Quale pace per l'Africa. La speranza giovane

Estero
Riccardo Piol

Una tragedia immutabile di guerre e povertà. Ma anche la vicenda di Paesi dove il dialogo prova a sostituire le armi e dove emergono segni di speranza da incoraggiare. Ne hanno parlato Samson Lukare Kwaje, del Movimento di liberazione del Sudan, Abdel Rahman Mohamed, del Consiglio Internazionale dell’Amicizia fra i Popoli in Sudan, monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, Alie Surrur, segretario del Presidente della Sierra Leone

«Dei 48 anni della nostra indipendenza, 38 sono passati in guerre fratricide». Samson Lukare Kwaje, portavoce del Movimento di liberazione del Sudan (Splm), è parte in causa di una delle guerre di cui parla. Ha vissuto da protagonista la più lunga e sanguinosa, tra il governo centrale, arabo e islamico, e la sua gente del sud-nero, animista e cristiano. Un conflitto che è durato 21 anni, sino ai colloqui di pace iniziati a maggio, ma che il recente scoppio della guerra nel Darfur, nell’ovest del Sudan, ha già fermato. Kwaje sa che questo nuovo conflitto ha ragioni profonde, in parte le assimila a quelle che hanno spinto l’Splm ad armarsi. Ma non fa una requisitoria contro il governo. Parla invece di soluzioni per una guerra che, anche se non è la sua, riporta il Sudan sull’orlo di quel baratro da cui vuole fuggire. Propone «l’intervento dell’Splm come parte del governo sudanese», invoca gli aiuti umanitari, suggerisce «trattative sul modello del negoziato avviato dall’Splm». E parla sapendo che non lo ascolta solo la platea del Meeting, ma anche un altro sudanese seduto accanto a lui. E l’onorevole Mauro, vicepresidente del Parlamento Europeo, l’onorevole Mantica, sottosegretario agli Esteri in Italia, il dottor Alberti, presidente di Avsi: rappresentanti di governi e ong straniere che possono aiutare il suo Paese.

Il Sudan
« Non voglio ripetere quanto il fratello Kwaje ha già detto con grande obiettività; ci sono delle sfumature, ma in linea di principio appoggio veramente le sue parole». È così che Ahmed Abdel Rahman Mohamed si presenta. Sudanese come Kwaje, ha però vissuto il conflitto tra nord e sud stando dalla parte opposta. Non è un uomo del governo, è segretario generale del Consiglio Internazionale dell’Amicizia fra i Popoli. Eppure porta al Meeting i saluti del vicepresidente sudanese, come a dire che l’apprezzamento per le parole del portavoce dell’Splm non è solo suo. Parla anche lui del Darfur: «Il risultato della negligenza passata del governo»; degli accordi con il sud Sudan, per cui si appella «all’Italia e all’Europa perché ci aiutino a riprendere i colloqui di pace». Poi rivolge l’attenzione al nord Uganda dove da quasi vent’anni i ribelli del Lord’s Resistance Army (Lra) massacrano la popolazione acholi e rapiscono bambini per farne soldati: è un’altra guerra. Che però riguarda ancora il suo Paese. Perché e lì che l’Lra ha le sue basi, e perché i ribelli possono essere fermati solo da trattative con Uganda e Sudan, insieme. «Io sono convinto - dice Ahmed Abdel Rahmed - che questo conflitto possa essere risolto solo con un dialogo continuo». E come già aveva fatto Kwaje con lui, parla alla platea del Meeting, ma anche a un altro ospite, quello ugandese, che gli siede affianco sullo stesso tavolo.

L’Uganda
Monsignor Odama è arcivescovo a Gulu, nel Nord Uganda. Non comanda un esercito. Ma il dramma della sua gente e la forza della fede lo rendono autorevole come un uomo di governo. Che parla di «un Paese unificato di diverse popolazioni, filosofie, credi religiosi», a partire dalla sua esperienza di dialogo con i tanti leader spirituali che insieme a lui lavorano per la fine della guerra. «L’ecumenismo ci chiama a tener fede alle nostre parole e a noi stessi, come dice don Giussani. E il dialogo interreligioso, la fede come tramite d’esperienza porta frutti concreti di pace». Per la sua ostinata difesa del dialogo e le sue continue denunce contro la guerra, è finito nella lista nera del Lra perché difende la sua gente e a tutti racconta cosa soffre. Ma dà fastidio anche al governo di Kampala, soprattutto quando ricorda che «la spesa militare in Uganda è il 23% del bilancio complessivo del Paese… e nessuno può pensare che le armi siano mai riuscite a portare la pace in un conflitto».
« Abbiamo combattuto i ribelli dalla terra, dal mare, con tutte le armi possibili. Non li abbiamo mai vinti. Soltanto il negoziato e la comprensione possono risolvere questi problemi». Alie Surrur, primo segretario del Presidente della Sierra Leone, porta l’esempio del suo Paese che ha sofferto nella violenza come il Sudan e l’Uganda, ma che oggi vive l’inizio della pace. Una pace che sta iniziando a mettere fragili radici anche perché «gli africani - ricorda l’onorevole Mantica - stanno assumendosi responsabilità fino a qualche tempo fa sconosciute»: organizzazioni regionali di Stati, forze di peacekeeping comuni, un’Unione Africana che raccoglie tutti i Paesi del continente, «novità a cui dare una risposta positiva aiutando, finanziando quando necessario, e soprattutto cercando di favorire i processi di pace». Perché dopo la Liberia, la Sierra Leone, il Ruanda e l’Angola anche altri Paesi possano cominciare a percorrere le strade della pace.