Zamagni: c’è un “noi” che stato e mercato non possono cancellare

Stefano Zamagni

L’intervento di Julián Carrón ad Assago colpisce nel segno e ci invita a scavare in profondità se si vuole giungere al cuore della crisi economico-finanziaria tuttora in atto. Tra le tante questioni aperte che la modernità ci ha lasciato in eredità v’è quella che riguarda il dissidio irrisolto tra quelle linee di pensiero che, per portare alla luce importanti dinamiche delle nostre società, hanno finito col dissolvere la soggettività nel collettivo (si pensi al neo-marxismo o al neo-strutturalismo) e quelle linee di pensiero che hanno bensì esaltato la soggettività, ma al prezzo di ridurre il sociale a mera aggregazione di preferenze individuali. È questo l’esito cui giunge l’individualismo - come sottolinea con insistenza Carrón - perché confonde la socialità, che è anche degli animali, con la socievolezza, che invece è tipica degli uomini.

Il problema allora è quello di operare una saldatura fra queste due polarità. Come? Nel suo intervento, Carrón mostra, in modo convincente, come, nelle condizioni storiche di oggi, sia falso vedere i termini che descrivono le coppie indipendenza-appartenenza, libertà-giustizia, efficienza-equità, autointeresse-solidarietà, come alternativi. È falso cioè pensare che ogni rafforzamento del senso di appartenenza debba essere visto come una riduzione dell’indipendenza della persona; ogni avanzamento sul fronte dell’efficienza come una minaccia all’equità; ogni miglioramento dell’interesse individuale come un affievolimento della solidarietà. Che non si tratti di un’operazione culturale scontata o di poco conto ci è rivelato dalla circostanza che la pratica del dono come gratuità è oggi sotto attacco da un duplice fronte, quello di neoliberisti e quello dei neostatalisti, sebbene con intenti affatto diversi.

I primi si appellano all’estensione massima possibile delle pratiche della filantropia per portare acqua al mulino del “conservatorismo compassionevole” al fine di assicurare quei livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli della popolazione che lo smantellamento del welfare state, da essi invocato, lascerebbe altrimenti senza copertura alcuna. Ma che non sia questo il senso dell’agire donativo, ci viene dalla considerazione che l’attenzione ai portatori di bisogni non è oggettuale, ma personale. L’umiliazione di essere considerati “oggetti” sia pure di filantropia o di attenzione compassionevole è il limite grave della concezione neo-liberista.

Basicamente non diverso è l’attacco che viene dalla concezione neostatalista. Presupponendo una forte solidarietà da parte dei cittadini per la realizzazione dei cosiddetti diritti di cittadinanza, lo Stato rende obbligatori certi comportamenti. In tal modo, però, esso spiazza il principio di sussidiarietà, negando in pratica, a livello di discorso pubblico, ogni spazio a principi che siano diversi da quello di solidarietà. Ma una società che elogia a parole l’azione gratuita e poi non ne riconosce il valore nei luoghi più disparati del bisogno, entra, prima o poi, in contraddizione con se stessa.

Se si ammette che il dono svolge una funzione profetica o - come è stato detto - porta con sé una “benedizione nascosta” e poi non si consente che questa funzione diventi manifesta nella sfera pubblica, perché a tutto e a tutti pensa lo Stato, è chiaro che quella virtù civile per eccellenza che è bene resa dall’affermazione “la tua opera è un bene per tutti” non potrà che registrare una lenta atrofia.

L’assistenza per via esclusivamente statuale tende a produrre soggetti bensì assistiti ma non rispettati, perché essa non riesce ad evitare la trappola della “dipendenza riprodotta”. È veramente singolare che non si riesca a comprendere come la posizione neostatalista sia vicina a quella neoliberista per quanto attiene la identificazione dello spazio entro il quale collocare la gratuità. Entrambe le matrici di pensiero, infatti, relegano la gratuità nella sfera privata, espellendola da quella pubblica. La matrice neoliberista perché ritiene che al fine del benessere, bastino i contratti, gli incentivi e ben definite regole del gioco. L’altra matrice, invece, perché sostiene che per realizzare nella pratica la solidarietà basti lo Stato sociale, il quale può bensì appellarsi alla giustizia, ma non certo alla gratuità.

Qual è la funzione propria del dono? Quella di far comprendere che accanto ai beni di giustizia ci sono i beni di gratuità e quindi che non è autenticamente umana quella società nella quale ci si accontenta dei soli beni di giustizia. Qual è la differenza? I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere; i beni di gratuità sono quelli che nascono da una obbligatio. Sono beni cioè che nascono dal riconoscimento che io sono legato ad un altro, che, in un certo senso, è parte costitutiva di me. Ecco perché la logica della gratuità non può essere semplicisticamente ridotta ad una dimensione puramente etica; la gratuità infatti non è una virtù etica. La giustizia, come già Platone insegnava, è una virtù etica, e siamo tutti d’accordo sull’importanza della giustizia, ma la gratuità riguarda piuttosto la dimensione sovra-etica dell’agire umano perché la sua logica è la sovrabbondanza, mentre la logica della giustizia è la logica dell’equivalenza. Ebbene, Carrón ci dice che una società per ben funzionare e per progredire ha bisogno che all’interno della prassi economica ci siano soggetti che capiscano nel concreto cosa sono i beni di gratuità.

La sfida che Carrón invita a raccogliere è quella di battersi per restituire il principio del dono alla sfera pubblica, di pensare cioè la gratuità, e dunque la fraternità, come cifra della condizione umana e quindi di vedere nell’esercizio del dono il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune. Senza pratiche estese di dono si potrà anche avere un mercato efficiente ed uno Stato autorevole (e perfino giusto), ma di certo le persone non saranno aiutate a realizzare la gioia di vivere. Perché efficienza e giustizia, anche se unite, non bastano ad assicurare la felicità delle persone. Infatti, come si legge nel testo, non si può “essere felici a prescindere dagli altri” (n.2).

Da www.ilsussidiario.net (11 dicembre 2009)