Mediterraneo. Si può vivere così?
EsteroQuesto il titolo dell’incontro inaugurale. In un momento così difficile
esiste la possibilità di un dialogo costruttivo per una politica di cooperazione,
di sviluppo e di pace? Ne hanno discusso: Magdi Allam, vicedirettore del Corriere
della Sera,
Giuseppe
Pisanu, ministro dell’Interno, Gianni De Michelis, presidente Ipalmo, Mario
Mauro, vice presidente del Parlamento europeo, e Giorgio Vittadini. Dialogo reale
e
sincero
Un mare che un po’ è lago e un po’ è oceano, acque
che separano e uniscono, onde che sono una pura estensione delle terre che bagnano
o che si ergono invalicabili tra città e tribù così diverse
e tuttavia così simili: il Mediterraneo è una storia e tante infinite
storie. E oggi? Dove è finito il Mediterraneo che abbiamo conosciuto sui
libri di scuola elementare (“culla delle civiltà”)? Dove sono
finiti, si chiede Giorgio Vittadini aprendo la tavola rotonda, quei “Giochi
del Mediterraneo”, che quelli della nostra età ricordano come un
bell’intermezzo tra le Olimpiadi, segno tangibile di intimità e
di amicizia?
Punto fondamentale per l’Europa
Era «un’epoca in cui il Mediterraneo, un luogo di cultura e di sviluppo,
era pensato come un punto fondamentale per l’Europa nata appena dieci anni
prima e una cooperazione pacifica tra i Paesi rivieraschi del nord e del sud».
Oggi, invece, grande è la confusione sotto il cielo, «confusione
che accomuna molto mondo politico, culturale, religioso». Ci sono le guerre,
parlarsi è diventato difficile, capirsi quasi impossibile. A leggere Oriana
Fallaci il Mediterraneo, visto dalla sponda nord, dall’Europa, deve far
paura: una interminabile (nel senso che non è mai terminata e non terminerà)
serie di assalti e scorribande e sgozzamenti e sbarchi clandestini. Le acque
si ritirano, ma il loro posto viene conquistato dal deserto. Si può vivere,
si può convivere così? È la domanda che si fa il Meeting
per bocca di Vittadini: «Noi vorremmo sapere se c’è una convivenza
realistica, che sappia distinguere - probabilmente è difficile distinguere
- tra fondamentalismo e non. Certamente la nostra categoria del senso religioso
entra nel merito della possibilità che un uomo possa costruire la sua
religione senza andar contro il desiderio di verità e di giustizia. Vorremmo
sapere se c’è questa possibilità innanzitutto, se c’è questa
possibilità di un dialogo che non sia confusione, qualcosa che costruisca
questo dialogo su una distinzione tra chi vuole la distruzione e chi no, e sulla
politica di cooperazione, di sviluppo e di pace». C’era un modello,
risponde il neo vicepresidente del Parlamento Europeo Mario Mauro, un esempio
chiamato Libano. Bisogna sapere che la piccola regione, affidata al mandato francese
in seguito al crollo dell’Impero Ottomano, era uscita dalla Seconda Guerra
Mondiale guadagnando l’indipendenza e la stabilità grazie a un complicato
e affascinante meccanismo costituzionale, frutto del negoziato tra politici cristiani
(soprattutto maroniti) e politici musulmani (soprattutto sunniti).
Un Patto che per quasi trenta anni era riuscito a garantire la convivenza tra
una quindicina di confessioni religiose, assicurando al Libano uno sviluppo sociale
culturale ed economico senza uguali in tutto il mondo arabo.
Involuzione del dialogo
Ma negli anni Settanta tutto è franato. Dove c’era scambio e costruzione,
dice Mario Mauro, oggi c’è «l’immagine dolorosa e recente
dell’involuzione di questo dialogo. Nel Libano ormai da tempo si è consumata
nell’indifferenza la marginalizzazione della cultura sociale e imprenditoriale
del cristianesimo maronita e anche la pulizia etnica dello stesso, riproponendo
il dramma di un sentimento di rivincita, quello musulmano, ormai organico a un
progetto di potere, tanto ideologico quanto finalizzato alle esigenze di forte
tutela di interessi e di gruppi dirigenti che ieri, se cerchiamo di ricordarlo
insieme, erano garantiti dall’alzare la bandiera di un secolarismo marxista
o nazionalista o pan arabo e oggi si trincerano invece dietro l’interpretazione
jahadista dell’islam». Con Mario Mauro dovremmo davvero rileggere
la storia recente del Mediterraneo a partire dal Libano, ne capiremmo certamente
qualcosa di più. Senza più modelli concreti dove guardare, allora?
Dove guardare, allora?
All’Europa, dice Mauro proponendo le linee di una politica europea totalmente
diversa. A un altro islam, suggerisce il giornalista e super esperto Magdi Allam
(«che tutti noi abbiamo letto in questi anni, un punto di chiarezza assoluta
su questa possibilità di dialogo culturale senza sincretismi, senza confusione,
che coraggiosamente ci ha mostrato la strada del discernere», questa la
presentazione di Vittadini). Che cita intellettuali e teologi musulmani del secolo
XIX, testimoni di un «pensiero islamico riformista fondato sul rispetto
e la valorizzazione della diversità, fino ad accarezzare una prospettiva
ecumenica tra le fedi e le culture, l’erede naturale di una storia millenaria
che ha visto il Mediterraneo fondersi in un contesto geopolitico unitario dove
i riferimenti geografici e storici si intersecano, si confondono e si amalgamano.
Tutte le grandi civiltà e i grandi imperi creati dall’uomo sono
delle realtà multietniche, multiculturali e multiconfessionali, da quella
egizia, a quella greca, da quella romana a quella cristiana, da quella musulmana
fino alle grandi nazioni contemporanee».
Una chiave, quella di Magdi Allam, che propone di superare l’esagerata
sottolineatura delle identità e riecheggia le tesi sul “meticciato
di civiltà” (ne parlerà anche il patriarca Angelo Scola,
il venerdì successivo). Di che cosa si tratta? «Abbiamo sempre studiato
le diverse civiltà del passato come entità a sé stanti,
con origini diverse e sviluppi originali. In pratica, invece di porre l'accento
sulle differenze tra le culture, evidenziamone le somiglianze e scopriremo che
in realtà ogni cultura, del passato e del presente, ha costruito la sua
specificità proprio connettendosi ad altre culture.
Deconnettere le civiltà dalle loro origini supposte è, forse, il
modo migliore di sfuggire al razzismo o, in ogni caso, di arrivare all'universale» (così spiega
il francese Jean-Loup Amselle, uno dei grandi studiosi del meticciato).
Patrimonio ignorato
C’è una nuova frontiera insomma alla quale guardare, un vecchio
e troppo spesso ignorato patrimonio al quale attingere. Nell’epoca delle
separazioni ostentate, delle etnicità stravolte, delle differenze conclamate,
la storia ci può insegnare anche connessioni, incroci, nuove universalità.
L’altra faccia del Mediterraneo. Che chiede alla cultura e alla politica
di manifestarsi, di ripercorrere strade magari abbandonate. Ma in questo frangente
storico proprio la politica ha perso molto tempo, aggiunge Gianni De Michelis, «almeno
dieci anni» (che in politica sono tanti, tantissimi). Per l’ex ministro
degli Esteri e attuale presidente dell’Ipalmo (Istituto per le relazioni
tra l’Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina e Medio Oriente,
ndr), uomo dalle visioni acute, l’Europa che ha spinto per il cambiamento
dello status quo all’Est, non ha saputo operare per il cambiamento dello
status quo al Sud, nel Mediterraneo. Eppure «ci si rioffre oggi, di nuovo,
l’occasione sprecata dopo il 1989-91, oggi in questo 2004, verso questo
2005». De Michelis pensa che essendo stato archiviato il capitolo dell’allargamento
a Est, per l’Europa si ripropone il tema del Sud. E cioè l’alternativa
se chiudere il “lato meridionale” o se invece saper sviluppare anche
verso quella direzione la logica di integrazione che ha sviluppato verso est.
Il momento è oggi, «perché la geografia mondiale dell’economia
cambia, cambia la mappa globale degli scambi, e di colpo la regione mediterranea
allargata ridiventa quel centro dell’ecumene che era stata per quattromila
anni, ruolo che aveva perso… Si rioffre l’opportunità, ecco
il punto: saremo capaci di coglierla, avremo la capacità politica e culturale,
la volontà di coglierla?» “Domandine” che investono
frontalmente anche l’Italia, sulla cui attuale classe dirigente, «sia
di maggioranza sia di opposizione, sia delle istituzioni», De Michelis
nutre dubbi cercando di condividerli («vero Beppe?») con un politico
di razza omologa, della vecchia generazione: Giuseppe Pisanu, ministro degli
Interni, attesissimo ospite della prima giornata riminese.
Visione non utopistica
Pisanu cita tre volte La Pira, il profeta del Mediterraneo “tenda della
pace”, ma la sua non è certo una visione utopistica: da politico
saggio sa che «il peggio cammina più velocemente del meglio».
Però. Però la realtà è grande e tanti fattori la
compongono. Dunque non è questione di ottimismo o pessimismo, ma di realismo.
Intanto «la paura genera mostri» e dunque non dobbiamo temere l’immigrazione,
senza la quale «l’Europa avrebbe il 2% in meno di popolazione attiva;
senza immigrati nella mitica Padania non si mungerebbe nemmeno una mucca» (boato,
applausi e complimenti dalla folla, pur molto padana). E poi dovremmo noi europei
sensibili preoccuparci di più, anzi inorridire, di fronte ai 1.167 morti
(sono quelli censiti ufficialmente) nel disperato tentativo di raggiungere clandestinamente
le nostre coste, le coste dello stesso Mediterraneo. Perciò, prima proposta
concreta, trasferire gli aiuti dall’Est (ormai allargato) all’Africa.
Facciamo «dell’immigrazione una opportunità, un grande ponte
umano tra le due principali sponde del Mediterraneo, come dice Giovanni Paolo
II, abbattiamo i muri e costruiamo ponti».
Evitare gli errori del passato
In secondo luogo, Pisanu tocca il tema dell’islam: «Ci sono 17 milioni
di musulmani in Europa; la diversità religiosa è una realtà».
Sulla spinta di Pisanu l’Europa ha adottato una «carta del dialogo
interreligioso» che «afferma testualmente che il dialogo interreligioso
può aiutare le nuove generazioni di europei a evitare gli errori del passato.
Va da sé che nel linguaggio diplomatico europeo gli errori del passato
si chiamano comunismo e nazifascismo… che sono anche i fratelli maggiori
del fondamentalismo islamico».
La seconda proposta è dunque fondata sul dialogo interreligioso «come
strumento di integrazione e coesione sociale delle nostre società».
Una sensibilità europea che punta a interloquire con una analoga sensibilità araba.
Si spera che a breve qualche ministro, qualche principe, qualche leader dell’altra
sponda mediterranea, anche tra i Paesi citati da Pisanu, come Arabia Saudita,
Egitto e l’intero Maghreb, promuova una simile carta che la grande “nazione
araba” possa adottare, anche per tutelare le povere comunità cristiane
locali. Al terzo punto c’è il terrorismo, ma su questo le parole
di un ministro degli Interni si possono facilmente immaginare. Vittadini conclude
duramente: «L’ideologia è roba nostra, nasce in Occidente.
E non è religione, anche se finge di essere religione. Costruisce un dio-serpente,
un dio-terrorista, un dio che permette a uno di saltar per aria, facendogli credere
che dopo avrà il suo premio: non è religione, è ideologia. È la
stessa ideologia dei cinici, degli scettici, dei nichilisti, che scrivono anche
sui nostri giornali, sono i padri del terrorismo, sono i padri occidentali del
terrorismo, infatti giungono a giustificarlo».
Desiderio contro ideologia
E anche dolcemente: «Cos’è contrapposto all’ideologia?
Questo desiderio di giustizia, di verità, di bellezza che alberga nel
cuore dell’uomo, che gli fa giudicare ogni cosa. E come abbiamo imparato
da don Giussani, il problema non è dire a uno: “Diventa dei miei”,
ma: “Vai a fondo nella tradizione che stai vivendo, paragonala con il tuo
cuore”. E allora dialogherò, camminerò insieme a chi desidera,
al musulmano che ha lo stesso mio desiderio e segue la sua strada, il suo percorso,
la sua tradizione. Percorrerò la stessa strada». Magari in nave,
nelle acque del nostro Mediterraneo.