La trascuratezza dell’io

Da Luigi Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1996, pp. 9-11
Luigi Giussani


Il supremo ostacolo al nostro cammino umano è la «trascuratezza» dell’io. Nel contrario di tale «trascuratezza», cioè nell’interesse per il proprio io, sta il primo passo di un cammino veramente umano.
Sembrerebbe ovvio che si abbia questo interesse, mentre non lo è per nulla: basta guardare quali grandi squarci di vuoto si aprono nel tessuto quotidiano della nostra coscienza e quale sperdutezza di memoria. Infatti, i fattori costitutivi del «soggetto» umano non si colgono in astratto, non sono un «pregiudizio» ma risultano evidenti nell’io in azione, quando il soggetto è impegnato con la realtà.
Dietro la parola «io» c’è oggi una grande confusione, eppure la comprensione di cosa è il mio soggetto è il primo interesse. Infatti, il mio soggetto è al centro, alla radice di ogni mia azione (è un’azione anche un pensiero). L’azione è la dinamica con cui io entro in rapporto con qualsiasi persona o cosa. Se si trascura il proprio io, è impossibile che siano miei i rapporti con la vita, che la vita stessa (il cielo, la donna, l’amico, la musica) sia mia.
Per poter dire mio con serietà occorre esser limpidi nella percezione della costituzione del proprio io. Nulla è così affascinante come la scoperta delle reali dimensioni del proprio «io», nulla così ricco di sorprese come la scoperta del proprio volto umano.
E nulla è così commovente come il fatto che Dio si sia fatto uomo per dare l’aiuto definitivo, per accompagnare con discrezione, con tenerezza e potenza il cammino faticoso di ognuno alla ricerca del proprio volto umano. Non solo nella generazione di ogni cosa e nel dominio dei destini e delle circostanze Dio dimostra la sua paternità, ma anche, e specialmente, in questo suo accostarsi, compagno imprevisto e imprevedibile, al cammino con cui ognuno cresce nella figura del proprio destino.
La prima constatazione all’inizio di ogni seria indagine circa la costituzione del proprio soggetto è che la confusione che oggi domina dietro la fragile maschera (quasi un flatus vocis) del nostro io viene, in parte, da un influsso esterno alla nostra persona. Occorre tenere ben presente l’influsso decisivo che ha su di noi quello che il Vangelo chiama «il mondo» e che si mostra come il nemico del formarsi stabile, dignitoso e consistente di una personalità umana. C’è una pressione fortissima da parte del mondo che ci circonda (attraverso i mass-media, o anche la scuola, la politica) che influenza e finisce per ingombrare - come un pregiudizio - qualsiasi tentativo di presa di coscienza del proprio io. Paradossalmente, se ci schiacciano un dito sul tram o a scuola siamo prontissimi a reagire, a montare in rabbia. Se invece avvenga, come avviene, che tutta schiacciata, letteralmente soppressa o così intimidita da rimanere come inebetita sia la nostra personalità, il nostro io, questo lo subiamo tranquillamente tutti i giorni.
L’esito di tale oppressione o intimidazione è evidente: ormai la stessa parola «io» evoca per la stragrande maggioranza un che di confuso e fluttuante, un termine che si usa per comodità con puro valore indicativo (come «bottiglia» o «bicchiere»). Ma dietro la paroletta non vibra più nulla che potentemente e chiaramente indichi che tipo di concezione e di sentimento un uomo abbia del valore del proprio io.
Per questo si può dire che viviamo tempi in cui una civiltà sembra finire: l’evoluzione di una civiltà, infatti, è tale nella misura in cui è favorito il venire a galla e il chiarirsi del valore del singolo io. Siamo in un’età in cui è favorita, invece, una grande confusione riguardo al contenuto della parola io.
La conseguenza inevitabile e letteralmente tragica di tale confusione in cui si «dissolve» la realtà dell’io è il «dissolvimento» del termine tu.
L’uomo di oggi non sa dire coscientemente «tu» a nessuno. In ciò sta la radice ultima e apparentemente nascosta della violenza e della ricerca di potere che oggi determinano largamente i rapporti usuali tra le persone: essi, infatti, si basano perlopiù sulla sistematica riduzione dell’altro a un disegno di possesso e di uso, sulla assenza di qualsiasi stupore e commozione per l’esistenza dell’altro.