Un luogo dove dire «io» con verità

Da Luigi Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, Sei, Torino 1995, pp. 31-33
Luigi Giussani


Vorrei comunicarvi alcuni tra gli aspetti più affascinanti e persuasivi del cammino che ho fatto nella mia vita.
Innanzitutto mi permetterete di ricordare l’istante della mia vita in cui, per la prima volta, ho capito che cos’era l’esistenza di Dio. Ero in prima liceo classico, in seminario, e facevamo lezione di canto; normalmente, per il primo quarto d’ora, il professore spiegava storia della musica, facendoci anche ascoltare alcuni dischi. Anche quel giorno si fece silenzio, incominciò a girare il disco a 78 giri e, improvvisamente, si udì il canto di un tenore allora famosissimo, Tito Schipa; con una voce potente e piena di vibrazioni ha incominciato a cantare un’aria del quarto atto de La Favorita di Donizetti: «Spirito gentil de’ sogni miei, brillasti un dì ma ti perdei. Fuggi dal cor lontana speme, larve d’amor fuggite insieme». Dalla prima nota a me è venuto un brivido.
Che cosa significasse quel brivido l’avrei capito lentamente con gli anni che passavano; solo il tempo, infatti, fa capire che cosa è il seme, come dice l’omonima, bella canzone, e cosa ha dentro. Uno può capire cos’è un seme se ne ha già visto lo sviluppo; ma la prima volta che vede il seme non può capire che cosa contenga. Così fu per me quel primo istante di brivido in cui ebbi la percezione di quello struggimento ultimo che definisce il cuore dell’uomo quando non è distratto da vanità che si bruciano in pochi istanti.
È uno struggimento del cuore che dura quando si sta ballando e quando, poi, si va a casa, come ho appreso da un’altra esperienza fatta molto tempo dopo. Durante i primi anni del mio insegnamento all’Università, ho aderito all’invito di un gruppo per una cena di fine anno. Dopo la cena i ragazzi si sono messi a ballare; io stavo seduto al mio posto a guardarli. A un certo punto mi sono alzato in piedi e ho detto: «Fermatevi!». E loro si sono fermati un po’ straniti e io ho detto loro: «C’è una differenza tra me e voi: voi, in questo bellissimo gioco, in questo gustoso movimento, in questo affezionato rapporto, avete un’ultima, terribile distrazione e non vi accorgete di un seme che è dentro questo vostro gioco, un seme di tristezza. Quando avrete finito, andrete a casa, vi direte “Ciao, arrivederci a domani”, salirete nella vostra stanza e vi metterete a letto; allora questo seme - in quelli tra voi che conservano un minimo di sensibilità umana -, questo seme di tristezza vi pigerà, urgerà: come essersi sdraiati ed avere sotto le spalle un sasso. Questo seme, di cui non v’accorgete - che è all’origine del gusto del vostro ballo e della tristezza che emergerà, appena appena accennata e bruciata via dal sonno, quando andrete a letto - è un seme di malinconia; la caratteristica malinconia di qualche cosa che non è compiuto, di qualcosa che manca».
Io, in quella prima liceo, nel canto di Tito Schipa avevo proprio percepito il brivido di qualche cosa che mancava; qualcosa che mancava non al canto bellissimo della romanza di Donizetti, ma alla mia vita: qualcosa che mancava e che non avrebbe trovato soddisfazione, appoggio, compiutezza, risposta, da nessuna parte.

Punto di fuga
Questo era appena appena adombrato e trattenuto dentro - appunto - nell’inconsapevole brivido che ho provato. Ma quando, l’anno dopo, il mio bravissimo professore di filosofia ci lesse Leopardi, avvenne un passaggio di conferma improvvisa che dilatava (oltre che confermare) l’impressione che avevo ricevuto da La Favorita di Donizetti. Mi ricordo la lettura della poesia Ad Aspasia, dove il poeta - rivolgendosi a una delle tante donne di cui si era innamorato - dice (cito parafrasando): «Non è la tua faccia che io desidero, è qualcosa che sta dentro la tua faccia. Non è il tuo corpo che io desidero, ma qualcosa di cui il tuo corpo è segno, che sta dietro di te, e io non so come arrivarvi». È come se - e qui l’idea mi fu chiara - ciò che afferriamo con la mano bramosa non lo potessimo stringere, perché il confine di ciò che afferriamo ci sfugge. C’è come - direi adesso - un punto di fuga, c’è qualcosa che sfonda l’oggetto che afferriamo, per cui non lo prendiamo mai a sufficienza e per cui c’è sempre come un’intollerabile ingiustizia, che cerchiamo di celare a noi stessi, distraendoci. Il buttarsi nell’istinto è il modo più bieco di chiudersi a questa apertura che tutte le cose reclamano, cui tutte le cose spingono.