Parlano di pace, preparano violenza. È l’opposizione “estremistica”

Marco Tarquino

Gli slogan sono suggestivi, a cominciare dall'«hic sunt leones» che recupera l'ideale, antica pietra di confine del mondo civile e la capovolge radicalmente in chiave no-global e anti-occidentale. Le intenzioni di lotta suonano non violente eppure bellicose: «Bloccheremo questa città coi nostri corpi e con la protesta dei cappucci». L'obiettivo dichiarato è trasformare la visita del presidente degli Stati Uniti George W. Bush - il prossimo 4 giugno, a 60 anni dalla liberazione di Roma dai nazisti a opera degli americani - in un tormento per l'ospite e, piaccia o non piaccia, in una giornata di rischiosi disordini e di gravi tensioni per la Città Eterna. Tant'è che la prova di forza s'inizierà già il 2 giugno, con il tentativo di impedire la tradizionale parata celebrativa della proclamazione della Repubblica Italiana.
Arrivano a chiamarla «guerra contro la guerra». Ovviamente l'unica guerra di cui oggi si parli nel nostro mondo senza pace. Quella che proprio George W. Bush volle fortissimamente combattere in Iraq poco più di un anno fa. Quella che insanguina un tragico dopoguerra che è impossibile chiamare pace. Quella che continua a sovrapporsi drammaticamente - senza per ora vincerlo - al conflitto scatenato con spietato calcolo e imprevedibile metodo dai terroristi di al-Qaeda.
« Guerra contro la guerra di Bush», insomma. E niente e nessuno pare in grado di distogliere dalle operazioni la galassia di gruppi e partiti che l'ha ingaggiata nel nome della pace. Non l'apertura in sede Onu di un cruciale negoziato sul futuro dell'Iraq. Non le proposte di mobilitazione alternativa (e niente affatto piazzaiola) articolate da leader e forze dell'opposizione parlamentare. Non i crescenti allarmi delle forze dell'ordine che, in giorni di supervigilanza anti-terrorismo, sono costrette a preoccuparsi anche per l'insinuarsi tra le fila dei manifestanti e, a maggior ragione, sotto gli annunciati, simbolici e protettivi, «cappucci neri della protesta anti-torture» di frange violente e di elementi anarco-insurrezionalisti, italiani e non solo.
Emerge in questo atteggiamento - encomiabilmente preoccupata dei grandi beni dell'umanità (la pace, la libertà, la dignità umana...), ma spesso stranamente noncurante del concreto qui e ora di popoli e città - l'ostinazione tipica di coloro che presumono di stare comunque dalla parte giusta e che, proprio per questo, giudicano con inscalfibile sicurezza chi sta dalla parte sbagliata. Basta del resto scorrere le dichiarazioni di certi portavoce - più o meno a viso scoperto - dei "disobbedienti" (e dei loro compagni di strada) per veder precipitati nella medesima malabolgia da nemici del genere umano torturatori americani ad Abu Ghraib, poliziotti di casa nostra in servizio di ordine pubblico, uomini politici italiani (soprattutto) di maggioranza e (un po') di opposizione oltre che, naturalmente, George W. Bush. Sentenze più o meno simili a quelle su torturatori iracheni ad Abu Ghraib, funzionari delle Nazioni Unite incaricati di indagare su armi proibite, uomini politici della «vecchia Europa» oltre che, naturalmente, su Saddam Hussein che ispirarono e accompagnarono la nuova guerra a guida americana nel Golfo Persico.
Nessuno se ne abbia a male. Non proponiamo di certo impossibili parallelismi (basti solo ricordare che nessun generale di Saddam redasse mai dossier d'accusa sui torturatori di regime...). Né intendiamo proporre salvacondotti per alcuno (in democrazia mille sono i modi per protestare dissenso). Vogliamo solo segnalare quella singolare propensione a ragionare secondo schemi da opposizione estremistica. Gli schemi di chi va alla guerra, anche se parla di pace. E che in momenti cruciali, incredibilmente, sembra non cogliere il desolante paradosso.