La stampa con l'elmetto. Una responsabilità seria

Giornalismo
Riccardo Piol

Il giornalismo, resoconto anonimo? È inevitabile la menzogna? Bisogna per forza stare da una parte? C’è bisogno di un filtro delle notizie? Il giornalista ha solo il compito di dare notizie o anche quello di «portare i feriti sulle spalle»? Questo e altro nel dibattito su “L’informazione in tempo di guerra”. Con Stefano Folli (Corriere della Sera), Pedro J. Ramirez (El Mundo), Wadah Khanfar (Al Jazeera), Gad Lerner (La7), Renato Farina (Libero)

«A voi giornalisti chiedo: provate a essere i portentosi provocatori della vita comune degli uomini». In un’intervista pubblicata dal quotidiano Libero, nell’agosto del 2002, don Giussani si rivolgeva così a Renato Farina dopo una fitta serie di domande e risposte che avevano toccato anche l’attualità di conflitti e terrorismo che in quell’estate scuoteva il mondo. Da allora molte cose sono avvenute e i fatti di allora si sono ripetuti e aggravati. La guerra non è più solo un fatto che riguarda l’Iraq, l’Afghanistan o la Terra Santa, ma è un clima che il mondo intero respira, una realtà quotidiana che affida a stampa e tv un’importanza sempre maggiore. Così, la richiesta di don Giussani a Farina non smette di essere attuale. E viene sempre più spesso da domandarsi come i giornalisti cerchino di rispondervi. Loro che della guerra possono essere osservatori, vittime, ma anche interpreti, che coscienza hanno della responsabilità che gli è affidata? Folli, direttore del Corriere della Sera, Lerner, giornalista tv, Ramirez, direttore dello spagnolo El Mundo, Khanfar, direttore di Al Jazeera, e Farina, vicedirettore di Libero, hanno cercato di rispondere a queste domande nell’incontro dedicato all’informazione in tempo di guerra. Che è stato l’occasione per capire dalla voce dei protagonisti cosa significhi raccontare un conflitto; per cercare di districarsi in quella Babele di opinioni per cui la guerra si può raccontare in tanti modi: come resoconto ufficiale, con menzogne necessarie, senza filtri, schierandosi, cercando la verità o i fatti.

Folli, distacco critico
« Non esiste un rapporto diretto tra guerra e informazione, esiste solo all’interno del più generale rapporto tra giornalismo e potere, dove il potere inevitabilmente è sempre avversario del giornalismo o, se preferite, il giornalismo ha la necessità di definirsi rispetto al potere, sia esso politico o economico, tanto più militare». Stefano Folli si è affidato a quel che ha chiamato «un paradosso» non per sviare dal problema, ma per far meglio comprendere la prova a cui è costretto ogni giornalista quando deve raccontare un conflitto: «O diventa propagandista di una causa, o corre il rischio di svolgere fino il fondo il suo lavoro». Un rischio che può significare mettere in discussione le proprie convinzioni come capitò a Montanelli quando «cercò di scrivere che la battaglia di Guadalajara, vinta dai franchisti e dagli italiani, non era stata nulla di epico, e si infilò così in un tunnel di grossi guai che lo portarono al suo distacco dal fascismo»; un rischio che può costare la vita, come è capitato a Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere in Afghanistan, uccisa dai talebani mentre «cercava di andare al di là della cappa di conformismo che inevitabilmente il potere militare tende a porre». Il rischio che ogni giornalista è chiamato a correre: non fermarsi alla superficie, «cercare i fatti - dice Folli -, e non la verità assoluta». Fatti che si possono trovare stando in Iraq anche come giornalisti enbed, al seguito di truppe da cui si dipende per gli spostamenti come per le notizie: «A un posto di blocco, una famiglia di nove persone fu uccisa per errore da militari americani. E questa notizia fu diffusa nel mondo - ricorda Folli - proprio da un giornalista enbed con quel reparto». Cosa ha permesso a quel giornalista di sottrarsi al rischio di manipolazione, di quella faziosità capace anche di nascondere la realtà? Folli parla di «anticorpi liberali»: il giornalista «non deve trasformarsi mai in militante di una causa», bensì «deve porsi con quel tanto di distacco critico che gli permetta di vedere i fatti, vedere con gli occhi e non con il cuore». Questi “anticorpi” non salvano i giornalisti dal dubbio, «come per esempio se si sia fatto abbastanza quando si pose il problema delle armi di distruzione di massa che furono la premessa dell’intervento in Iraq». Ma pongono l’argine possibile di un approccio leale alla realtà, pongono interrogativi essenziali per cercare di stare sui fatti.

Ramirez, il peso delle parole
Julio Fuentes e Julio Anguita Parrado sono morti in guerra, in Afghanistan e in Iraq. Lavoravano per il quotidiano spagnolo El Mundo, diretto da Pedro Ramirez. Che oggi li ricorda chiamandoli «le nostre due torri gemelle». «Come tanti altri giornalisti vittime dei conflitti - dice alla platea del Meeting - sono morti cercando la verità. Non una verità patriottica, religiosa, etnica o politicamente corretta, ma una verità di fatto, il cui obiettivo non era beneficiare nessun altro al di fuori dei lettori… Sapevano di non poter scoprire tutti gli aspetti rilevanti della verità, ma di poter contribuire a essa con elementi frammentari che, insieme ai contributi degli altri colleghi, avrebbero consentito ai cittadini di un Paese democratico come la Spagna, di avere i necessari elementi di giudizio per un’adeguata concezione di quello che stava accadendo». Ramirez parla del compito dei giornalisti come quello di un «contropotere indipendente», e vede una «crescente importanza della stampa nei processi decisionali di tutti i Paesi del mondo». Non nasconde i legami che nel mondo occidentale hanno sempre unito i media a gruppi economici e interessi politici, ma afferma che non si può rispondere ai condizionamenti che questa situazione produce sostenendo «il nuovo ordine informativo internazionale che per anni ha promosso l’Unesco»: una contrapposizione di media sotto l’influenza di governi e interessi occidentali a quella di media al servizio della causa del terzo mondo o dell’universo arabo. Mentre spiega che un simile progetto mina alla base il compito dell’informazione e presume che la libertà di stampa preceda la democrazia, Ramirez indica «i due criteri etici fondamentali che devono prevalere nel lavoro di ogni giornalista: i pregiudizi devono essere subordinati alla verità dei fatti; non si deve mai stimolare l’odio verso chi la pensa diversamente né verso l’avversario». E allora il pensiero va alle tante faziosità che questi criteri hanno tradito, ma soprattutto ad Al Jazeera e al suo direttore che sta ascoltando l’intervento del collega di El mundo. Quando poi Ramirez dice che «i giornalisti hanno una responsabilità nell’uso delle parole, perché un assassino non può essere al contempo un liberatore o un martire» si capisce che senza astio, ma con giusta chiarezza, le parole rivolte alla platea diventano domande per Wadah Khanfar e la tv satellitare araba.

Khanfar, scelte pericolose
« Ci sono due modi di guardare al giornalista di guerra. O ci si vede come qualcuno che deve parlare del campo di battaglia, di strategie e tattiche militari, del fronte e dei feriti; oppure si può parlare di persone che invocano, combattono, sono influenzate dalla guerra». Khanfar, direttore generale di Al Jazeera, prima di passare al timone della tv satellitare del Qatar, ha seguito come inviato i conflitti in Afghanistan e Iraq. Ed è da queste due esperienze che ricava la sua immagine di reporter di guerra. Racconta i suoi servizi durante l’arrivo della coalizione americana in Iraq, ricorda l’assedio e il saccheggio dell’università di Mosul e la titubanza «nel lasciare che le immagini parlassero da sole» con il rischio di scatenare scontri a catena tra etnie. E poi enuncia principi che sembrano gli stessi detti da Folli e Ramirez: «Il giornalismo è un’arte e non una scienza»; le uniche leggi da rispettare nel raccontare una guerra sono «la ricerca della verità, la responsabilità e l’integrità». Quando però arriva a toccare i temi più scottanti che riguardano Al Jazeera, cambia registro: i principi teorici lasciano il posto ad una realtà con troppe ombre, diventando anche pretesto per legittimare scelte che hanno poco a che vedere con parole come responsabilità o obiettività. Per giustificare l’ospitalità che Al Jazeera riserva ai video di Al Qaeda e delle tante sigle del terrorismo arabo, Khanfar si avventura in un’apologia della deontologia professionale della tv araba che suscita nei presenti più di una perplessità. «Consideriamo soltanto quegli elementi che valgono la pena di essere tenuti in considerazione ai fini dell’informazione - dice Khanfar -; non accettiamo di trasmettere qualsiasi azione di propaganda contenuta in questi video; collochiamo questo elemento di informazione nel contesto di un dibattito a più voci». Sa che Folli, Ramirez e gli altri colleghi seduti al suo stesso tavolo non approvano queste scelte, che le considerano come un’ambigua connivenza nei confronti del terrorismo. Eppure difende in modo energico la via all’informazione varata da Al Jazeera; per fugare ogni accusa di ambiguità ricorda che i suoi giornalisti sono spesso accusati o addirittura imprigionati da governi arabi. Quando però Folli gli dice che la tv del Qatar accetta dall’Occidente solo la tecnologia e non la sua difesa dei diritti, non riesce a rispondere, se non con un’altra domanda: «Dovrebbe essere tutto occidentale in Al Jazeera affinché voi ci accettiate? Noi siamo arabi, non siamo occidentali. E siccome siamo arabi al cento per cento non ci accettate?».

Lerner, difficoltà a comprenderci

«Questa guerra ha detto a noi giornalisti che quella del villaggio globale era una splendida utopia. Non esiste un villaggio globale, così come non esiste un pubblico mondiale». Gad Lerner si scosta dal rapporto tra potere e giornalismo in tempo di guerra per approcciare quello dei giornalisti con il loro popolo. «Per un attimo abbiamo creduto che il villaggio globale fosse vero: ai tempi della grande novità planetaria della Cnn, informazione in tempo reale, una centrale alla quale tutti gli altri media dovevano collegarsi se volevano sapere quel che stava succedendo. Ma poi la nostra globalizzazione mediatica si è spaccata in due; Al Jazeera è una grande novità da questo punto di vista, è una novità che al tempo stesso rileva e sottolinea di nuovo la nostra difficoltà a comprenderci». Una difficoltà che secondo Lerner è acuita dalla guerra e dal terrorismo, fatti in cui l’incapacità di incontro tra il mondo arabo e il mondo occidentale sfocia in un muro contro muro, dove nessuno cerca di comprendere l’altro e nessuno è capace di un giudizio che sappia entrare in merito alle ragioni e alle scelte dell’altro. «La facilità a semplificare propria della televisione» è, secondo Lerner, un punto cruciale per comprendere la responsabilità che l’informazione ha nello scardinare questa difficoltà a comprendere tanto il mondo arabo quanto quello occidentale.

Farina, raccontare la realtà
E Renato Farina, come a suggerire un primo passo per superare questo drammatico empasse, suggerisce a Khanfar di raccontare al mondo di Al Jazeera il Meeting «perché credo - dice il vicedirettore di Libero - che anche questo sia un modo di fare giornalismo di guerra» che non è soltanto raccontare gli scontri e le violenze, «le decisioni dei governi da una parte e le manifestazioni contro i governi dall’altra, ma anche raccontare una realtà come quella del Meeting che non è nichilista, che è un altro modo di rispondere al problema umano».