Quale pace per l'Africa. La speranza giovane
EsteroUna tragedia immutabile di guerre e povertà. Ma anche la vicenda di Paesi
dove il dialogo prova a sostituire le armi e dove emergono segni di speranza
da incoraggiare. Ne hanno parlato Samson Lukare Kwaje, del Movimento di liberazione
del Sudan, Abdel Rahman Mohamed, del Consiglio Internazionale dell’Amicizia
fra i Popoli in Sudan, monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, Alie
Surrur, segretario del Presidente della Sierra Leone
«Dei 48 anni della nostra indipendenza, 38 sono passati in guerre fratricide».
Samson Lukare Kwaje, portavoce del Movimento di liberazione del Sudan (Splm), è parte
in causa di una delle guerre di cui parla. Ha vissuto da protagonista la più lunga
e sanguinosa, tra il governo centrale, arabo e islamico, e la sua gente del sud-nero,
animista e cristiano. Un conflitto che è durato 21 anni, sino ai colloqui
di pace iniziati a maggio, ma che il recente scoppio della guerra nel Darfur,
nell’ovest del Sudan, ha già fermato. Kwaje sa che questo nuovo
conflitto ha ragioni profonde, in parte le assimila a quelle che hanno spinto
l’Splm ad armarsi. Ma non fa una requisitoria contro il governo. Parla
invece di soluzioni per una guerra che, anche se non è la sua, riporta
il Sudan sull’orlo di quel baratro da cui vuole fuggire. Propone «l’intervento
dell’Splm come parte del governo sudanese», invoca gli aiuti umanitari,
suggerisce «trattative sul modello del negoziato avviato dall’Splm».
E parla sapendo che non lo ascolta solo la platea del Meeting, ma anche un altro
sudanese seduto accanto a lui. E l’onorevole Mauro, vicepresidente del
Parlamento Europeo, l’onorevole Mantica, sottosegretario agli Esteri in
Italia, il dottor Alberti, presidente di Avsi: rappresentanti di governi e ong
straniere che possono aiutare il suo Paese.
Il Sudan
«
Non voglio ripetere quanto il fratello Kwaje ha già detto con grande obiettività;
ci sono delle sfumature, ma in linea di principio appoggio veramente le sue parole». È così che
Ahmed Abdel Rahman Mohamed si presenta. Sudanese come Kwaje, ha però vissuto
il conflitto tra nord e sud stando dalla parte opposta. Non è un uomo
del governo, è segretario generale del Consiglio Internazionale dell’Amicizia
fra i Popoli. Eppure porta al Meeting i saluti del vicepresidente sudanese, come
a dire che l’apprezzamento per le parole del portavoce dell’Splm
non è solo suo. Parla anche lui del Darfur: «Il risultato della
negligenza passata del governo»; degli accordi con il sud Sudan, per cui
si appella «all’Italia e all’Europa perché ci aiutino
a riprendere i colloqui di pace». Poi rivolge l’attenzione al nord
Uganda dove da quasi vent’anni i ribelli del Lord’s Resistance Army
(Lra) massacrano la popolazione acholi e rapiscono bambini per farne soldati: è un’altra
guerra. Che però riguarda ancora il suo Paese. Perché e lì che
l’Lra ha le sue basi, e perché i ribelli possono essere fermati
solo da trattative con Uganda e Sudan, insieme. «Io sono convinto - dice
Ahmed Abdel Rahmed - che questo conflitto possa essere risolto solo con un dialogo
continuo». E come già aveva fatto Kwaje con lui, parla alla platea
del Meeting, ma anche a un altro ospite, quello ugandese, che gli siede affianco
sullo stesso tavolo.
L’Uganda
Monsignor Odama è arcivescovo a Gulu, nel Nord Uganda. Non comanda un
esercito. Ma il dramma della sua gente e la forza della fede lo rendono autorevole
come un uomo di governo. Che parla di «un Paese unificato di diverse popolazioni,
filosofie, credi religiosi», a partire dalla sua esperienza di dialogo
con i tanti leader spirituali che insieme a lui lavorano per la fine della guerra. «L’ecumenismo
ci chiama a tener fede alle nostre parole e a noi stessi, come dice don Giussani.
E il dialogo interreligioso, la fede come tramite d’esperienza porta frutti
concreti di pace». Per la sua ostinata difesa del dialogo e le sue continue
denunce contro la guerra, è finito nella lista nera del Lra perché difende
la sua gente e a tutti racconta cosa soffre. Ma dà fastidio anche al governo
di Kampala, soprattutto quando ricorda che «la spesa militare in Uganda è il
23% del bilancio complessivo del Paese… e nessuno può pensare che
le armi siano mai riuscite a portare la pace in un conflitto».
«
Abbiamo combattuto i ribelli dalla terra, dal mare, con tutte le armi possibili.
Non li abbiamo mai vinti. Soltanto il negoziato e la comprensione possono risolvere
questi problemi». Alie Surrur, primo segretario del Presidente della Sierra
Leone, porta l’esempio del suo Paese che ha sofferto nella violenza come
il Sudan e l’Uganda, ma che oggi vive l’inizio della pace. Una pace
che sta iniziando a mettere fragili radici anche perché «gli africani
- ricorda l’onorevole Mantica - stanno assumendosi responsabilità fino
a qualche tempo fa sconosciute»: organizzazioni regionali di Stati, forze
di peacekeeping comuni, un’Unione Africana che raccoglie tutti i Paesi
del continente, «novità a cui dare una risposta positiva aiutando,
finanziando quando necessario, e soprattutto cercando di favorire i processi
di pace». Perché dopo la Liberia, la Sierra Leone, il Ruanda e l’Angola
anche altri Paesi possano cominciare a percorrere le strade della pace.