«Simone, mi ami tu?»

Da L.Giussani - S.Alberto - J.Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, pp. 82-85
Luigi Giussani


Il capitolo ventunesimo del Vangelo di Giovanni è la documentazione affascinante del sorgere storico dell’etica nuova. La storia particolare che vi si documenta è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo.
I discepoli erano di ritorno, all’alba, da una brutta nottata sul lago, in cui non avevano pescato nulla. Vicino alla riva, vedono sulla spiaggia una figura che s’adoperava per accendere il fuoco. Avrebbero visto dopo che sul fuoco c’erano pesci raccolti per loro, per la fame di quel primo mattino. Ad un certo punto Giovanni dice a Pietro: «Ma quello è il Signore!». Allora si aprono gli occhi di tutti e Pietro si butta in acqua, così com’è, e giunge per primo a riva. Seguono gli altri. Si dispongono in cerchio, in silenzio: nessuno parla, perché tutti sanno che è il Signore. Sdraiati per mangiare, dicono tra loro qualche parola, ma sono tutti intimiditi dall’eccezionale presenza di Gesù, Gesù risorto, che era già apparso loro in più circostanze.
Simone, che i molti errori avevano reso il più umile di tutti, steso pure lui a terra davanti al cibo preparato dal Maestro, guarda chi ha vicino e con stupore e tremore vede che è Gesù. Allora volge via lo sguardo da Lui e resta così, impacciato. Ma Gesù gli parla. Pietro pensa in cuor suo: «Dio mio, Dio mio, quanto rimprovero merito! Adesso mi dirà: “Perché mi hai tradito?”». Il tradimento era stato l’ultimo grosso errore fatto, ma tutta la sua vita, anche nella familiarità con il Maestro, era stata tribolata, per via del suo carattere impetuoso, della sua imponenza istintiva, del suo farsi avanti senza calcoli. Tutto di sé egli vedeva alla luce dei suoi difetti. Quel tradimento aveva fatto emergere con chiarezza in lui il resto dei suoi errori, quanto lui non valesse niente, quanto fosse debole, debole da far compassione. «Simone...» - chissà che brivido mentre quella parola si scandiva dentro il suo orecchio toccandogli il cuore -, «Simone...» - e qui avrà accennato a voltare verso Gesù la sua faccia -, «...mi ami tu?». Chi si sarebbe mai aspettato quella domanda? Chi si sarebbe atteso quella parola?
Pietro era un uomo di quaranta o cinquant’anni, con famiglia e figli, eppure così bambino di fronte al mistero di quel compagno incontrato per caso! Immaginiamoci come si sarà sentito trapassare da quello sguardo che lo conosceva in ogni sua parte. «Ti chiamerai Cefa» (cfr. Gv 1,42): il suo caratteraccio era identificato con quella parola, «pietra», e l’ultimo pensiero era per lui immaginare che cosa il mistero di Dio e il mistero di quell’Uomo - Figlio di Dio - avrebbero fatto con quella pietra, di quella pietra. Dal primo incontro Egli ingombrò tutto il suo animo, tutto il suo cuore. Con quella presenza dentro il cuore, con la memoria continua di Lui, guardava la moglie e i bambini, i compagni di lavoro, gli amici e gli estranei, i singoli e le folle, e pensava e s’addormentava. Quell’Uomo era diventato per lui come una grande, immensa rivelazione non ancora chiarita.
«Simone, mi ami tu?» «Sì, Signore, io Ti amo». Come faceva a dire così dopo tutto quello che aveva fatto? Quel «sì» era l’affermazione del riconoscimento di una eccellenza suprema, di una eccellenza innegabile, di una simpatia che travolgeva tutte le altre. Tutto restava inscritto in quel loro sguardo, coerenza e incoerenza era come se passassero finalmente in secondo ordine, dietro alla fedeltà che sentiva carne della sua carne, dietro alla forma di vita che quell’incontro aveva plasmato.
Di fatto non ci fu nessun rimprovero. Risuonò solo la stessa domanda: «Simone, mi ami tu?». Non incerto, ma timoroso e tremante, rispose di nuovo: «Sì, io Ti amo». Ma la terza volta, la terza volta che Gesù gli rivolse la domanda, dovette chiedere la conferma di Gesù stesso: «Sì, Signore, Tu lo sai, io Ti amo. Per Te è tutta la mia preferenza d’uomo, tutta la preferenza dell’animo mio, tutta la preferenza del mio cuore. Tu sei l’estrema preferenza della vita, l’eccellenza suprema delle cose. Io non lo so, non so come, non so come dirlo e non so come sia, ma nonostante tutto quello che ho fatto, nonostante quello che posso fare ancora, io Ti amo».
Questo «sì» è la scaturigine della moralità, il primo fiato di moralità sul deserto arido dell’istinto e della pura reazione. La moralità affonda la sua radice nel «sì» di Simone, e questo «sì» può attecchire nella terra dell’uomo solo per una Presenza dominante, compresa, accettata, abbracciata, servita con tutto lo slancio del proprio cuore che solo così può ritornare bambino. Senza Presenza non c’è gesto morale, non c’è moralità.
Ma perché il «sì» di Simone a Gesù è scaturigine della moralità? Non vi sono prima i criteri di coerenza e incoerenza?
Pietro ne aveva fatte di tutti i colori, eppure viveva una simpatia suprema per Cristo. Capiva che tutto in sé tendeva a Cristo, che tutto si raccoglieva in quegli occhi, in quella faccia, in quel cuore. I peccati passati non potevano costituire obiezione e nemmeno tutta l’immaginabile sua incoerenza futura: Cristo era la fonte, il luogo della sua speranza. Gli avessero pure obiettato quello che aveva fatto o quello che avrebbe potuto fare, Cristo rimaneva, attraverso le nebbie di quelle obiezioni, la fonte di luce della sua speranza. Ed egli Lo stimava sopra ogni altra cosa, dal primo momento in cui si era sentito fissato da Lui, guardato da Lui: Lo amava per questo.
«Sì, Signore, Tu sai che sei l’oggetto della mia simpatia suprema, della mia stima suprema»: così nasce la moralità. Eppure l’espressione è molto generica: «Sì, io Ti amo»; ma è tanto generica quanto generatrice di una diversità di vita perseguita.
«Chiunque ha questa speranza in Lui purifica se stesso come Egli è puro» (1 Gv 3,3). La nostra speranza è in Cristo, in quella Presenza che, per quanto distratti e smemorati, non riusciamo più a togliere - non fino all’ultimo briciolo, almeno - dalla terra del nostro cuore per tutta la tradizione dentro la quale Egli è giunto fino a noi. È in Lui che io ho speranza, prima di avere contato i miei errori e le mie virtù. Non c’entrano, qui, i conti numerici. Nel rapporto con Lui il numero non c’entra, il peso misurato e misurabile non c’entra, e tutta la possibilità di male che in me può realizzarsi nel futuro, anche questa non c’entra, non riesce ad usurpare il titolo primario che possiede davanti agli occhi di Cristo il «sì» di Simone, da me ripetuto. Allora viene un fiotto dal fondo di noi, come un respiro che salga dal petto e inebrii tutta la persona e la faccia agire, le faccia desiderare di agire in modo più giusto: scaturisce, scatta dal fondo del cuore, il fiore del desiderio della giustizia, dell’amore vero, autentico, della capacità di gratuità. Come l’inizio di ogni nostra mossa non è un’analisi di ciò che gli occhi vedono, ma un abbraccio di ciò che il cuore attende, così la perfezione non è l’espletare delle leggi, ma l’adesione a una Presenza.
Solo l’uomo che vive questa speranza in Cristo continua tutta la sua vita nell’ascesi, nello sforzo per il bene. E anche quando egli sia palesemente contraddittorio, desidera il bene. Questo vince sempre, nel senso che è l’ultima parola su di sé, sulla propria giornata, su quello che si fa, su quel che si è fatto, su quello che si farà. L’uomo che vive questa speranza in Cristo continua nell’ascesi. La moralità è una tensione continua al «perfetto» che nasce da un avvenimento in cui un rapporto col divino, col Mistero, è segnato.

«Simone, mi ami tu?»

Antologia
Luigi Giussani

Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, pp. 82-85


Il capitolo ventunesimo del Vangelo di Giovanni è la documentazione affascinante del sorgere storico dell’etica nuova. La storia particolare che vi si documenta è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo.


I discepoli erano di ritorno, all’alba, da una brutta nottata sul lago, in cui non avevano pescato nulla. Vicino alla riva, vedono sulla spiaggia una figura che s’adoperava per accendere il fuoco. Avrebbero visto dopo che sul fuoco c’erano pesci raccolti per loro, per la fame di quel primo mattino. Ad un certo punto Giovanni dice a Pietro: «Ma quello è il Signore!». Allora si aprono gli occhi di tutti e Pietro si butta in acqua, così com’è, e giunge per primo a riva. Seguono gli altri. Si dispongono in cerchio, in silenzio: nessuno parla, perché tutti sanno che è il Signore. Sdraiati per mangiare, dicono tra loro qualche parola, ma sono tutti intimiditi dall’eccezionale presenza di Gesù, Gesù risorto, che era già apparso loro in più circostanze.


Simone, che i molti errori avevano reso il più umile di tutti, steso pure lui a terra davanti al cibo preparato dal Maestro, guarda chi ha vicino e con stupore e tremore vede che è Gesù. Allora volge via lo sguardo da Lui e resta così, impacciato. Ma Gesù gli parla. Pietro pensa in cuor suo: «Dio mio, Dio mio, quanto rimprovero merito! Adesso mi dirà: “Perché mi hai tradito?”». Il tradimento era stato l’ultimo grosso errore fatto, ma tutta la sua vita, anche nella familiarità con il Maestro, era stata tribolata, per via del suo carattere impetuoso, della sua imponenza istintiva, del suo farsi avanti senza calcoli. Tutto di sé egli vedeva alla luce dei suoi difetti. Quel tradimento aveva fatto emergere con chiarezza in lui il resto dei suoi errori, quanto lui non valesse niente, quanto fosse debole, debole da far compassione. «Simone...» - chissà che brivido mentre quella parola si scandiva dentro il suo orecchio toccandogli il cuore -, «Simone...» - e qui avrà accennato a voltare verso Gesù la sua faccia -, «...mi ami tu?». Chi si sarebbe mai aspettato quella domanda? Chi si sarebbe atteso quella parola?


Pietro era un uomo di quaranta o cinquant’anni, con famiglia e figli, eppure così bambino di fronte al mistero di quel compagno incontrato per caso! Immaginiamoci come si sarà sentito trapassare da quello sguardo che lo conosceva in ogni sua parte. «Ti chiamerai Cefa» (cfr. Gv 1,42): il suo caratteraccio era identificato con quella parola, «pietra», e l’ultimo pensiero era per lui immaginare che cosa il mistero di Dio e il mistero di quell’Uomo - Figlio di Dio - avrebbero fatto con quella pietra, di quella pietra. Dal primo incontro Egli ingombrò tutto il suo animo, tutto il suo cuore. Con quella presenza dentro il cuore, con la memoria continua di Lui, guardava la moglie e i bambini, i compagni di lavoro, gli amici e gli estranei, i singoli e le folle, e pensava e s’addormentava. Quell’Uomo era diventato per lui come una grande, immensa rivelazione non ancora chiarita.


«Simone, mi ami tu?» «Sì, Signore, io Ti amo». Come faceva a dire così dopo tutto quello che aveva fatto? Quel «sì» era l’affermazione del riconoscimento di una eccellenza suprema, di una eccellenza innegabile, di una simpatia che travolgeva tutte le altre. Tutto restava inscritto in quel loro sguardo, coerenza e incoerenza era come se passassero finalmente in secondo ordine, dietro alla fedeltà che sentiva carne della sua carne, dietro alla forma di vita che quell’incontro aveva plasmato.


Di fatto non ci fu nessun rimprovero. Risuonò solo la stessa domanda: «Simone, mi ami tu?». Non incerto, ma timoroso e tremante, rispose di nuovo: «Sì, io Ti amo». Ma la terza volta, la terza volta che Gesù gli rivolse la domanda, dovette chiedere la conferma di Gesù stesso: «Sì, Signore, Tu lo sai, io Ti amo. Per Te è tutta la mia preferenza d’uomo, tutta la preferenza dell’animo mio, tutta la preferenza del mio cuore. Tu sei l’estrema preferenza della vita, l’eccellenza suprema delle cose. Io non lo so, non so come, non so come dirlo e non so come sia, ma nonostante tutto quello che ho fatto, nonostante quello che posso fare ancora, io Ti amo».


Questo «sì» è la scaturigine della moralità, il primo fiato di moralità sul deserto arido dell’istinto e della pura reazione. La moralità affonda la sua radice nel «sì» di Simone, e questo «sì» può attecchire nella terra dell’uomo solo per una Presenza dominante, compresa, accettata, abbracciata, servita con tutto lo slancio del proprio cuore che solo così può ritornare bambino. Senza Presenza non c’è gesto morale, non c’è moralità.

Ma perché il «sì» di Simone a Gesù è scaturigine della moralità? Non vi sono prima i criteri di coerenza e incoerenza?


Pietro ne aveva fatte di tutti i colori, eppure viveva una simpatia suprema per Cristo. Capiva che tutto in sé tendeva a Cristo, che tutto si raccoglieva in quegli occhi, in quella faccia, in quel cuore. I peccati passati non potevano costituire obiezione e nemmeno tutta l’immaginabile sua incoerenza futura: Cristo era la fonte, il luogo della sua speranza. Gli avessero pure obiettato quello che aveva fatto o quello che avrebbe potuto fare, Cristo rimaneva, attraverso le nebbie di quelle obiezioni, la fonte di luce della sua speranza. Ed egli Lo stimava sopra ogni altra cosa, dal primo momento in cui si era sentito fissato da Lui, guardato da Lui: Lo amava per questo.

«Sì, Signore, Tu sai che sei l’oggetto della mia simpatia suprema, della mia stima suprema»: così nasce la moralità. Eppure l’espressione è molto generica: «Sì, io Ti amo»; ma è tanto generica quanto generatrice di una diversità di vita perseguita.


«Chiunque ha questa speranza in Lui purifica se stesso come Egli è puro» (1 Gv 3,3). La nostra speranza è in Cristo, in quella Presenza che, per quanto distratti e smemorati, non riusciamo più a togliere - non fino all’ultimo briciolo, almeno - dalla terra del nostro cuore per tutta la tradizione dentro la quale Egli è giunto fino a noi. È in Lui che io ho speranza, prima di avere contato i miei errori e le mie virtù. Non c’entrano, qui, i conti numerici. Nel rapporto con Lui il numero non c’entra, il peso misurato e misurabile non c’entra, e tutta la possibilità di male che in me può realizzarsi nel futuro, anche questa non c’entra, non riesce ad usurpare il titolo primario che possiede davanti agli occhi di Cristo il «sì» di Simone, da me ripetuto. Allora viene un fiotto dal fondo di noi, come un respiro che salga dal petto e inebrii tutta la persona e la faccia agire, le faccia desiderare di agire in modo più giusto: scaturisce, scatta dal fondo del cuore, il fiore del desiderio della giustizia, dell’amore vero, autentico, della capacità di gratuità. Come l’inizio di ogni nostra mossa non è un’analisi di ciò che gli occhi vedono, ma un abbraccio di ciò che il cuore attende, così la perfezione non è l’espletare delle leggi, ma l’adesione a una Presenza.


Solo l’uomo che vive questa speranza in Cristo continua tutta la sua vita nell’ascesi, nello sforzo per il bene. E anche quando egli sia palesemente contraddittorio, desidera il bene. Questo vince sempre, nel senso che è l’ultima parola su di sé, sulla propria giornata, su quello che si fa, su quel che si è fatto, su quello che si farà. L’uomo che vive questa speranza in Cristo continua nell’ascesi. La moralità è una tensione continua al «perfetto» che nasce da un avvenimento in cui un rapporto col divino, col Mistero, è segnato.