un popolo, distruggendo il benessere di un popolo, distruggendo la possibilità di uno sguardo futuro di un popolo, facendo smarrire i cuori più attenti. Non si possono perseguitare i valori primari della persona in nome di un sottile disegno politico: «Abbiamo già vinto», diceva un giudice. Come «abbiamo già vinto»? Prima di giudicare? Che terribile una società dove la giustizia non è giustizia! E perché sia più giustizia occorre innanzitutto che il giudice sia umile, cosciente del suo limite. Lo dico sempre ai ragazzi: «Per essere vero nel rapporto con qualsiasi persona, con qualsiasi cosa, il punto di partenza realistico è che sono peccatore. Allora mi avvicinerò con più rispetto, e con più pacatezza dirò: “sì”, “no”».
Quarto. Una vita politica che sia secondo una posizione ideale. Non può un partito essere partito di popolo se non ha un ideale che raggrumi quel popolo. Un popolo è formato attraverso un avvenimento particolare accaduto nel tempo, è unito da un ideale che esso persegue (conosciuto più, conosciuto meno, intuito più, intuito meno). Altrimenti si ha non un popolo, ma un gregge. È la tentazione più grande di chi ha il potere: rendere il popolo gregge; salvando tutte le forme, ma renderlo gregge! Pasolini usava la parola «omologazione» (cfr. P.P.Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1993, pp. 23, 41, 45ss, 50 e 54). «O popolo d’Italia, vecchio titano ignavo,/ Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo» (G.Carducci, Avanti! Avanti!, vv. 70-71, da Giambi ed epòdi, in Poesie, Garzanti, Milano 1993, p. 167), diceva nei Giambi ed epòdi, da giovane, Giosuè Carducci, sit venia verbis. Una politica che sia preoccupata non di una posizione ideale, ma di «riuscire» attraverso il potere conquistato, è una politica malvagia; e bisogna dirlo ai propri figli, ma prima di tutto a se stessi; bisogna gridarlo ai propri amici, bisogna gridarlo per le piazze e per le strade, scriverlo sul muri.
Una politica, dunque, che sia preoccupata di una posizione ideale. Questo stabilisce un’onda educativa, e questo realizza un respiro maggiore di libertà, un respiro più libero, perciò una creatività, una fantasia.
Perché non ci sono grandi creatori oggi? Perché è difficile, è più difficile che ci siano? Perché manca lo spazio per il respiro creatore. Bisogna che la politica realmente sia fatta da gente (e questo è un dovere nella scelta di chi ci rappresenta!) che abbia veramente interesse per l’uomo. È una premessa: dopo parleranno di economia, di ferrovie, di esercito, di servizi segreti; ma prima di tutto devono dimostrare un interesse per l’uomo, avere un interesse per l’uomo. Interesse per l’uomo: questo rende la politica seguace di Dio, perché Dio è il Signore, il politico per eccellenza, chi ha il potere - grazie a Dio - ultimamente irresistibile.
La religiosità, che è il punto suggeritore di tutta la nostra posizione, non è una cosa astratta: viene da molto lontano, da quando siamo stati creati, fatti, da prima dell’istante in cui padre e madre ci concepivano, ma dentro quelle viscere. Dentro quelle viscere c’era un’altra Presenza, che, come dice il Salmo 138 (andate a leggerlo se avete la Bibbia), era presente prima ancora che le viscere di mia madre mi plasmassero (Sal 139/138, 13 ss): viene da lontano, dunque, ma entra fino nei terminali ultimi dei nostri interessi (inter-esse: che gioca nel nostro essere, che c’entra col nostro essere, con me). Certo, la premessa che mi pare più importante è che uno senta se stesso, abbia pietà di sé, abbia ammirazione di sé. E almeno il fatto che io viva, che io esista, mi fa pieno di ammirazione e di stupore. Ammirazione verso chi mi fa, di cui partecipa la mia devozione a padre e madre: a mio papà e a mia mamma (io non ho mai parlato senza ricordarli, mai, in quarant’anni).

La libertà alla radice dell'opera

Antologia
Luigi Giussani

Le opere nascono solo quando uno ha il coraggio di dire «io»L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 98-101, 118-123



Ricordo una frase di Kierkegaard il quale diceva che i valori restano astratti fino a quando uno non ha il coraggio di dire «io» («Ogni comunicazione della verità è divenuta un’astrazione […]. Nessuno ha il coraggio di dire “Io”»; S. Kierkegaard, Diario, Bur Rizzoli, Milano 1983, 249). Allo stesso modo possiamo dire: le opere nascono solo quando uno ha il coraggio di dire «io».



Voi avete avuto il coraggio di dire «io» e in qualche modo, secondo svariatissime circostanze, avete rischiato.



Mi viene in mente anche la frase di un altro filosofo, Nietzsche, il quale, attaccando i cristiani, diceva che anche le loro virtù sono molto modeste perché, come gli altri, non fanno altro che cercare il proprio comodo. Ora, nessuno di voi ha seguito la regola del proprio comodo per poter creare un’opera; qualsiasi tipo di opera abbiate creato non siete annegati nella ricerca del comodo.



A che cosa avete dato spazio, voce, forma di azione? La parola che dobbiamo ripeterci sempre, la parola che definisce la grandezza dell’uomo rispetto a tutta la realtà - per quanto piccolo e inerme possa sembrare, o sia, di fronte a tutti i fenomeni che caratterizzano la realtà che ci circonda - è la parola «libertà». Avete dato spazio e avete dato iniziativa alla vostra libertà. Questa è la parola più sacra che la Chiesa e l’educazione cristiana ci hanno abituato a considerare e a venerare. È la parola che viene immediatamente dopo la parola Dio. L’inevitabilità del destino, che la parola Dio implica ed esplicita, si pone, si impone davanti alla libertà del piccolo uomo. Il piccolo uomo è, infatti, quel livello della realtà in cui la realtà diventa coscienza di un destino senza limite, infinito; la libertà è desiderio di una soddisfazione intera e compiuta, ma nell’uomo non è compiuta se non in rapporto con l’infinito. Per questo parlare di libertà è parlare della religiosità come il cristianesimo la percepisce, come Cristo ci ha ridestati a percepire.



La libertà è esigenza, desiderio, tensione all’infinito. Ma l’infinito, questo destino infinito che abbiamo, si realizza attraverso i bisogni quotidiani in cui la propria sete si articola e si concreta. I bisogni quotidiani ci sollecitano ai passi verso l’infinito. Il bisogno della cosa particolare è la modalità con cui il destino, l’infinito, ci tocca, e noi reagiamo al desiderio della cosa particolare; e questo reagire - se è fatto da un io impegnato e non troppo «modesto», non teso al comodo - affronta naturalmente il bisogno con una certa sistematicità.



Questa è l’origine dell’opera: il tentativo di rispondere sistematicamente a un bisogno che urge la propria vita nell’ora, nella giornata.



Ma come non si può nascere da soli e come non si può vivere da soli, così non si può rispondere al proprio bisogno - qualunque esso sia, anche quello che sembra più singolare possibile - se non in una compagnia, se non con l’aiuto di una compagnia. Da soli nessun bisogno può essere affrontato con quella sistematicità che l’organicità della nostra vita esige.



Educazione alla libertà


E la libertà è adesione all’essere, amore all’essere, sete di essere, perciò apertura senza limite: non c’è temperamento, carattere, che si possa offendere o ritirare da questa felice proposta originale.

Come verifica di quanto detto, vengono dunque segnalati questi punti.



Innanzitutto, la stima sincera per il lavoro, stima sincera per il lavoro che ha una prova del nove, ed è l’insofferenza (non nel senso rabbioso, ma nel senso etimologico della parola: non si può stare tranquilli) per la disoccupazione di tanti altri. Che tanti non abbiano lavoro non può lasciare tranquillo me oggi. Non posso essere contento del mio lavoro, che va bene e mi dà risultati, e basta. La stima sincera per il lavoro, innanzitutto, dà un’intollerabilità al fatto che altri non lavorino, perché l’educazione alla libertà è astratta se un uomo non ha un lavoro da imparare. È nella realizzazione del mio lavoro che capisco di essere libero, di essere lasciato libero, che la mia libertà è rispettata, e capisco quando invece tutto è bloccato, ridotto, ristretto, inadeguatamente definito, predefinito.



È impossibile che avvenga l’educazione alla libertà senza la possibilità di un lavoro. Spiegavo ai ragazzi che un uomo disoccupato soffre un attentato grave alla coscienza di se stesso, secondo un principio di san Tommaso, il quale dice che l’uomo conosce se stesso in azione. L’uomo non conosce se stesso quando si mette lì e pensa a se stesso (occorrerebbe in tal caso una oggettività che pochi raggiungono attraverso una educazione filosofica adeguata), ma percepisce il suo valore, le sue facoltà, quello di cui è capace, lavorando, in actu exercito (cfr.: «In hoc aliquis percipit se animam habere et vivere et esse, quod percipit se sentire et intelligere et alia huiusmodi opera vitae exercere»; San Tommaso, Quaestiones Disputatae De Veritate, q. X, art. 8, c.; cfr. anche L.Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2001, pp. 46 ss), come dice san Tommaso d’Aquino. Un uomo conosce se stesso solo in azione, durante l’azione, mentre è in azione. Perciò, se la vita non ha lavoro, uno conosce meno se stesso, smarrisce il senso del vivere, tende a smarrire il senso del perché vive. Dobbiamo fare di tutto per collaborare alle forze sociali e politiche che mirano a trovare un lavoro per tutti! Non come tante volte certo sindacalismo, che va nel fuoco per quelli che lavorano e se ne infischia di quelli che non lavorano - non ho detto che tutti i sindacati, sempre, facciano così: ho limitato un po’ la mia osservazione.

Secondo. La libertà ha la sua prima espressione nel poter educare.



Nella vita concreta, la prima libertà non è verso me stesso, per così dire, ma verso chi amo: il figlio, il fratello, ma, cristianamente parlando, il più estraneo di tutti - come quel musulmano che, l’altro ieri sera a Forlì, dopo aver sentito uno di noi presentare il libro Si può vivere così? (cfr. L.Giussani, Si può vivere cosi?, Bur, Milano 2001), è andato a parlargli, ed entusiasta aderiva a quanto aveva sentito; ma era già fratello nostro prima che si facesse avanti. Come è desiderabile, di fronte a chi si ama, la libertà all’educazione, nell’educazione, nell’aiutarlo a entrare in tutta la realtà! È desiderabile per me, quasi più di quanto sia desiderabile per una madre - la madre lo desidera per il figlio. Sarà l’esagerazione dell’amore! Ma non è esagerazione: è la logica dell’amore.



Libertà educativa. Non si può giocare politicamente, è vergognoso giocare politicamente con forze che neghino la libertà educativa! A meno che ci si lavori per cambiarle, ma bisogna essere realisti: non deve essere solo un sogno, ci devono essere dei motivi solidi per sperarlo - per sperare nella tua influenza, amico mio, altrimenti perdi tempo, ti illudi, Perciò, la libertà dell’educazione è la questione principale. Se un padre e una madre generano un figlio e non lo educano, verrebbe da usare le parole che Gesù disse a Giuda: «Sarebbe meglio per lui se non fosse mai nato» (Mt 26,24; Mc 14,21) (Gesù lo diceva di Giuda, perché il destino della vita dell’uomo è Lui: Gesù, il Verbo fatto carne, il Mistero fatto carne; e Giuda tradiva questo). La libertà d’educazione riguarda la famiglia non solo quando ha lì i bambini in casa, piccoli; ma quando deve mandarli all’asilo, quando deve mandarli alla scuola elementare, quando deve mandarli alla scuola media, e ancora di più quando li manda alla media superiore e all’università. Sembrano capaci di guidarsi da soli! E invece no! Bisogna assisterli, non con la mano stretta come quando sono piccoli, ma più da lontano; bisogna seguirli, però (come si accende la televisione da lontano col telecomando).



Terzo. La giustizia: che esista, in una vita sociale, una giustizia attivata seriamente, lealmente, innanzitutto rispettando quei diritti del singolo, della persona, che hanno caratterizzato la storia della giurisprudenza nella civiltà. La civiltà c’è quando la giurisprudenza rispetta questo, incomincia col rispettare questo. Non si può affermare una giustizia distruggendo il tessuto della vita di un popolo, distruggendo il benessere di un popolo, distruggendo la possibilità di uno sguardo futuro di un popolo, facendo smarrire i cuori più attenti. Non si possono perseguitare i valori primari della persona in nome di un sottile disegno politico: «Abbiamo già vinto», diceva un giudice. Come «abbiamo già vinto»? Prima di giudicare? Che terribile una società dove la giustizia non è giustizia! E perché sia più giustizia occorre innanzitutto che il giudice sia umile, cosciente del suo limite. Lo dico sempre ai ragazzi: «Per essere vero nel rapporto con qualsiasi persona, con qualsiasi cosa, il punto di partenza realistico è che sono peccatore. Allora mi avvicinerò con più rispetto, e con più pacatezza dirò: “sì”, “no”».



Quarto. Una vita politica che sia secondo una posizione ideale. Non può un partito essere partito di popolo se non ha un ideale che raggrumi quel popolo. Un popolo è formato attraverso un avvenimento particolare accaduto nel tempo, è unito da un ideale che esso persegue (conosciuto più, conosciuto meno, intuito più, intuito meno). Altrimenti si ha non un popolo, ma un gregge. È la tentazione più grande di chi ha il potere: rendere il popolo gregge; salvando tutte le forme, ma renderlo gregge! Pasolini usava la parola «omologazione» (cfr. P.P.Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1993, pp. 23, 41, 45ss, 50 e 54). «O popolo d’Italia, vecchio titano ignavo,/ Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo» (G.Carducci, Avanti! Avanti!, vv. 70-71, da Giambi ed epòdi, in Poesie, Garzanti, Milano 1993, p. 167), diceva nei Giambi ed epòdi, da giovane, Giosuè Carducci, sit venia verbis. Una politica che sia preoccupata non di una posizione ideale, ma di «riuscire» attraverso il potere conquistato, è una politica malvagia; e bisogna dirlo ai propri figli, ma prima di tutto a se stessi; bisogna gridarlo ai propri amici, bisogna gridarlo per le piazze e per le strade, scriverlo sul muri.



Una politica, dunque, che sia preoccupata di una posizione ideale. Questo stabilisce un’onda educativa, e questo realizza un respiro maggiore di libertà, un respiro più libero, perciò una creatività, una fantasia.



Perché non ci sono grandi creatori oggi? Perché è difficile, è più difficile che ci siano? Perché manca lo spazio per il respiro creatore. Bisogna che la politica realmente sia fatta da gente (e questo è un dovere nella scelta di chi ci rappresenta!) che abbia veramente interesse per l’uomo. È una premessa: dopo parleranno di economia, di ferrovie, di esercito, di servizi segreti; ma prima di tutto devono dimostrare un interesse per l’uomo, avere un interesse per l’uomo. Interesse per l’uomo: questo rende la politica seguace di Dio, perché Dio è il Signore, il politico per eccellenza, chi ha il potere - grazie a Dio - ultimamente irresistibile.



La religiosità, che è il punto suggeritore di tutta la nostra posizione, non è una cosa astratta: viene da molto lontano, da quando siamo stati creati, fatti, da prima dell’istante in cui padre e madre ci concepivano, ma dentro quelle viscere. Dentro quelle viscere c’era un’altra Presenza, che, come dice il Salmo 138 (andate a leggerlo se avete la Bibbia), era presente prima ancora che le viscere di mia madre mi plasmassero (Sal 139/138, 13 ss): viene da lontano, dunque, ma entra fino nei terminali ultimi dei nostri interessi (inter-esse: che gioca nel nostro essere, che c’entra col nostro essere, con me). Certo, la premessa che mi pare più importante è che uno senta se stesso, abbia pietà di sé, abbia ammirazione di sé. E almeno il fatto che io viva, che io esista, mi fa pieno di ammirazione e di stupore. Ammirazione verso chi mi fa, di cui partecipa la mia devozione a padre e madre: a mio papà e a mia mamma (io non ho mai parlato senza ricordarli, mai, in quarant’anni).