Per Laura o per Beatrice? Il mistero dell'amore
Dante-PetrarcaNon è una dicotomia, ma un distico. Moduli complementari più che
antitetici. Alle radici della cultura europea sta l’attenzione che Dante
e Petrarca hanno avuto
nel parlare anche di queste due donne, e nel parlare quindi di che cos’è il
loro destino. Ne parlano Giuseppe Mazzotta, Yale University, presidente della
Dante
Society
of America, ed Ezio Raimondi, professore emerito dell’Università degli
Studi di Bologna, presidente Ibs Emilia-Romagna
Laura o Beatrice? Il dilemma continua, ormai, da troppi secoli. Anche perché,
con tutto il rispetto, Laura o Beatrice è qualcosa di diverso da Naomi
Campbell o Claudia Schiffer, Coppi o Bartali, Maradona o Pelé. Laura o
Beatrice infatti è prima di tutto Petrarca o Dante. «Quando si ha
a che fare con due grandi classici - dice Davide Rondoni, poeta, scrittore, ma
soprattutto testimone rabdomantico e carsico assieme dell’irrequietezza
clandestina (non a caso è direttore della rivista ClanDestino) che ha
agitato corpi e spiriti dell’intellighenzia novecentesca -, ci si accorge
che il problema non è tanto che, da molti anni, da molti secoli si parla
di loro, ma è che da molti anni e da molti secoli loro parlano di noi».
C’è un altro motivo, però, per cui si continua a interrogarsi
su Laura o Beatrice in maniera del tutto diversa da come si parlerebbe di Roma
o Milan e Milano o Roma. Perché Laura o Beatrice non è una dicotomia,
ma un distico, che doppia gli autori e non si ferma alle sole tipologie femminili.
Laura e Beatrice non è rapporto di immagini, preferenza estetica, fenotipo
sessuale, quanto piuttosto eterno femminino, nel senso però di rapporto
non con la femmina, ma con la donna. Quindi con il divino alla portata di tutti,
con quel mistero dell’essere che da Eraclito al Cantico dei Cantici, dal
Vangelo a Courbet attraverso la donna si esprime.
Davanti all’esperienza d’amore
Laura o Beatrice non come paragone di figure quindi, tipi o caratteri, ma stato
di coscienza, di realtà, di consapevolezza dell’umano che si affaccia
davanti all’esperienza d’amore. Laura e Beatrice come vita, esperienza
di vita che di volta in volta si fa eros e thànatos, inizio e fine, sazietà e
fame, giorno e notte, nascita e morte, peccato e purificazione. Moduli speculari
più che contrapposti, complementari più che antitetici. Stereotipi
della nostra coscienza che, come direbbe Sallustio, il braccio destro dell’imperatore
Giuliano, «non furono mai eppure sono sempre»: metafore che cantano
l’impossibilità di disfarcene, di farla finita, di superare quel
dilemma che resta non alla base della nostra cultura di occidentali, ma della
nostra consapevolezza di uomini (e donne) d’Occidente. Ora giocata sull’immediatezza
del nostro desiderio, ora sulla sua iscrizione in un orizzonte più vasto,
infinito, atemporale. Laura e Beatrice come rappresentazione della propria umanissima
irripetibilità, che ora s’iscrive nell’hic et nunc della propria
essenzialità (come direbbe l’Heidegger di Essere e Tempo), ora sfida
l’ordine del memorabile, del non-soggetto-a-morte (come invece direbbe
Jean Hyppolite commentando l’Hegel della Fenomenologia).
Dalle Confessioni di Agostino
Sorte entrambe dalla riflessione sull’Agostino delle Confessioni, per cui
l’amore nobilita le facoltà del pensiero e fa scendere negli strati
profondi della soggettività, Laura resta «la modalità della
costituzione dell’io soggetto, che a sua volta diventa fondamento della
grande cultura umanistica e della cultura moderna», dice Giuseppe Mazzotta,
italianista sommo, da vent’anni a Yale, mentre «Beatrice la visione
poetico-teologica di Dante, che pone lei, e con lei tutto, nell’orizzonte
del divino e nell’apertura dell’io a Dio». Attualizzando, Laura
resta l’altra voce dell’Europa, che da Vittoria Colonna a Louise
Labé fino a Shakespeare si riprodurrà. E benché Petrarca
sappia, perché Narciso di Ovidio glielo aveva mostrato, che il piano esistenziale
dell’io rimane legato alla trascendenza, i suoi epigoni hanno sottolineato
e seguito l’autoriflessione, il gusto dell’introspezione, l’attrazione
reale per le ombre e la luce agonizzante della coscienza. Elevato il ripiegamento
su se stessi a cifra di ripiegamento dell’Europa moderna e della contemporaneità.
Rendendo apparentemente inattuale la voce di Dante, ma non per questo superandola,
anzi. Perché in questa sua doppia inattualità, in questa sua distanza
apparente dal nostro desiderio, Beatrice e Dante ritrovano la loro inesauribile
capacità di sorprenderci, proponendo un rapporto con il mistero e la bellezza,
la carne e la mente come un fascio di luce, energia che emana dal corpo di Beatrice
a illuminare l’Occidente tutto.
Il fascino di due classici
Anche secondo Ezio Raimondi, decano degli italianisti all’Università di
Bologna, oggi in cui l’ostentazione del sesso sembra il prerequisito per
la socialità e il gossip la decisiva categoria individuale, prima ancora
che giornalistica, «il mistero di Laura e Beatrice si svela con il fascino
di due classici, due inattuali, due essenze che superano le categorie temporali,
non perché siano morte, ma al contrario proprio perché vive, immortali.
Non donne ma rapporti, con il femminile, che continuano a dire, dunque a dare,
vita». E non è nominalismo, perché la vita, per come l’intende
l’Occidente anche non cristiano, comincia proprio con quel primo verbo,
quel primo lògos, quel nome proprio che resta la maglia simbolica delle
attese dei genitori: «Come la chiameremo, Laura o Beatrice?»