Vivere la ragione

Parola tra noi
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di universitari
Milano, 21 giugno 1996


Intervento.
Quest'anno ci siamo lanciati a fare la Scuola di comunità dentro l'ambiente e questo si è rivelato un fenomeno di per sé aggregante e coinvolgente, che ci ha permesso un'immediatezza di rapporto con la gente. La difficoltà che emerge è però capire il nesso della Scuola di comunità con la vita, e in particolare con i contenuti dello studio, perché, quando questo nesso si tenta, il paragone risulta pretestuoso o sentimentale. Conseguenza di questo è che uno affronta i problemi da solo o al massimo si realizzano insieme le iniziative. D'altra parte, in una università che chiede sempre più di studiare, così che non resta spazio per altro, stabilire questo nesso è fondamentale, altrimenti la maggior parte del tempo è vissuta in modo acritico. Abbiamo tentato di fare dentro l'università degli incontri culturali (ai quali c'è stata una grandissima partecipazione, soprattutto giovanile), ma stentiamo a giocare questa capacità critica nel quotidiano. Volevamo allora chiederle: cosa intende lei quando dice che la Scuola di comunità non si capisce, se non se ne capisce l'utilità per la vita? E cosa significa, poi, impostare anche un'assemblea in questo modo? Impostare un'assemblea in questo modo - rispondo cominciando dall'ultima parte della domanda -, significa rifrangere lo schema con cui noi siamo nati. La Scuola di comunità si chiamava «raggio». Quando la comunità si riuniva, la riunione si chiamava «raggio». Il «raggio» è la propria esperienza messa in comune. Ognuno doveva dire la sua esperienza. Alla fine il più vecchio, il più grande o il più autorevole cercava di dare una risposta in cui fossero contenute tutte le verità implicite negli interventi sentiti. Voglio dire che la risposta alla domanda non si può dare se non a chi cerca realmente di compierla, di attuarla. Di fronte a un tema messo a capo di un raduno, una pagina di Vangelo o una domanda esemplare, se tu non ti sforzi di capire in che modo il mettervi insieme chiarisca la risposta alla domanda, se tu non ti sforzi, imparerai soltanto delle formule. Sono un po' perplesso nel rispondere a questa domanda perché - lo accennavo a chi mi accompagnava qualche minuto fa, prima che la macchina si fermasse - essa implica la risposta a quest'altra domanda: «Filosoficamente, cioè dal punto di vista della ragione, qual è la posizione diversa da tutti gli altri gruppi che il Movimento assume? Che posizione diversa abbiamo dal punto di vista dell'occhio, della ragione, dell'osservazione?». Per noi, il punto della questione sta nel fatto che la realtà si rende evidente nell'esperienza. Scrivete questa frase, perché è capitale. Nell'esperienza: come per Giovanni e Andrea, quando hanno visto Gesù: dopo quella sera nessuno poteva più strappare in loro l'impressione che avevano avuto da quell'uomo. La definizione che ho dato è per me importante, come è importante lo stupore di fronte alla realtà di Gesù che Giovanni e Andrea ebbero. Comunque, la mia domanda voleva innanzitutto dire: «Ragazzi, quello che ci importa è la realtà». Se una cosa non è reale, «che ce ne frega», che ce ne importa, quella cosa non può servirci. Tutto è evanescente, tutto è labile. La realtà ci importa. La realtà! Non: «La realtà è la verità», perché questo è senza senso; ma: «la realtà è l'ambito in cui la verità sussiste», è la figura con cui la verità coincide. Insomma: è vero ciò che è reale, è reale ciò che è vero. Si può usare, senza filosofare troppo, la parola realtà e verità. Che ve ne sembra? Questa è la prima cosa che sottolineo. «Verità» è dunque coincidente per noi con la parola «realtà». Per chi non fosse coincidente cosa avverrebbe? Che può esserci una verità che non sia reale. Ma cosa vuol dire? Dov'è? Dove la trova? Nei fumi del sottosuolo o nell'aria rarefatta?! La verità è reale. La parola «reale» indica qualcosa di «vero». Tanto che le parole «reale» e «vero» possono scambiarsi. Se è vero, c'è; se non è vero, non c'è. Se c'è, è vero. Se c'è, è vero solo se percepito in quanto è, non in quanto io lo penso, faccio intervenire un altro fattore per aggiungere qualche cosa o per dispiegare una forza che altrimenti la parola non ha. Vero e reale hanno un aggancio per cui l'uno è l'altro, implica l'altro - o, più semplicemente, è l'altro -. Quando i bambini domandano: «Ma è vero?» - tu stai raccontando una storia, una fiaba, una favola, e loro dicono: «Ma è vero? Ma è vero vero vero?» (che è la formula dello scetticismo tra i bambini) - essi «contestano» e giustificano quello che ho accennato adesso: è la realtà che interessa, ché la verità è nella realtà. Volete un esempio di questo, recente, nel senso di due o tre mesi fa, quando sui giornali è apparsa una discussione tra scienziati sul vero e sull'infinito? Gli scienziati possono usare la parola «infinito» come un noto fisico ha fatto: «Infinito? Infinito vuol dire un finito che si estende indefinitamente. Si può concepire la realtà come infinita nel senso che l'infinito è una cosa che si dilarga, che si dilata sempre». E io dicevo: «No! Infinito è un'altra cosa!». Infinito è un non-finito. Perciò l'infinito è un'altra cosa: è una realtà, e indica una natura, una struttura, qualcosa che non è mai, in nessun senso, concepibile come finito. Il finito, si dilatasse per milioni di secoli, si dilatasse all'infinito, nel senso matematico del termine, sarebbe sempre finito. Mi spiego? Non si può identificare l'infinito come finito dilatantesi. Non si può. L'infinito è un'altra cosa! Non è finito! È una «cosa», che non è finita. Se è una «cosa» posso immaginare di prenderla con le mani, di guardarla con gli occhi, di parlarci: «disgraziata», «delinquente», «tu», «buono», «misericorde». Se è una cosa devo poter dire, così come dico a un amico o a un nemico, come dico ad un estraneo: «Prego!», in un modo così buono, così spontaneo, che l'altro si meraviglia e dice in cuor suo: «Quanto è "bono" questo qui!». «Bono» nel senso di buono. Confesso che ho sbagliato, perché come si fa a rispondere ad una domanda senza rispondere a tutti i fattori che essa mette in gioco? Perché detto questo della realtà - la realtà è verità -, occorre procedere: come si fa a conoscere la verità, come si fa a conoscere la realtà? Come fa uno scienziato a conoscere una stella lontana che gli antichi non avrebbero potuto registrare? Soltanto i telescopi moderni possono renderla così vicina che lo scienziato la legge: deve dunque portarla più vicino. Cosa vuol dire portare più vicino questa stella lontanissima che per gli antichi, più gravi osservatori, sarebbe stata come una non-esistenza? come fanno a renderla esistente? a parlarne come se fosse presente? come fanno a rendersi presente una lontananza? Se essa, questa lontananza, entra nell'esperienza. Cosa vuol dire che «entra nell'esperienza»? Vuol dire che io la vedo come se fosse questo bicchiere, come se fosse l'amico, come una delle cose che afferro nella compagine di una collettività di persone e cose che spunta chissà da dove e che va chissà dove, ma ad un certo punto diventa evidente. È come il risuonatore di Quincke (che ho studiato al liceo), che è uno strumento per fare risaltare quale nota domini un certo accordo: quando una certa colonna di suoni passa davanti al risuonatore di Quincke, se la nota dominante è un re, per esempio, il risuonatore grida quel re surclassando l'ascolto delle altre note. La realtà entra sotto-tiro, come contenuto del gioco nostro, dell'attività nostra, e viene afferrata da noi, in quanto entra, è fatta entrare, nell'esperienza. Perciò verità e realtà si fanno riconoscere nell'esperienza. Ma che cos'è l'esperienza? Pensiamo al verbo prima usato: «La realtà si evidenzia nell'esperienza»: nell'esperienza si rende evidente quel che c'è. E allora, cos'è l'esperienza? Si potrebbe dire: «L'esperienza è il rendersi evidente della realtà». Non puoi dire: «Signore, Dio del cielo e della terra», senza partire da una esperienza, da fattori definienti che caricano la tua esperienza. Ricordatevi quella pagina della Scuola di comunità, ne Il senso religioso, dove si immagina, vi si invita ad immaginare che un uomo nasca, meglio, che voi stessi nasciate a vent'anni già con la coscienza dei vent'anni, che nel primo istante di vita abbiate già la coscienza dei vent'anni. Qual è la prima cosa che vi si imporrebbe? La prima cosa, in senso assoluto, che capireste? Immaginatevi. Sono dentro il ventre di mia madre. Un urto. Esco e apro gli occhi. Il primo aspetto della realtà che colpisce l'occhio, che in quel caso ipotetico ha già la coscienza matura dei vent'anni, la prima cosa che mi colpisce, se io aprissi gli occhi, con la coscienza che ho adesso, non è «tu, lui, lei», ma è «tutto insieme», questa realtà fatta di mille ragazzi, la realtà, il mondo intero, tutto ciò che è. Ora, per rivolgersi a Dio dicendo: «Dio del cielo e della terra», uno deve averne già fatto esperienza, non può che partire dalla esperienza di questo Dio, di questa «realtà» strana, non immaginabile, non definibile da lui. Se uno non si è mai domandato: «La realtà, tutto questo, come mai c'è? chi l'ha fatta?», se uno non si è mai chiesto questo, è come un bambino sprovveduto o come un analfabeta di fronte a un testo da leggere. Così, ecco il nostro metodo per chiarire il problema dell'uomo come religiosità - che è il problema più profondo e totalizzante dell'uomo -: è necessario innanzitutto rendere esperienza personale il rapporto tra l'uomo e la realtà in quanto originata. È realtà, se entra nell'esperienza. Ma come fa Dio ad entrare nella tua esperienza? Entra nella tua esperienza se lo lasci entrare. Porre la domanda: «In fondo in fondo di che cosa è fatto il mondo? In fondo in fondo perché c'è questa cosa che si chiama cielo e terra, o la mia azione piccola e sparuta?», porsi queste domande è porre in chiaro che la realtà non si fa da sé, ma si impone in essa qualcosa che non definiamo noi. Nella nostra esperienza la realtà si evidenzia; non «si forma», non «si fa», non «si costruisce», ma si evidenzia, si rende evidente. Si rende evidente una cosa che già c'è. Perciò la realtà si fa conoscere nell'esperienza: vale a dire, quando è colta come un qualcosa che già c'è. Di qui, le due altre frasi in cui si potrebbe riassumere tutta la nostra cultura. a) La prima domanda sarebbe dunque: «Di che cosa è fatta la realtà?». Questa realtà ci si impone agli occhi come qualcosa che già c'è. Se io nascessi con la coscienza dei vent'anni, m'accorgerei, sarei costretto ad ammettere qualcosa che già c'è. La realtà appare come un già c'è. C'è da qualcosa d'altro, ché viene fuori un qualcosa d'altro da quello che io fisso! b) La seconda domanda sarebbe: «Ma come si fa a mettersi in rapporto, come si fa a conoscere qualcosa di questo "qualcosa d'altro", di questo Dio - chiamiamolo subito così, per fare in fretta - ?». Solo se si rivela, se diventa Gesù. Si rivela, Dio, se diventa uomo, in quanto diventa uomo, in quanto si identifica con qualcosa di evidente nell'esperienza. E s'è fatto uomo! Se Dio s'è fatto uomo, lo si può conoscere solo per questa strada con adeguatezza e con rispetto. Allora Dio lo si conosce nell'uomo Gesù Cristo. c) Terza domanda: «Ma questo Gesù Cristo dov'è?». Risposta: questo Gesù è nella compagnia di uomini che Lo riconoscono e che si chiama Chiesa. Chiesa: la compagnia degli uomini che Lo riconoscono. Queste sono le tre grandi formule di risposta alle tre grandi domande, più gravi delle quali non ve n'è e che fanno arrabbiare il cuore dell'uomo o la mente dell'uomo. Ma come fai a dire: «Ti amo, o Dio», senza che tu sappia consapevolmente che cosa voglia dire amare? È solo nella misura in cui tu hai fatto esperienza dell'amore che puoi dire: «T'amo, o Dio». «O Gesù d'amore acceso». Cosa vuol dire «Gesù d'amore acceso»? Gesù, d'amore acceso? Dio fatto uomo, un uomo che ha detto: «Filippo, mi domandi da che parte vengo, ma quante volte l'ho detto e non hai capito? Filippo - diceva Gesù prima di andare a morire, nell'ultima cena - chi vede Me vede il Mistero». Certo, è una cosa impressionante immaginarci come quei dodici uomini fossero attorno a quell'uomo, a un uomo come loro - di cui conoscevano la cucina dove aveva mangiato, la bottega dove aveva lavorato - che diceva così. Nella misura in cui Gesù, come Dio, non diventa, non entra nell'esperienza nostra, non possiamo riconoscerlo adeguatamente, con quella solidità, seppur difficoltà, con quella suggestività, seppur enigmaticità, con cui la realtà si presenta ai nostri occhi. È così che tu a quindici anni pretendi di avere già la ragazza e ti metti insieme a lei, come si dice (ragazzo e ragazza «si mettono insieme»): non puoi realizzare l'amore, un amore umano, che sia umano, che sia amore, se non in qualche modo riferendoti all'esperienza d'amore che hai già fatto, quella di tua madre e tuo padre - per quanto ripugnante vi possa apparire questa congiunzione -, se non riferendoti ad un'esperienza d'amore già fatta. Per cui quello che fai adesso è convalidato da quello che hai fatto prima. Come tua madre si comportava con te, come tuo padre ti parlava, così tu parli, tendi a parlare con lei, o con lui. C'è uno spring, c'è una sorgente diversa, anche diversa, da quello che avevi imparato prima, ma è diversa perché non è ancora matura. Man mano che maturerà capirai che l'amore al padre e alla madre hanno ultimamente lo stesso identico volto, la stessa identica frescura, la stessa identica forza che ha l'amore tra l'uomo e la donna. Capisco di indicare distanze abissali, come da una sponda all'altra del grande delta del Rio delle Amazzoni - dove per mille km una riva non svela l'altra -. Ci vorrà tempo e approfondimento. Perciò, concludo, il problema che ha posto prima la nostra amica è il problema del rendere parte dell'esperienza la realtà che ci interessa discutere, o scoprire, o servire, per renderla utile all'affermazione di quell'«io» che sembra piccolissimo come un filo d'erba nel mondo, un bocciolo appena accennato su un ramo a marzo, ed è fatto invece per l'Infinito. Come diceva Dante: «Ciascun confusamente un Bene apprende nel qual si queti l'anima». L'animo si «queta» quando tutto ha risposta. Come la fame, quando ha avuto il cibo che l'ha soddisfatta, si placa. Così è, ultimamente, il fatto dell'amore.

  • Intervento. Di fronte a queste osservazioni, che esprimono quello che noi abbiamo incontrato, che indice è il fatto che poi uno senta lo studio diviso, senta la quotidianità divisa? Che cosa deve fare?
Ognuno di noi parte con la percezione di una divisione. Perché se una cosa è nuova, non è qualcosa che già ho, perciò parto con la percezione che è divisa ancora da me. Devo conquistare l'unità con essa. Esattamente come il ragazzo fa con la ragazza: sono due cose divise, ma l'affezione inoltra l'individuo in quell'attacco a ciò che ha davanti, in quella comprensione, in quella affermazione, in quella presa di ciò che ha davanti, per cui diventano una cosa sola. Ed è nella misura in cui uno è aiutato in questa esperienza di unità che si capisce che quello che sembrava unire di più è ciò che più distacca, come l'istinto ad un livello inferiore, e quello che sembrava inattingibile o astratto diventa più potentemente sorgente dell'affezione, della suggestività, della simpatia, di una dedizione.

Intervento. La mia domanda parte da una parola in cui ci siamo imbattuti sia nel lavoro di Scuola di comunità, sia nel lavoro sui testi di giudizio nel momento delle elezioni e in altri momenti. Questa parola è «popolo». Vorrei chiederti di introdurci meglio nella comprensione di questa parola. Avvertiamo che, ad esempio, anche sulla parola compagnia essa getta una luce nuova, perché la Scuola di comunità dice che l'intervento di Dio diventa concreto nella storia di un popolo, e un popolo ha le sue leggi, i suoi canti, i suoi condottieri. Questo mi fa capire di più (è accaduto così anche nella mia vita) di avere incontrato una storia particolare, fatta di persone precise, insomma un popolo. «Compagnia» vuol dire essere insieme per qualcosa; essere insieme senza il «per qualcosa» scoccia, perfino scoccia, soffoca. Compagnia è uguale a essere insieme per qualcosa. La dignità della compagnia è definita dalla dignità del «qualcosa». Essere insieme per mangiare le acciughe è un conto, è un certo valore, ma essere insieme per studiare Dante o per capire i misteri, in cui l'uomo ha incominciato ad introdursi, dell'evoluzione dell'universo è diverso. Compagnia è essere insieme per qualcosa che si chiama «scopo». Una compagnia senza scopo non esiste. «Popolo» è una compagnia che ha come scopo il portare il proprio contributo alla immagine della storia. Compagnia è essere insieme avendo come scopo quello di dare il proprio contributo allo sviluppo dell'umanità che si chiama «storia». Sviluppo e in senso quantitativo (perciò, ecco la compagnia dell'uomo e della donna) e in senso sociale, come comprensione sostenuta, motivata e ricercata insieme (ecco la cultura), o come l'essere insieme per affrontare la storia con maggior forza, dal punto di vista di una maggior forza, di una maggior sicurezza, di maggior egemonia (questo può chiamarsi Stato, alleanza fra Stati, o può chiamarsi Impero).

Intervento. Che rapporto c'è fra la sottolineatura della compagnia fatta adesso e il rendere parte della propria esperienza la realtà che ci interessa seguire, come hai detto, concludendo i passaggi che hai fatto prima? L'esperienza diventa tanto più grande, sviluppa, per così dire, il suo organismo, la ricchezza del suo organismo, quanti più contributi di realtà fa entrare nella sua percezione critica, nella sua visione, nel suo sguardo vigile ed analizzatore. Come un medico radiografo quando guarda il pezzo da analizzare: quanti più contributi ha quel pezzo, tanto più diventa ricca la sua conoscenza. Quanto è maggiore il contributo di realtà che entra nella esperienza, tanto più uno diventa potente, uomo, gigante, personalità, tanto più è capace di districarsi di fronte alle avversità e di precipitarsi pieno di fantasia creativa su ciò che gli si rende utile, che gli si offre.

Intervento. Io comprendo sempre più che il Movimento è il luogo della mia persona, dove quello che sono non è conservato come in un frigorifero, ma è abbracciato, curato e rimesso continuamente in movimento, dove la compagnia di Colui che ha fatto il mio cuore si è resa palpabile. Avverto tutto il rischio che, invece di essere il luogo della domanda, diventi il luogo del ristagno, sull'onda di quello che già si sa, che già si crede di sapere, o dentro un'assoluta tranquillità, con in più anche quella «religiosa». Tante volte siamo più preoccupati delle conseguenze tecniche e dei discorsi imparati che del bisogno infinito che abbiamo e che il mondo ha. Il rischio più grande che corriamo mi sembra che sia lo schema nel vivere, l'applicare. Non c'è vera compagnia se non è filtrata dalla volontà di una ricerca del vero, cioè della realtà in quanto desiderabile e ultimamente aperta alle esigenze del cuore così come esse sono reclamate dal concetto di ragione che la nostra comunità, dal punto di vista culturale, ha sempre espresso. Non è compagnia, se non chiarisce qual è lo scopo di essa. Il mettersi insieme di ragazzo e ragazza senza immediatamente darsi come compito quello di chiarirsi che senso ha questo nesso è buttare la propria grandezza dentro la pattumiera dell'istintività pura, dell'istintività malvagia. È il pericolo di contraddirsi subito. Non si è in compagnia, se non è messo in chiaro lo scopo per cui essa è fatta. Che cosa ci tiene insieme? La compagnia per eccellenza è la compagnia dell'uomo come tale, dell'uomo come realtà del mondo, come realtà nella storia, come realtà destinata a qualcosa di oltre, di più grande, sempre più grande. Allora in questo terzo caso si capisce che la compagnia è ciò che ti aiuta a renderti conto di questo Altro, di questo più grande per cui sei fatto, a dilatare i termini del tuo animo, a riempire di risposta sempre più adeguata la sete del tuo cuore.

Intervento. Se penso alla mia esperienza personale, il Movimento è proprio ciò che mi impedisce di ristagnare, è proprio il fattore, in un certo senso, di un'irrequietudine, non di un tranquillismo. Quando la nostra compagnia diventa invece fattore di questo tranquillismo, è un segnale d'allarme. Una compagnia così diventa fattore di ottusità, ottunde quello che la natura lancia, nel rapporto con tutto ciò che sta attorno, come sfida, come provocazione, come curiosità, come sete di possesso, come studio dell'avvenimento, come attesa di un destino. La natura non sbaglia originalmente: è il gesto di Dio che ci fa. È il non aderire alla natura originale, questo è ciò che confonde i termini, che squilibra le cose, fa diventare nel tempo impossibile la certezza del cammino, non la felicità che è propria di un altro mondo, cioè di un altro livello di questa vita (l'altro mondo è un altro livello di questa vita, perché l'altro mondo c'è già in questo mondo e bisogna scoprirlo, e per scoprirlo occorre un sistema che non è quello delle misure decimali o dei chilogrammi ) La compagnia, se perde la coscienza che il suo scopo, ultimamente, è di aiutare i singoli in questa drammatica e affascinante carriera, diventa la fonte dell'ottusità. Perciò tutto diventa tendenzialmente pesante e ultimamente dubitoso. «Or va' tu su che sei valente». Di chi se la caccia ci si crede più intelligenti perché si dice: «Datti da fare tu». Ma se non ti dai da fare come lui smarrisci te a te stessa, smarrisci l'umanità tua, e senza questo aggancio cosa farai? Sarai preda dei sogni notturni o dell'istintività diurne di tutti gli altri.

Intervento. Dal lavoro della Scuola di comunità di quest'anno e da quello che è successo soprattutto negli ultimi tempi, cioè dai rapporti che sono nati da quando sei venuto tu in Università a Chieti, mi rendo conto che la possibilità di essere presenza, cioè di essere noi stessi, sta nell'aderire, rischiando, ad un Altro, nell'aderire rischiando alla proposta di un Altro, cioè nel sì ad un rapporto. Quello che ti volevo domandare è come questo «sì» permane nel tempo, perché mi rendo conto che appena mi fermo un po' a pensare, appena provo a fare da me, questo si perde, cioè prevale l'istintività. La compagnia è l'espressione, ma anche la condizione con cui, per natura, l'uomo sta sulla strada che ha iniziato - sulla ricerca che è incominciata, nell'affezione in cui ha già tentato di creare qualche cosa, di comunicare -. La compagnia è lo strumento per cui l'uomo è «tenuto su». Anche quando scivola, anche quando diventasse debole per una malattia, è aiutato a tenersi: lo trascinano dietro, la compagnia lo trascina dietro anche quando lui non ha più nessuna forza. Innanzitutto la compagnia è lo strumento per rendere continuo il «sì». Quindi, questo «sì», permane restando fedeli, rimanendo dentro la compagnia, anche se venisse una nube in cui non si vede più niente. Chi, per una nube inoltratasi sui suoi passi, ha abbandonato la compagnia, può non ritrovarla più, ma può non ritrovare più neanche l'essenza di quella compagnia, lo scopo. Non si deve mai andar via. La legge della compagnia è semplicissima: se ci sei entrato o eri scemo oppure era giusto, in qualche modo era giusto, corrispondeva a quel che eri. Se hai trovato una compagnia di cui puoi dir così, o hai potuto dir così una volta, stacci. Ti giuro che la tua vita sarà sempre ripresa, non si perderà mai più, non si smarrirà mai più. Perciò è la fedeltà alla compagnia lo strumento per dir di «sì» alla compagnia.

Intervento. Non ti pare che uno dei più grandi difetti che abbiamo è quello, quasi insensibilmente, di agire come se dipendesse tutto da noi? Eh sì! Voglio dire che per il mio temperamento, la mia formazione e i casi della mia vita, grazie a Dio, io non ho mai avuto per un solo istante la temerarietà o la stupidaggine o la superficialità d'animo di dire o immaginarmi che tutto io potessi fare da me. È una tentazione che io non ho mai avuto. Per chi invece l'ha avuta, poveretto, dico: «Guarda che tre si distingue dallo zero come uno si distingue dallo zero, cioè zero è zero; se uno è 0,0000001, è già qualche cosa. Così se tu dici: "tutto dipende da me", è come se affermassi che tu non sei zero». Ma più zero di così! Non c'eri. Dunque, se non c'eri e adesso ci sei, quello che in te si sviluppa e si protende è qualcosa che trova il suo sfamarsi, il suo dissetarsi in qualcosa d'altro. Perciò, fin quando rimani e in ogni istante in cui rimani nel cerchio di te stesso, sei soffocato.

Intervento. Qualche tempo fa i più grandi parlando con te dicevano: «Noi ormai ragioniamo come te, quindi il problema della ragione è risolto. Quello su cui siamo indietro è invece un problema affettivo, non amiamo come ami tu». Tu hai risposto che era esattamente il contrario: «Voi non sentite come me». Io volevo farti una domanda un po' articolata: primo, perché dobbiamo sentire come te; secondo, cosa vuole dire; terzo, come si fa? Sentire come un altro «vuol dire» immedesimarsi nel modo con cui egli si pone di fronte al reale, cerca di discernerne i fattori (come un medico radiologo di fronte alla lastra) e cerca di paragonare questi singoli fattori che vede al criterio che ha in sé, che è il suo cuore, che è il senso dell'esperienza originale. Immedesimarsi con un altro vuol dire cercare di capirne i criteri, il modo, il punto di vista da cui affronta il reale, e il gioco di misurazione del rapporto che c'è tra i fattori che vede e la sete del suo animo. Sentirti nell'animo come mi sono sentito io significa immedesimarti con me, ripetere in te come io mi sono posto di fronte alle cose, come ho guardato questo quadro e come, fattore per fattore, ho giudicato questo in base all'evidenza (cioè in base alle richieste) del mio cuore. è così importante «perché» questa è l'immedesimazione con qualcosa che si è sperimentato umanamente come un di più, di più, di più, di più! Anzi, che ha fatto venire più sete di quel che s'aveva prima. E perciò, paradossalmente, è vera compagnia quella con colui con il quale mi diviene più grande quello che desideravo prima, cioè mi sento ancora più lontano dallo scopo da raggiungere, mi sento ancora più piccolo di quanto mi sentissi prima. Paradossalmente, mettersi insieme a chi è già più grande di noi, mettersi insieme a un'esperienza più grande della nostra, ci fa sentire più piccoli, più meschini, più timidi, più timorosi, più dubitativi; ma nello stesso tempo è come due braccia che ci stringono e che non ci lasciano più. E per quanto uno si lasci cadere morto, queste due braccia non lo abbandonano di un millimetro, e quando si rianima si trova almeno un chilometro più avanti di prima. Nella compagnia ciò cui si arriva non è pensabile prima. Quando noi diciamo che l'amore vero dell'uomo alla donna è molto più nel momento in cui l'uomo identifica il possesso della donna con qualcosa che non ha mai pensato prima, cioè che c'è un possesso più grande che non il possesso puramente animalesco, istintivistico, diciamo che essere in compagnia significa non lasciarsi fermare di fronte a nessuna negatività, a nessuna negazione, ma anche a nessun sacrificio, a nessuna fatica; e la protensione, la voglia del più grande, del più vero, diventa più importante di qualsiasi altra cosa. Il «come» è stare nella compagnia. Tu anni fa eri nella nostra compagnia, nella compagnia del Movimento, eri in questa compagnia, poniamo, con esponente 3, adesso sei in questa compagnia con esponenza 33. Prima, quando ti ho conosciuto in principio, eri molto più piccolo di come ti vedo ora, non perché sei cresciuto di sette anni, ma perché sei «cresciuto». Dopo sette anni, tanta gente che ho conosciuto sette anni fa è invece più piccola di prima: non hanno seguito nessuno, non hanno sfruttato la compagnia di nessuno, non si sono immedesimati con niente, perciò sono immersi in risucchi o in polverizzazioni di parole: aspetti rinsecchiti di abbordi mentali di cui si perde il senso originale e da cui, quindi, si è soffocati; e uno non si libera più da questo soffocamento.

Intervento. Il lavoro di quest'anno ha avuto come frutto tanto bello quanto inaspettato, per me ed alcuni miei amici, l'unità, nel senso che uno non riesce più a dire io senza implicare gli altri. Vorrei sapere: come questa cosa, che in fondo è miracolosa perché non è una cosa nostra, come può diventare più utile per la mia vita e non scadere nella connivenza? Quanto più tu cerchi le ragioni della risposta che la compagnia dà ai tuoi interrogativi. È una frase di san Pietro ai primi cristiani: «Cercate di rendere ragione del desiderio che è in voi». Rendere ragione, a chiunque, del desiderio che è in voi! Dell'interrogativo, del desiderio, o dell'invito o dell'esempio che la comunità vi dà. Comprendetene le ragioni. Invece, normalmente, cosa avviene? Che nasce una speranza vaga, che si attutisce subito per la pigrizia nostra. Dopo, questo ottundimento diventa così pesante che la comunità si trasforma in un fardello, un peso in più, un artificio in più. La comunità non è qualcosa in più nel nostro vivere, ma qualcosa che si identifica sempre di più col nostro vivere e lo rende sempre più leggero, sempre più pensoso, sempre più chiaro negli intendimenti, amante nel suo contenuto, come capacità affettiva. Quanto più si sta nella compagnia, tanto più essa ci rende capaci di capire e capaci di amare.

Intervento. Come si cade nel rischio di stare insieme giustificandosi? Non chiedendosi le ragioni, ciao!

Intervento. Oltre a chiederti che cosa significa sentire la realtà come la senti tu, volevamo anche chiederti come senti tu la vita del Clu, cioè quali sono le questioni che senti per noi più urgenti. Io nella risposta accuso il mio «limite»: il mio limite è una estrema, gustosa fiducia nella ragione concepita e utilizzata il più possibile coerentemente, a costo di arrampicarsi o di continuare il cammino in ginocchio, comunque sempre più intensamente ubbidienti nella risposta che la ragione dà. Quello che sento più mancare oggi è quello che ritengo più necessario, la prima cosa necessaria per non essere schiavi della mentalità, per non diventare omologhi alla mentalità di tutti: il capire le ragioni (quello che ho detto prima). Ma il capire le ragioni ha un grande «difetto»: che per capire le ragioni bisogna porre la domanda. Quello che è più grave in noi è non porre la domanda, non cercare dov'è la domanda, non cercare di definire bene la domanda, di ridefinire bene la domanda. Definitivamente: non è che io obietti al Clu una tendenza a non porre domande; quello che obietto è che bisogna impegnarsi a rispondere, ad inoltrare le risposte secondo l'originalità evidente della domanda: «Per che cosa io sono? Come faccio ad esserci?». È rispondere alla originalità di questa domanda, il problema! «Cosa vuol dire essere amato?». È rispondere all'originalità di questa domanda, all'originalità evidente di questa domanda, il problema! Chi ci impedisce di essere così? Il seguire la mentalità di tutti: la mentalità di tutti non ha altro scopo che affermare lo Stato, e basta. Lo Stato, cioè i padroni, e basta. Neanche padre e madre hanno come scopo, facilmente, quello che appartiene loro per natura (essendo padre e madre): l'amore paterno e materno. Normalmente, per la debolezza del singolo, per la debolezza data dalla connivenza della struttura sociale, anche padre e madre vogliono il potere sul figlio, cioè, per esempio, che il figlio cresca secondo l'immagine che essi si sono fatta. Ma il padre e la madre, la paternità e la maternità sono il punto in cui l'errore può trovare più facilmente, più immediatamente, un pentimento. Se tu dici loro: «E il destino di tuo figlio?», è lì dove è più facile trovare uno che ti dica: «Sì, hai ragione tu, non ci avevo mai pensato». Perché quando un genitore si trova di fronte a un figlio che si sposa, un figlio che va in convento, un figlio che diventa prete, un figlio che va nella tal professione, un figlio che rischia per mestiere una situazione grave dal punto di vista fisico, allora si ritempra in lui quello che per natura sarebbe dovuto esservi fin dal principio: un amore, che è là dove si vuole il bene dell'essere che si dice di amare.

Intervento. Vorrei chiedere, visto che ci stai insistendo molto, che cos'è l'amicizia, cioè quando siamo amici? E poi un'altra cosa sulla pazienza, ché molto spesso, quando sentiamo le cose che ci dici, abbiamo un'impazienza di viverle subito, di cambiare subito; e allora vorrei capire meglio che cos'è la pazienza e come fare, dove guardare, perché la pazienza sia piena, e non sia un vuoto aspettare, ma un lavoro. L'ho già detto prima. Si è amici quando si è insieme per uno scopo comune. Perciò, cos'è l'amicizia? La sua dignità dipende dallo scopo che avete. Umanamente parlando, non c'è nessuno scopo più grande di quello di dare il proprio contributo di protagonismo esemplare a tutta la storia: portare nella storia, rendere storia, la mia personalità, portare cioè alla storia, alla compagnia di tutti, il contributo della mia personalità. Questa formula cui mi sono riferito adesso non si capisce, non è che si possa comprendere subito. Subito, di fronte al vero, di fronte ad una cosa vera, anche se non si capisce niente, è impossibile, è difficile evitare un'impressione primordiale, come la sensazione che si ha certe volte all'alba del mattino, quando il sole non è ancora sorto, ma è come se fosse, appena appena accennato, già sorto; perché c'è una luce tale in un certo punto del globo, che tu fissi gli occhi lì, aspettando da lì; ed è da lì che viene. Perciò, se voi persistete in una compagnia con gente con la quale vi siete messi per imparare la strada della vita e del suo destino, se è questo ciò per cui voi vi siete messi insieme, non lo perdete più. Ci saranno magari plaghe immense soffocate dai miasmi, pervertite da inclinazioni ingiuste, nella vostra vita acerba, smarrita di sentimento, capace di perdere il tempo. «Perditum non redit tempus»: è rimasta in me come una grande fissazione, questa che è la prima formula in latino della mia prima ginnasio. «Perditum non redit tempus», il tempo perduto non ritorna più. È falsa, ultimamente, ma è la compagnia che ti fa capire che è falsa l'obiezione che al tuo passo è data dal comportamento che hai avuto prima. Prima hai avuto un comportamento così bislacco che adesso sei disperato di te. Mai! Nella compagnia questo è sempre, sempre, vinto. La compagnia ti aiuta - e senza di essa non c'è nessuno che ti possa aiutare -, la compagnia ti aiuta a sormontare anche il grande katekon, la grande obiectio, che è l'obiezione della tua abiezione: il tuo errore non diventa mai una ragione contro, mai. E poi il tempo. Il tempo è necessario, entra come fattore necessario del conoscere. È soltanto per Lucifero, è soltanto nel concetto di angelo come, secondo la tradizione ebraico-cristiana, puro spirito, che il tempo non entra. Per noi il tempo entra nella definizione del nostro agire umano, del nostro agire ragionevole, del nostro pensare, perciò della nostra affezione, del nostro amare. Uno a trentotto anni ama in modo diverso che a diciotto, ma non banalmente, non è una frase banale. Perché il tempo, il solo tempo, cambia. La compagnia è funzione anche della salvezza che il tempo come tale dà. Gesù ha detto la frase più bella che si sia mai detta su questo: «Nella vostra pazienza possederete la vita, la vostra vita». Potremmo tradurre: possederete l'essere, il vostro io coinciderà con l'essere, il vostro io coinciderà con lo sguardo infinito e con l'amore infinito, il vostro io coinciderà con Dio: Filii Dei estis, figli di Dio siete. L'obiezione: «Ma queste sono tutte fantasie» è tanto facile quanto impossibile a reggersi. Realmente l'uomo è fatto per una cosa senza fine. E infatti le esigenze con cui si pone di fronte a tutta la realtà, queste esigenze, per natura sono esigenze infinite. Infinito non è uguale a «finito che si allarga». Questo può avvenire per migliaia e migliaia di secoli, ma è sempre finito. Perciò il finito è misurabile, essenzialmente misurabile. L'Infinito è qualcosa che è infinito dal primo istante. È la definizione di san Tommaso dell'eternità: l'infinito è qualcosa che è infinito come tale, che è definito dalla sua infinitezza. Questo ci deborda da tutte le parti perché non è noi. Che cosa misura, allora, la nostra pazienza, che ci fa possedere questo Altro supremo? Misura la nostra pazienza l'umile affermazione della Sua esistenza in ogni tempo che passa, a dieci anni, a vent'anni, a trent'anni, a quarant'anni. Quando uno a settanta-ottanta anni muore è semplicemente - con più semplicità - più capace di affermare questa totalità come il suo Signore, davanti al quale può stare come il Figliol Prodigo tra le braccia del Padre disegnato da Rembrandt. Comunque, mi tolgo un gusto. Guardate, per favore, che il mio debordamento iniziale, l'insistenza mia iniziale è il punto capitale dal punto di vista di una autocoscienza, dal punto di vista di un uomo che non fa soltanto il carrettiere e basta, che ha avuto un certo surplus di domande e di provocazioni nella vita, cioè che è stato destinato ad una maggior ricchezza esplosiva ed espansiva nella vita. Il primo problema, dal punto di vista culturale, è capitale: la realtà. Perché? Perché se andate a Bologna o a Torino, certi intellettuali vi mettono in questione la parola realtà. Sartre mette in questione la parola realtà; Kafka mette in questione la parola realtà - no, Kafka no, perché è troppo realista. Il terrore dell'uomo moderno, culturalmente parlando, è il completare le teorie nichiliste che sono sbarcate nel mondo, come l'esercito americano in Francia, con le pagine di Nietzsche, con il nichilismo di Nietzsche. Invece la realtà è realtà. Nella mia prima classe al liceo Berchet sono entrato a dire: supponete che io, professore, mi ammali e venga un altro professore supplente: «A che punto siete arrivati?», chiede. Risposta: «Al problema: che cos'è la realtà». «Cos'è la realtà? Secondo il bambino è una cosa così, secondo il grande una cosa così; insomma sono punti di vista diversi, ognuno ha il suo punto di vista». Si tratta di un professore relativista, per cui la realtà è quella che appare a ognuno, come appare a ognuno. Poi anche questo professore s'ammala, perché c'è epidemia, e allora viene un altro supplente. «A che punto siete arrivati?». «A che cos'è la realtà». «Cos'è la realtà? Questo è un bicchiere, è chiaro? Dimostratemelo!». Quello è un professore che appartiene a un'altra zona filosofica, a un altro temperamento filosofico, per cui l'intelligenza è scetticità, è sviluppare, nei contatti con la realtà, scetticità. Non si può sapere niente di nulla. Aristotele risponderebbe, e io rispondo, in questo secondo caso: è da pazzi chiedersi le ragioni di ciò che l'evidenza mostra come fatto. Di fronte al fatto, la dimostrazione del fatto è il fatto stesso. Occorre acquistare la sicurezza a livello di queste cose. La realtà dunque si coglie: è un bicchiere, è un grande meccanismo per contribuire a creare quei «cosi» che vanno in cielo, i razzi, ecc. La realtà è ciò che si mostra all'evidenza, è ciò che mostra la sua esistenza all'evidenza, ciò che è esistente, l'esistenza di ciò che si mostra come tale all'evidenza. Chiarirsi tutte queste cose, poi, ci pone anche su una strada bella, nella volontà di registrare sempre meglio le parole, di prendere il gusto della definizione più chiara, più netta, più accanita. Io sono uscito dalla mia scuola, dalla prima ora di scuola in prima liceo classico, con una grande gioia. Sono andato via quella mattina dal Berchet, ho preso via Lamarmora quasi canticchiando, perché capivo che ero entrato nella scuola, vale a dire là dove la società fa gonfiare le sue parole e fa confluire tutti i suoi sforzi, per difendere la ragione. Senza ragione non c'è neanche fede, ma semplicemente una sentimentalità. Ma usare la ragione significa esser capaci del mestiere più sofisticato che ci sia, il più semplice e il più sofisticato. Il «più sofisticato», perché indizia il punto dove si entra in una galleria in cui bisogna essere insieme, non perdere il passo, tenere il fiato. Viver la ragione: questo non porta, ma dispone, apre, spalanca, all'ignoto supremo, al punto imprevisto, come diceva Montale, a quell'imprevisto di cui tutti dicono che è meglio non parlare.

Intervento. Siamo stati aiutati a tirare le somme dell'attività di un anno. Questo dialogo è da riprendere nel lavoro estivo, a cominciare dagli appunti, non dai ciclostilati. A cominciare dagli appunti che sono nel ciclostilato, ma immessi nel ricordo di quest'ora, e soprattutto comparati alla esposizione che dello stesso tema si fa nel libro della Scuola di comunità, perché il meglio, «er mejo», è il libro.

Vivere la ragione

Pagina Uno
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di universitari.

Milano, 21 giugno 1996




Intervento. Quest’anno ci siamo lanciati a fare la Scuola di comunità dentro l’ambiente e questo si è rivelato un fenomeno di per sé aggregante e coinvolgente, che ci ha permesso un’immediatezza di rapporto con la gente. La difficoltà che emerge è però capire il nesso della Scuola di comunità con la vita, e in particolare con i contenuti dello studio, perché, quando questo nesso si tenta, il paragone risulta pretestuoso o sentimentale. Conseguenza di questo è che uno affronta i problemi da solo o al massimo si realizzano insieme le iniziative. D’altra parte, in una università che chiede sempre più di studiare, così che non resta spazio per altro, stabilire questo nesso è fondamentale, altrimenti la maggior parte del tempo è vissuta in modo acritico. Abbiamo tentato di fare dentro l’università degli incontri culturali (ai quali c’è stata una grandissima partecipazione, soprattutto giovanile), ma stentiamo a giocare questa capacità critica nel quotidiano. Volevamo allora chiederle: cosa intende lei quando dice che la Scuola di comunità non si capisce, se non se ne capisce l’utilità per la vita? E cosa significa, poi, impostare anche un’assemblea in questo modo?

Impostare un’assemblea in questo modo - rispondo cominciando dall’ultima parte della domanda - significa rifrangere lo schema con cui noi siamo nati. La Scuola di comunità si chiamava “raggio”. Quando la comunità si riuniva, la riunione si chiamava “raggio”. Il raggio è la propria esperienza messa in comune. Ognuno doveva dire la sua esperienza. Alla fine il più vecchio, il più grande o il più autorevole cercava di dare una risposta in cui fossero contenute tutte le verità implicite negli interventi sentiti. Voglio dire che la risposta alla domanda non si può dare se non a chi cerca realmente di compierla, di attuarla. Di fronte a un tema messo a capo di un raduno, una pagina di Vangelo o una domanda esemplare, se tu non ti sforzi di capire in che modo il mettervi insieme chiarisca la risposta alla domanda, se tu non ti sforzi, imparerai soltanto delle formule. Sono un po’ perplesso nel rispondere a questa domanda perché - lo accennavo a chi mi accompagnava qualche minuto fa, prima che la macchina si fermasse - essa implica la risposta a quest’altra domanda: «Filosoficamente, cioè dal punto di vista della ragione, qual è la posizione, diversa da tutti gli altri gruppi, che il movimento assume? Che posizione diversa abbiamo dal punto di vista dell’occhio, della ragione, dell’osservazione?». Per noi, il punto della questione sta nel fatto che la realtà si rende evidente nell’esperienza. Scrivete questa frase, perché è capitale. Nell’esperienza: come per Giovanni e Andrea, quando hanno visto Gesù: dopo quella sera nessuno poteva più strappare in loro l’impressione che avevano avuto da quell’uomo. La definizione che ho dato è per me importante, come è importante lo stupore di fronte alla realtà di Gesù che Giovanni e Andrea ebbero. Comunque, la mia domanda voleva innanzitutto dire: «Ragazzi, quello che ci importa è la realtà». Se una cosa non è reale, «che ce ne frega?», che ce ne importa?, quella cosa non può servirci. Tutto è evanescente, tutto è labile. La realtà ci importa. La realtà! Non: «La realtà è la verità», perché questo è senza senso; ma: «La realtà è l’ambito in cui la verità sussiste», è la figura con cui la verità coincide. Insomma: è vero ciò che è reale, è reale ciò che è vero. Si può usare, senza filosofare troppo, la parola realtà e verità. Che ve ne sembra? Questa è la prima cosa che sottolineo. “Verità” è dunque coincidente per noi con la parola “realtà”. Per chi non fosse coincidente cosa avverrebbe? Che può esserci una verità che non sia reale. Ma cosa vuol dire? Dov’è? Dove la trova? Nei fumi del sottosuolo o nell’aria rarefatta?! La verità è reale. La parola “reale” indica qualcosa di “vero”. Tanto che le parole “reale” e “vero” possono scambiarsi. Se è vero, c’è; se non è vero, non c’è. Se c’è, è vero. Se c’è, è vero solo se percepito in quanto è, non in quanto io lo penso, faccio intervenire un altro fattore per aggiungere qualche cosa o per dispiegare una forza che altrimenti la parola non ha. Vero e reale hanno un aggancio per cui l’uno è l’altro, implica l’altro - o, più semplicemente, è l’altro -. Quando i bambini domandano: «Ma è vero?» - tu stai raccontando una storia, una fiaba, una favola, e loro dicono: «Ma è vero? Ma è vero vero vero?» (che è la formula dello scetticismo tra i bambini) - essi “contestano” e giustificano quello che ho accennato adesso: è la realtà che interessa, ché la verità è nella realtà. Volete un esempio di questo, recente, nel senso di due o tre mesi fa, quando sui giornali è apparsa una discussione tra scienziati sul vero e sull’infinito? Gli scienziati possono usare la parola “infinito” come un noto fisico ha fatto: «Infinito? Infinito vuol dire un finito che si estende indefinitamente. Si può concepire la realtà come infinita nel senso che l’infinito è una cosa che si dilarga, che si dilata sempre». E io dicevo: «No! Infinito è un’altra cosa!». Infinito è un non-finito. Perciò l’infinito è un’altra cosa: è una realtà, e indica una natura, una struttura, qualcosa che non è mai, in nessun senso, concepibile come finito. Il finito, si dilatasse per milioni di secoli, si dilatasse all’infinito, nel senso matematico del termine, sarebbe sempre finito. Mi spiego? Non si può identificare l’infinito come finito dilatantesi. Non si può. L’infinito è un’altra cosa! Non è finito! È una “cosa”, che non è finita. Se è una “cosa” posso immaginare di prenderla con le mani, di guardarla con gli occhi, di parlarci: «Disgraziata», «Delinquente», «Tu», «Buono», «Misericorde». Se è una cosa devo poter dire, così come dico a un amico o a un nemico, come dico ad un estraneo: «Prego!», in un modo così buono, così spontaneo, che l’altro si meraviglia e dice in cuor suo: «Quanto è “bono” questo qui!». «Bono» nel senso di buono. Confesso che ho sbagliato, perché come si fa a rispondere ad una domanda senza rispondere a tutti i fattori che essa mette in gioco? Perché detto questo della realtà - la realtà è verità -, occorre procedere: come si fa a conoscere la verità, come si fa a conoscere la realtà? Come fa uno scienziato a conoscere una stella lontana che gli antichi non avrebbero potuto registrare? Soltanto i telescopi moderni possono renderla così vicina che lo scienziato la legge: deve dunque portarla più vicino. Cosa vuol dire portare più vicino questa stella lontanissima che per gli antichi, più gravi osservatori, sarebbe stata come una non-esistenza? Come fanno a renderla esistente? A parlarne come se fosse presente? Come fanno a rendersi presente una lontananza? Se essa, questa lontananza, entra nell’esperienza. Cosa vuol dire che «entra nell’esperienza»? Vuol dire che io la vedo come se fosse questo bicchiere, come se fosse l’amico, come una delle cose che afferro nella compagine di una collettività di persone e cose che spunta chissà da dove e che va chissà dove, ma a un certo punto diventa evidente. È come il “risuonatore di Quincke” (che ho studiato al liceo), che è uno strumento per fare risaltare quale nota domini un certo accordo: quando una certa colonna di suoni passa davanti al risuonatore di Quincke, se la nota dominante è un re, per esempio, il risuonatore grida quel re surclassando l’ascolto delle altre note. La realtà entra sotto tiro, come contenuto del gioco nostro, dell’attività nostra, e viene afferrata da noi, in quanto entra, è fatta entrare, nell’esperienza. Perciò verità e realtà si fanno riconoscere nell’esperienza. Ma che cos’è l’esperienza? Pensiamo al verbo prima usato: «La realtà si evidenzia nell’esperienza»: nell’esperienza si rende evidente quel che c’è. E allora, cos’è l’esperienza? Si potrebbe dire: «L’esperienza è il rendersi evidente della realtà». Non puoi dire: «Signore, Dio del cielo e della terra», senza partire da una esperienza, da fattori definenti che caricano la tua esperienza. Ricordatevi quella pagina della Scuola di comunità, ne Il senso religioso, dove si immagina, vi si invita a immaginare che un uomo nasca, meglio, che voi stessi nasciate a vent’anni già con la coscienza dei vent’anni, che nel primo istante di vita abbiate già la coscienza dei vent’anni. Qual è la prima cosa che vi si imporrebbe? La prima cosa, in senso assoluto, che capireste? Immaginatevi. Sono dentro il ventre di mia madre. Un urto. Esco e apro gli occhi. Il primo aspetto della realtà che colpisce l’occhio, che in quel caso ipotetico ha già la coscienza matura dei vent’anni, la prima cosa che mi colpisce, se io aprissi gli occhi, con la coscienza che ho adesso, non è “tu, lui, lei”, ma è “tutto insieme”, questa realtà fatta di mille ragazzi, la realtà, il mondo intero, tutto ciò che è. Ora, per rivolgersi a Dio dicendo: «Dio del cielo e della terra», uno deve averne già fatto esperienza, non può che partire dalla esperienza di questo Dio, di questa “realtà” strana, non immaginabile, non definibile da lui. Se uno non si è mai domandato: «La realtà, tutto questo, come mai c’è? chi l’ha fatta?», se uno non si è mai chiesto questo, è come un bambino sprovveduto o come un analfabeta di fronte a un testo da leggere. Così, ecco il nostro metodo per chiarire il problema dell’uomo come religiosità - che è il problema più profondo e totalizzante dell’uomo -: è necessario innanzitutto rendere esperienza personale il rapporto tra l’uomo e la realtà in quanto originata. È realtà, se entra nell’esperienza. Ma come fa Dio a entrare nella tua esperienza? Entra nella tua esperienza se lo lasci entrare. Porre la domanda: «In fondo in fondo di che cosa è fatto il mondo? In fondo in fondo perché c’è questa cosa che si chiama cielo e terra, o la mia azione piccola e sparuta?», porsi queste domande è porre in chiaro che la realtà non si fa da sé, ma si impone in essa qualcosa che non definiamo noi. Nella nostra esperienza la realtà si evidenzia; non “si forma”, non “si fa”, non “si costruisce”, ma si evidenzia, si rende evidente. Si rende evidente una cosa che già c’è. Perciò la realtà si fa conoscere nell’esperienza: vale a dire, quando è colta come un qualcosa che già c’è. Di qui, le due altre frasi in cui si potrebbe riassumere tutta la nostra cultura. a) La prima domanda sarebbe dunque: «Di che cosa è fatta la realtà?». Questa realtà ci si impone agli occhi come qualcosa che già c’è. Se io nascessi con la coscienza dei vent’anni, m’accorgerei, sarei costretto ad ammettere qualcosa che già c’è. La realtà appare come un già c’è. C’è da qualcosa d’altro, ché viene fuori un qualcosa d’altro da quello che io fisso! b) La seconda domanda sarebbe: «Ma come si fa a mettersi in rapporto, come si fa a conoscere qualcosa di questo “qualcosa d’altro”, di questo Dio - chiamiamolo subito così, per fare in fretta -?». Solo se si rivela, se diventa Gesù. Si rivela, Dio, se diventa uomo, in quanto diventa uomo, in quanto si identifica con qualcosa di evidente nell’esperienza. E s’è fatto uomo! Se Dio s’è fatto uomo, lo si può conoscere solo per questa strada con adeguatezza e con rispetto. Allora Dio lo si conosce nell’uomo Gesù Cristo. c) Terza domanda: «Ma questo Gesù Cristo dov’è?». Risposta: questo Gesù è nella compagnia di uomini che Lo riconoscono e che si chiama Chiesa. Chiesa: la compagnia degli uomini che Lo riconoscono. Queste sono le tre grandi formule di risposta alle tre grandi domande, più gravi delle quali non ve n’è e che fanno arrabbiare il cuore dell’uomo o la mente dell’uomo. Ma come fai a dire: «Ti amo, o Dio», senza che tu sappia consapevolmente che cosa voglia dire amare? È solo nella misura in cui tu hai fatto esperienza dell’amore che puoi dire: «T’amo, o Dio». «O Gesù d’amore acceso». Cosa vuol dire «Gesù d’amore acceso»? Gesù, d’amore acceso? Dio fatto uomo, un uomo che ha detto: «Filippo, mi domandi da che parte vengo, ma quante volte l’ho detto e non hai capito? Filippo - diceva Gesù prima di andare a morire, nell’ultima cena - chi vede Me vede il Mistero». Certo, è una cosa impressionante immaginarci come quei dodici uomini fossero attorno a quell’uomo, a un uomo come loro - di cui conoscevano la cucina dove aveva mangiato, la bottega dove aveva lavorato - che diceva così. Nella misura in cui Gesù, come Dio, non diventa, non entra nell’esperienza nostra, non possiamo riconoscerlo adeguatamente, con quella solidità, seppur difficoltà, con quella suggestività, seppur enigmaticità, con cui la realtà si presenta ai nostri occhi. È così che tu a quindici anni pretendi di avere già la ragazza e ti metti insieme a lei, come si dice (ragazzo e ragazza “si mettono insieme”): non puoi realizzare l’amore, un amore umano, che sia umano, che sia amore, se non in qualche modo riferendoti all’esperienza d’amore che hai già fatto, quella di tua madre e tuo padre - per quanto ripugnante vi possa apparire questa congiunzione -, se non riferendoti a un’esperienza d’amore già fatta. Per cui quello che fai adesso è convalidato da quello che hai fatto prima. Come tua madre si comportava con te, come tuo padre ti parlava, così tu parli, tendi a parlare con lei, o con lui. C’è uno spring, c’è una sorgente diversa, anche diversa, da quello che avevi imparato prima, ma è diversa perché non è ancora matura. Man mano che maturerà capirai che l’amore al padre e alla madre hanno ultimamente lo stesso identico volto, la stessa identica frescura, la stessa identica forza che ha l’amore tra l’uomo e la donna. Capisco di indicare distanze abissali, come da una sponda all’altra del grande delta del Rio delle Amazzoni - dove per mille km una riva non svela l’altra -. Ci vorrà tempo e approfondimento. Perciò, concludo, il problema che ha posto prima la nostra amica è il problema del rendere parte dell’esperienza la realtà che ci interessa discutere, o scoprire, o servire, per renderla utile all’affermazione di quell’“io” che sembra piccolissimo come un filo d’erba nel mondo, un bocciolo appena accennato su un ramo a marzo, ed è fatto invece per l’Infinito. Come diceva Dante: «Ciascun confusamente un Bene apprende nel qual si queti l’anima». L’animo si «queta» quando tutto ha risposta. Come la fame, quando ha avuto il cibo che l’ha soddisfatta, si placa. Così è, ultimamente, il fatto dell’amore.

Intervento. Di fronte a queste osservazioni, che esprimono quello che noi abbiamo incontrato, che indice è il fatto che poi uno senta lo studio diviso, senta la quotidianità divisa? Che cosa deve fare?

Ognuno di noi parte con la percezione di una divisione. Perché se una cosa è nuova, non è qualcosa che già ho, perciò parto con la percezione che è divisa ancora da me. Devo conquistare l’unità con essa. Esattamente come il ragazzo fa con la ragazza: sono due cose divise, ma l’affezione inoltra l’individuo in quell’attacco a ciò che ha davanti, in quella comprensione, in quella affermazione, in quella presa di ciò che ha davanti, per cui diventano una cosa sola. Ed è nella misura in cui uno è aiutato in questa esperienza di unità che si capisce che quello che sembrava unire di più è ciò che più distacca, come l’istinto a un livello inferiore, e quello che sembrava inattingibile o astratto diventa più potentemente sorgente dell’affezione, della suggestività, della simpatia, di una dedizione.


Intervento. La mia domanda parte da una parola in cui ci siamo imbattuti sia nel lavoro di Scuola di comunità, sia nel lavoro sui testi di giudizio nel momento delle elezioni e in altri momenti. Questa parola è “popolo”. Vorrei chiederti di introdurci meglio nella comprensione di questa parola. Avvertiamo che, ad esempio, anche sulla parola “compagnia” essa getta una luce nuova, perché la Scuola di comunità dice che l’intervento di Dio diventa concreto nella storia di un popolo, e un popolo ha le sue leggi, i suoi canti, i suoi condottieri. Questo mi fa capire di più (è accaduto così anche nella mia vita) di avere incontrato una storia particolare, fatta di persone precise, insomma un popolo.

“Compagnia” vuol dire essere insieme per qualcosa; essere insieme senza il “per qualcosa” scoccia, perfino scoccia, soffoca. Compagnia è uguale a essere insieme per qualcosa. La dignità della compagnia è definita dalla dignità del “qualcosa”. Essere insieme per mangiare le acciughe è un conto, è un certo valore, ma essere insieme per studiare Dante o per capire i misteri, in cui l’uomo ha incominciato a introdursi, dell’evoluzione dell’universo è diverso. Compagnia è essere insieme per qualcosa che si chiama “scopo”. Una compagnia senza scopo non esiste. “Popolo” è una compagnia che ha come scopo il portare il proprio contributo alla immagine della storia. Compagnia è essere insieme avendo come scopo quello di dare il proprio contributo allo sviluppo dell’umanità che si chiama “storia”. Sviluppo e in senso quantitativo (perciò, ecco la compagnia dell’uomo e della donna) e in senso sociale, come comprensione sostenuta, motivata e ricercata insieme (ecco la cultura), o come l’essere insieme per affrontare la storia con maggior forza, dal punto di vista di una maggior forza, di una maggior sicurezza, di maggior egemonia (questo può chiamarsi Stato, alleanza fra Stati, o può chiamarsi Impero).


(Il testo integrale era stato pubblicato su Tracce n.8, settembre 1996)