Welfare, i due volti della riforma

Giorgio Vittadini

L'attuale dibattito sulla riforma del Welfare sembra caratterizzato da incomprensibili dimenticanze da parte di tutti i soggetti in gioco.
Sembra che con Welfare si intenda semplicemente previdenza e pensione, mentre chiunque non sia del tutto sprovveduto sul tema, sa che vi è almeno un altro punto cruciale: l'assetto dei servizi della persona, soprattutto il sistema dell'istruzione, la formazione professionale, il sistema sanitario e assistenziale. Il grande dibattito in corso in tutti i paesi più sviluppati è il superamento del tradizionale Welfare State, dove lo Stato ha gestito la gran parte di servizi, finanziandosi con la tassazione e non lasciando libero l'utente né di scegliere tra pubblico e privato, né di scegliere all'interno degli "agenti" statali. L'alternativa non è innanzitutto il privato, ma il Welfaremix, ove agenti privati, statali, non profit si confrontano sulla base di prezzo, qualità e norme atte a garantire l'eticità e l'equità di settori che non possono essere regolati dal semplice guadagno. Moltissimi tra i principali studiosi dell'assetto del rapporto società-stato (Hirst, Wagner, Anheier) sono concordi nel ritenere il ruolo dell'impresa non a fini di lucro come fondamentale in questi settori. Essa garantisce uno scopo che non è la semplice massimizzazione dei profitti pur reinvestiti, ma l'erogazione di servizi che siano il più possibile utili al benessere della persona e della società.
Ciò dovrebbe essere facilmente comprensibile in una società come quella italiana, dove storicamente le motivazioni cattoliche, laiche e socialiste, hanno fatto nascere realtà di imprese capaci di cogliere il bisogno della persona, più che lo Stato o l'impresa tout-court. E' per questo che in molti Paesi i servizi di pubblica utilità alla persona sono realtà non profit. Tali realtà garantiscono una partecipazione alla vita democratica più effettiva e reale del semplice voto, a meno che sia a destra sia a sinistra si vogliano ignorare tradizioni e strutture che rendono la società molto più complessa. Gli agenti non profit garantiscono maggiore efficienza ed efficacia rispetto a realtà statali in quanto essendo private risparmiano risorse e avendo una finalità etica e ideale sono rivolte per natura a rispondere al bisogno di chi assistono.
Non si tratta però di creare artificiosamente dei privilegi, basterebbe definire legislativamente cosa sia impresa sociale e realtà non profit (dando organicità a quelle forme giuridiche del libro primo del codice civile e di altre leggi speciali); definire quello di pubblico utilizzo che svolgono una funzione al servizio di tutti pur non essendo statali; permettere che la tassazione non sia semplicemente spesa pubblica in questi settori, ma attraverso diversi meccanismi quali deduzioni, esenzioni, buoni di detassazione delle donazioni accompagnano la libera scelta di chi privilegia agenti non profit accreditati per la loro qualità rispetto ad agenti statali senza far pagare loro il servizio due volte.
Ma molti sono gli oppositori. Inutile parlare della sinistra, in cui le voci che pur hanno portato a inserire le sussidiarietà orizzontale nella Costituzione, sembrano dominate da istanze statali. Anche l'azione del governo è contraddittoria.
Alcuni segnali sono incoraggianti. Ad esempio l'istituzione dell'Authority del volontariato, presieduta da una personalità di alto valore come Lorenzo Ornaghi; l'entrata nel Cnel di realtà del Terzo settore; la proposta della a-tax; la proposta di riforma della scuola e della sanità atte a garantire proprio un Welfare mix.
A questo programma ambizioso corrispondono negativamente alcuni provvedimenti già attuati o quanto meno confusi. Il primo è la legge che, per eliminare le false cooperative nella produzione e nel consumo, si dimentica delle cooperative sociali ritenendo più mutualistici cooperatori che si scambiano macchine di lusso piuttosto di coloro che lavorano con handicappati non soci; la legge sulle fondazioni, che per mettere ordine al sistema bancario scippa il patrimonio, costruito dalla società civile, consegnandolo ai partiti nella loro versione localistica; la titubanza sulla legislazione dell'impresa sociale, ove si scoprono nuovi consociativismi con associazioni che hanno paura di perdere i loro privilegi nella riforma dello Stato.
Perchè non seguire semplicemente l'esempio di governatori come Formigoni, che usano i confusi decentramenti alla Bassanini o i federalismi statalisti alla Bossi, per esaltare il valore della società civile, alla base del suo successo internazionale presso le agenzie di rating internazionale?