Per un nuovo inizio

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Luigi Giussani

Il 29 giugno scorso, nella Festa dei nostri santi patroni Pietro e Paolo, è avvenuta l’inaugurazione e la benedizione degli edifici che ampliano il nostro monastero. I nuovi locali rispondono alle esigenze più urgenti della Comunità (refettorio, cucina, biblioteca, alcune celle per i monaci) e consentono un’accoglienza più adeguata delle persone che per qualche giorno vogliono condividere più da vicino la nostra vita.

La Santa Messa per l’inaugurazione è stata presieduta da S.E. monsignor Giovanni Giudici, vicario generale della Diocesi di Milano. Vi hanno partecipato cordialmente circa quattrocento persone, segno di un popolo che ha accompagnato da vicino il nostro cammino e ha sostenuto in vario modo anche quest’opera di ampliamento.

Al termine della Messa il Priore ha ringraziato tutti per l’insostituibile aiuto. «In questa circostanza - ha detto padre Sergio - la cosa veramente grande è stata la scoperta di tanta gente che ci vuole bene e che sente quest’opera come un segno grande che sostiene la speranza di tutti. Davanti a questo miracolo chiediamo che riaccada per noi e per tutti un nuovo inizio nella fede in Gesù Cristo».

Come preparazione a questo “nuovo inizio”, nei mesi precedenti l’inaugurazione, abbiamo ripreso quello che don Giussani ci disse qui il 12 febbraio 1982, in risposta ad alcune nostre domande circa la crescita della comunione tra di noi. Vogliamo condividere con i lettori di Tracce la ricchezza che ci è stata offerta in quell’incontro, perché ci aiuta nella continua ripresa alla quale il Signore ci invita.

I monaci della Cascinazza


Dalla veloce lettura che ho fatto dei vostri fogli, mi pare che l’accento più urgente sia sulla comunione tra voi.
Io, prima di tutto, dico: non scandalizziamoci mai dei nostri difetti o dei limiti, degli errori in cui ci scopriamo versare, perché noi siamo dei ragazzini che devono imparare la strada di Dio. Perciò non meravigliamoci di essere limitati, non scandalizziamoci innanzitutto che la comunione sia vissuta poco. Tante volte la comunione è vissuta poco: tante volte noi stessi ci scopriamo non in posizione giusta, tante volte scopriamo gli altri non in posizione giusta. Se uno si scandalizza, paradossalmente è perché in quel momento non è impegnato con essa, non ci tiene veramente. Se uno ci tiene veramente, se uno desidera veramente, non si scandalizza di sentirsi peccatore. Perciò, prima di tutto, evitiamo qualsiasi scandalo e meraviglia su noi stessi e sugli altri.


È vero che questo potrebbe significare indifferenza, ma io non lo dico in questo senso. Dico che, se uno è pieno di passione per una virtù, per il valore, allora non si scandalizza di vederlo così poco realizzato, in sé e negli altri, ma questo è un dolore che lo spinge e lo incita di più. Questa è come una premessa importante, perché l’accusa che istintivamente sorge in me, quando un altro sbaglia su una cosa che mi interessa, non impedisca a me di crescere (poiché l’errore altrui è anche un modo con cui Dio chiede a me di crescere) e non mi impedisca il rapporto con lui, perciò non mi impedisca la comunione, la carità, con l’altro. Questa, dicevo, è come una premessa.


Ora dobbiamo anche dire che vivere la comunione non è poca cosa: è il tutto della vita cristiana, perché la vita cristiana è Cristo tra di noi che ci rende un solo corpo. E questo credo che sia il cuore della tradizione originaria benedettina, con la quale istintivamente il nostro movimento si è sentito fatto coincidere fin dagli inizi. Il cuore del nostro movimento è questo, e credo proprio che sia la discepolanza dalla storia originale benedettina che abbia fatto il nostro movimento così. Perciò non è poca cosa, è l’esempio che deve accadere.


Cristo presente! L’annuncio cristiano è che Dio è diventato uno di noi ed è qui presente, e ci raduna in un solo corpo, e attraverso questa unità la Sua presenza si rende sensibile. Questo è il cuore del messaggio benedettino dei primissimi tempi. Bene, questo definisce anche tutto quanto il messaggio del nostro movimento, ed è per questo che noi sentiamo la storia benedettina come quella a cui siamo più vicini, senza nessun paragone con le altre strade. Anche san Francesco (e tutte le altre forme cristiane) è questo, anche san Francesco sottolinea questo. Soltanto che il benedettinismo ha sottolineato l’organicità, le implicazioni organiche di questo: vuol dire che, per esempio, anche la realtà terrena deve essere messa dentro a questo Corpo - è la “liturgia” -, e che il lavoro umano esprime questa liturgia, la dilata durante tutta la giornata. Allora è tutta la vita che diventa vita del Corpo di Cristo. Comunque, questo è l’esempio che siete chiamati a dare a tutta la comunità cristiana: il richiamo della gente che verrà qui è questo, dovrà essere questo. Perciò, non è una cosa di poco conto!


Ora io vorrei sottolineare una cosa che è stata scritta da qualcuno nelle vostre lettere:La coscienza del perché siete qui insieme”. Quello che mi ha sempre fatto colpo, da quando sarei dovuto entrare dai frati Comboniani - in quinta ginnasio io avevo già fatto una domanda di entrare nei Comboniani -, quello che mi colpiva di più, che mi faceva più paura, era che sarei dovuto entrare in un ambito dove magari c’erano cinquanta persone, cinquanta caratteri diversi! Quando uno va in convento, che ne sa lui di quel che trova? Lo scopre dopo, appunto! Capite che la coscienza del perché siete qui insieme è la cosa veramente capitale!


Più di uno di voi l’ha sottolineato, questa è realmente la questione: la coscienza del perché siete qui. Come sarebbe possibile altrimenti la sopportazione vicendevole, o meglio, la comprensione vicendevole, il perdono vicendevole (“perdono” è la parola cristiana, “sopportazione” quella mondana), l’aiuto vicendevole? Io lo vedo nella compagnia del Gruppo Adulto, in cui c’è gente che, umanamente parlando, non mi sarebbe piaciuta, per la quale, non so, non avrei avuto simpatia: ma quando il Signore ti mette insieme, dopo diventa realmente un’affezione, come tra fratelli, anche la lontananza di una non-simpateticità si muta in un’affezione come tra fratelli, ci tieni all’altro come a un tuo fratello. Ma quello che voglio sottolineare adesso è la “coscienza del motivo per cui siete qui”. La “coscienza del motivo per cui siete qui” è il contenuto di quella vigilanza per cui la memoria di Cristo diventa proprio la coscienza che ci “insegue” dappertutto. Insomma, bisogna che poniate continuamente a tema di voi stessi il motivo per cui siete insieme agli altri, e il motivo è la presenza di Cristo, affinché possiate rendere testimonianza, con la vostra unità, al mondo.


Se questo è forte, allora i problemi della convivenza tra di voi possono trovare una soluzione: diventano più facili il superamento dell’indifferenza e dell’incomprensione. Insomma, una madre, verso suo figlio, farebbe come tante volte noi facciamo tra di noi? No! Cercherebbe di capirlo. Ma, allora, vale di più la carne dello Spirito? Occorre il perdono per il diverso. Io lo dico sempre, il perdono è l’abbraccio del diverso. Però, perché questo avvenga, molto di più che fare il proposito di perdonare, di comprendere, di lasciar correre, molto più che fare il proposito diretto, è meglio incominciar a fare il proposito della coscienza del perché siamo insieme, del motivo “per cui”: se aumenta questa coscienza del motivo per cui devo comprendere, non essere indifferente e perdonare, allora diventa più facile anche il perdonare, il comprendere, eccetera.


E questo sia il punto di questa volta. Però, io devo aggiungere una cosa. Se la vostra testimonianza davanti agli angeli di Dio (la prima testimonianza è davanti agli angeli di Dio, perché gli uomini, sempre, possono anche non vederla, o sembrare non vederla, ma gli angeli la vedono sempre), se la caratteristica della vostra testimonianza è Cristo presente tra di voi, che vi unisce in comunione con sé e tra voi, che vi rende una cosa sola (per cui la testimonianza di questa “cosa sola” è il compito che avete nella Chiesa di Dio), la salvaguardia di questa comunione è duplice, ha come due poli.


a) Il primo polo è che mettiate in comune voi stessi senza pretendere dall’altro. È giusto: se siete qui, è perché volete essere qui con della gente che metta in comunione se stessa; ma questo senza pretendere dall’altro - nel senso di “misurare” -, perché uno può essere capace di mettere in comune il venti per cento adesso, e fra tre anni metterà in comune il sessanta: è una crescita. Occorre mettere in comune voi stessi, quindi i vostri giudizi, eccetera; il dialogo, insomma: il dialogo è la prima opera comune. Il primo polo dunque è mettere in comune voi stessi.


b) L’altro polo - questo rimane il punto dove il Mistero incide la nostra carne - è l’obbedienza all’autorità. Anche se adesso l’autorità fra di voi è così familiare e così fraterna, voi non dovete perdere il vantaggio del valore dell’obbedienza, che è una dimensione della coscienza con cui fate le cose. Dovete valorizzare il fatto dell’obbedienza - e questo dipende dalla vostra coscienza -, perché è questo che, al momento opportuno, quando ci sono le discrepanze, quando ci sono le scintille, o quando ci fosse la stanchezza, vi rende più disponibili alla “riaccensione”, come dire, all’impulso che l’autorità dà. Questo secondo polo dell’obbedienza non lo richiamo - spero che non ce ne sia già necessità! - perché ci sia chissà quale pericolo di divisione, ma perché abbiate a viverla come dimensione dello spirito. Così, quando ci sarà bisogno, anche disciplinarmente, sarete disposti. Perché dall’obbedienza non si può scivolar via. Anche i riconoscimenti del Vescovo, o della Santa Sede, sono degli atti di obbedienza, no? E credo che questo sia un tema su cui voi dovete insegnarmi: il valore dell’obbedienza nell’esperienza di san Benedetto!