Una tradizione vivente

Mostre
Cristina Terzaghi

“In un sol corpo”. La vita del Santo di Subiaco nella bella mostra realizzata dai monaci benedettini della Cascinazza

«Il Signore, cercando il suo operaio tra la moltitudine del popolo a cui rivolge il suo appello, dice: “C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?”. Se tu all’udirlo risponderai “io”, Dio ti dice: “Se vuoi possedere la vita vera ed eterna, preserva la lingua dal male e le tue labbra da parole bugiarde. Sta’ lontano dal male e fa’ il bene, cerca la pace e perseguila. E se farete questo, i miei occhi saranno su di voi e le mie orecchie saranno attente alla vostra preghiera: prima ancora che mi invochiate, vi dirò: “Eccomi!”».
Quando Benedetto scrive questo passo della sua Regola - racconta la mostra ideata e realizzata dai monaci della Cascinazza - aveva già in parte sperimentato che il rapporto con Dio rende l’uomo se stesso e lo fa esistere come “io”. Ritiratosi da un mondo tormentato dalla barbarie, che infuriava ovunque dopo la fine dell’Impero Romano, allo scadere del V secolo, Benedetto visse in completa solitudine in una grotta nei pressi di Subiaco, finché un sacerdote, inviato da Dio, lo raggiunse per condividere con lui il pranzo pasquale. Da quel momento il mondo cominciò ad accorgersi di Benedetto e della sua santità, che contagiò letteralmente la gente dei dintorni di Subiaco, una moltitudine che portandogli il nutrimento riceveva grande conforto dalla sua compagnia: «Si raccolsero attorno a Benedetto molti fratelli, per mettersi al servizio di Dio onnipotente. Costruì perciò con il potente aiuto del Signore Gesù Cristo dodici monasteri in ognuno dei quali pose dodici monaci (...) cominciarono ad accorrere a lui anche nobili e religiosi romani, che gli affidarono i loro figli perché li educasse al servizio del Signore onnipotente». Romani e barbari, Benedetto trattava tutti con uguale misura, realizzando quell’unità che altrove sembrava, proprio in quel preciso frangente storico, impossibile. Nel 529 egli si trasferì da Subiaco a Montecassino, dove vide la luce la celeberrima Regola. Benedetto la concepì come strada per la memoria di Cristo e la relativa santificazione del cammino di chi la abbracciava, e come tale essa venne definita “maestra di vita”. In un mondo in preda a uno dei più gravi disordini che la storia ricordi, è un’idea assolutamente geniale quella di una regola di vita, stretti alla quale si possa camminare così che: «L’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale diventasse eroico» (Giovanni Paolo II). Tale era la bontà e la corrispondenza di questa “piccola regola per principianti” al desiderio del cuore umano, che essa non divenne solo strada per i monaci ma per la cristianità intera, costituendo «l’arca di sopravvivenza dell’Occidente» (J. Ratzinger).
« San Benedetto visse la sua fede mettendosi a lavorare, lavorava pregando e pregava lavorando: ora et labora è una frase latina che indica un concetto solo: una preghiera che è vita e una vita che è preghiera», così don Giussani sintetizza il motto benedettino “ora et labora”, un richiamo all’unità dell’io e della persona che, alimentata da questa fede, ha generato e costruito l’Europa. Il lavoro come espressione più concreta dell’amore a Cristo diviene per il monaco altrettanto importante della preghiera, concepita come il supremo realismo di chi sa che tutto proviene da Dio. D’altro canto Benedetto ha posto largamente l’accento sulla carità e l’aiuto reciproco che i fratelli devono vivere all’interno della comunità cristiana, consapevole che all’uomo da solo è enormemente più difficile raggiungere la propria meta. La sottolineatura del valore comunionale della vita è tale che viene addirittura simboleggiata nelle colonne dei chiostri dei monasteri benedettini, i cui fusti si intrecciano armonicamente fra di loro in un nodo che rimanda al vincolo della carità.
Benedetto «non fu un grande missionario, però formò grandi missionari; non fu un condottiero di popoli, però con la sua Regola ispirò Re e Pontefici; non fu un Padre o un Dottore della Chiesa, ma i suoi monasteri furono una fucina di Dottori e di Padri che furono lo splendore della Chiesa. Per opera sua l’Europa si coprì di apostoli di santi, di studiosi, di artisti, di colonizzatori, di civilizzatori. Per sei o sette secoli la sua Regola fu quasi il codice ufficiale della civiltà e della santità» (B. Cignitti). Le prime missioni partirono nel 597 dirette in Gran Bretagna per volere del papa san Gregorio Magno. Il monachesimo benedettino raggiunse un tale livello di equilibrio e di efficacia agli occhi del mondo che Carlo Magno volle che ovunque fosse introdotta come unica regola di vita monastica quella ideata da san Benedetto e vissuta dai suoi monaci. Un illustre storico come Léo Moulin afferma perentoriamente: «I Benedettini sono i padri dell’Europa nel senso pieno del termine. Spinti dalla fede intensa che li animava, essi riuscirono a rendere umane lande deserte, paludi senza fine, foreste selvagge e incolte assicurando il difficile avvio agricolo dell’Europa. (...) Sarebbe più facile dire in quali campi, supposto che ve ne siano, i figli di san Benedetto non sono stati degli iniziatori o almeno dei promotori». Se si unisce al lavoro agricolo la straordinaria passione culturale che spinse questi uomini a creare scriptoria, dove venivano trascritti i codici antichi, custodendo e impedendo che andassero perduti immensi giacimenti del sapere sia cristiano che pagano, se si osserva lo splendore dell’architettura delle abbazie, si ha la misura della bellezza e della dimensione universale del gesto compiuto da ogni singolo monaco: noi europei siamo tutti figli della densità di quegli istanti.