Un'ipotesi che non è più solo ipotesi

Da Luigi Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, pp. 36-38
Luigi Giussani


Immaginiamo il mondo come un’immensa pianura, in cui innumerevoli gruppi umani sotto la direzione dei loro ingegneri e architetti s’affannino con progetti di forme disparate a costruire ponti dalle migliaia di arcate che siano raccordo tra la terra e il cielo, fra il luogo effimero della loro dimora e la «stella» del destino. La pianura è affollata da uno sterminato numero di cantieri in cui si svolge il lavoro febbrile. Arriva a un determinato momento un uomo e con lo sguardo abbraccia tutto quell’intenso lavoro di costruzione e, a un certo punto, egli grida: «Fermatevi!». Tutti via via, a cominciare dai più vicini, sospendono il lavoro e lo guardano. Egli dice: «Siete grandi, e nobili, il vostro sforzo è sublime, ma triste, perché non è possibile che voi riusciate a costruire la strada che unisca la vostra terra al mistero ultimo. Abbandonate i vostri progetti, posate i vostri strumenti: il destino ha avuto pietà di voi; seguitemi, il ponte lo costruirò io: io infatti sono il destino».
Proviamo a immaginare la reazione di tutta quella gente di fronte ad affermazioni simili. Gli architetti per primi, i capi-cantiere, gli artigiani migliori istintivamente si troverebbero a dire ai loro operai: «Non fermate il lavoro, coraggio: rimettiamoci all’opera. Non vi rendete conto che quest’uomo è un pazzo?». «Certo, è pazzo» - echeggerebbe la gente -. «Si vede che è pazzo» - commenterebbe riprendendo il lavoro secondo l’ordine dei suoi capi -. Alcuni soltanto non distolgono da lui lo sguardo, ne sono profondamente colpiti, non obbediscono come la massa ai loro capi, gli si avvicinano, lo seguono.
Ebbene, dentro questa forma fantastica, c’è quanto nella storia è accaduto, quanto nella storia accade ancora.
Arrivati a questo punto non ci troviamo più di fronte a un problema di ordine teorico (filosofico o morale), ma di fronte a un problema storico. La prima domanda di cui ci dobbiamo investire non è: «È ragionevole o giusto quel che dice l’annuncio cristiano?», ma: «È vero che sia accaduto o no?», «È vero che Dio è intervenuto?».
Vorrei notare, benché implicito in quanto detto finora, la differenza di metodo richiesta dall’affrontare la «nuova» domanda. Tale differenza si potrebbe enunciare così. Mentre la scoperta dell’esistenza di un quid misterioso, del dio, può e deve essere ottenuta dall’uomo attraverso una percezione analitica dell’esperienza che fa del reale (e abbiamo visto come la storia ampiamente possa documentare che normalmente così viene ottenuta), il problema di cui ora stiamo parlando, essendo un fatto storico, non può essere verificato con la riflessione analitica sulla struttura del proprio rapporto con il reale. È un dato di fatto accaduto o no nel tempo: o c’è o non c’è, o si è verificato o non si è verificato. O è effettivamente un avvenimento emerso nell’esistenza dell’uomo dentro la storia, e richiede perciò la constatazione di un accaduto, o resta un’idea. Di fronte a quest’ipotesi il metodo è la registrazione storica di un fatto oggettivo.
La domanda: «È vero che Dio è intervenuto nella storia?», è allora costretta soprattutto a riferirsi a quella pretesa senza paragone che rappresenta il contenuto di un ben preciso messaggio, è costretta a diventare quest’altra domanda: «Chi è Gesù?». Il cristianesimo sorge come risposta a questa domanda.