La preferenza che ci salva dal nichilismo

Da Tracce - luglio/agosto 2005
Julián Carrón

In occasione del Congresso Eucaristico Nazionale, svoltosi a Bari dal 21 al 28 maggio 2005, la comunità pugliese di Comunione e Liberazione ha promosso - d’intesa con il Comitato diocesano del Congresso - un incontro pubblico sul tema: “Una vita che incontra la vita. Dialogo con don Julián Carrón”. L’incontro è stato proposto come contributo di approfondimento e di testimonianza sul tema che ha visto riunita a Bari tutta la Chiesa italiana: “Senza la domenica non possiamo vivere”.
Il gesto ha avuto luogo venerdì 27 maggio, alle ore 16.30, presso l’Aula Magna del Politecnico di Bari, collegata in audio/video con altre tre aule, e ha visto la partecipazione di oltre 1.500 persone. Tra le personalità presenti vi erano il sindaco di Bari, Michele Emiliano, e il rettore dell’Università di Bari, Giovanni Girone.
Nella mattina dello stesso giorno, don Carrón aveva preso parte alla tavola rotonda sul laicato (vedi
Tracce, giugno 2005, pp. 120-121), presieduta dal cardinale Camillo Ruini e con la partecipazione di responsabili di movimenti e associazioni ecclesiali.

Costantino Esposito: «Se gli uomini venissero privati dell’infinitamente grande, essi non potrebbero più vivere e morrebbero in preda alla disperanza». È la frase di Dostoevskij che questa mattina don Julián Carrón ha citato nel corso del suo intervento al Congresso Eucaristico Nazionale, e a me sembra che sia molto significativa per poter avvertire l’esperienza umana a cui siamo stati educati dal carisma di Comunione e Liberazione e che vorremmo proporre all’interno di questo Congresso come contributo umile, ma certo, per tutti. Nell’esperienza noi scopriamo che è il desiderio della totalità e dell’infinito ciò che ci fa uomini, e che questo apre veramente il dramma della vita, nel momento in cui ci rendiamo conto che a quel desiderio noi stessi non possiamo dare risposta. Ma quando qualcuno comincia a rispondere, allora comincia la vita: una vita che incontra la nostra vita, secondo una delle più belle definizioni dell’esperienza cristiana date da don Giussani. L’incontro di questa sera vuol essere un aiuto a capire in che modo questa vita sta incontrando, ha incontrato, da duemila anni incontra la nostra vita, e continua ad incontrarla oggi. È lo stupore per una presenza che salva tutto di noi, come ha concluso sempre questa mattina don Carrón, aprendo una prospettiva inedita anche rispetto a quanto solitamente si dice sull’Eucarestia: un uomo, infatti, può essere realmente interessato all’Eucarestia - cioè alla presenza reale di Cristo - solo perché essa salva tutto di noi, fino alla sensibilità, fino all’istante che passa.
Don Carrón è stato disponibile a rispondere ad alcune domande che, ahimè, gli farò soltanto io. Lo dico però con una certa tranquillità, perché non si tratta soltanto di domande mie personali, ma di domande che sono emerse in tanti colloqui tra di noi, e con molti che abbiamo incontrato, che non sono di Cl e in diversi casi non si direbbero neanche cristiani. Domande nate, in questi ultimi mesi, a partire da fatti concreti e straordinari, come la morte e i funerali di don Giussani, la morte di Giovanni Paolo II (la morte: può sembrare strano, ma uno può parlare della morte come con un riverbero di vita, senza che risulti stonato dirlo, ma riconoscendo in essa un fattore reale dell’esperienza della vita), e la sorpresa piena di gratitudine per l’elezione del cardinal Ratzinger come Benedetto XVI. Si tratta di fatti, come pure altri fatti, magari molto più piccoli, che accadono quotidianamente nella vita di tanti di noi, facendo nascere la domanda: «Ma chi era quell’uomo lì? Che tipo di esperienza ha generato? Che cosa è successo nell’umanità di uno, tanto da creare un popolo?». Un popolo: non una massa, ma un luogo in cui emerge un barlume di consapevolezza, una coscienza nuova dell’io. Perciò spero di interpretare domande che riguardano tutti.

La prima domanda parte dal tema per cui tu sei qui a Bari - e ringraziamo per questa occasione il Congresso Eucaristico - e cioè, appunto, l’Eucarestia. Per molti si tratta di un tema che ha a che fare solo con il culto, che si identifica meccanicamente con un rito. E invece abbiamo letto nel numero di maggio della rivista Tracce un testo del ’96 di don Giussani che fa immedesimare esistenzialmente con questa parola. Scrive don Giussani: «Quello che la parola “Eucarestia” ci invita ad identificare è proprio il metodo con cui Dio si manifesta», ossia una «presenza» che risponde al desiderio più profondo del cuore dell’uomo, un avvenimento che valorizza e ridesta l’attesa di compimento che è la vita, come appunto abbiamo visto - come tutti hanno visto - nei fatti che citavo prima. E Benedetto XVI, il 24 aprile scorso, lo ridiceva, lo gridava nuovamente in piazza San Pietro: «La Chiesa è viva», essa incontra e cambia sorprendentemente l’umano. Volevamo chiederti: quali sono i fattori decisivi di questa vita e come è possibile per noi verificarli oggi?

Julián Carrón: Prima di tutto voglio ringraziarvi per questa opportunità di ritrovarci insieme e di passare questo momento parlando delle cose che più abbiamo a cuore, che più interessano a ognuno di noi. Di fronte a questa domanda di Costantino, la prima cosa che mi viene subito in mente è il pezzo del Vangelo che abbiamo letto qualche giorno fa: racconta di un cieco chiamato Bartimeo, che era, come tanti ciechi in quel momento forse, all’angolo della strada, aspettando che qualcuno gli desse qualche soldo. Appena ha sentito parlare di Gesù, appena ha sentito il rumore intorno a lui, ha cominciato a domandare: «Ma chi è, che succede?». Gli hanno detto: «È Gesù, è Gesù di Nazareth». Allora ha incominciato ad andargli dietro gridando; e gli altri cercavano di farlo tacere. Il Vangelo dice: «Gridava ancora di più», fino al punto che Gesù l’ha sentito e si è fermato. «Cosa vuoi da me?». «Voglio vedere». E Gesù ha risposto a questo suo desiderio facendo il miracolo. Tutto è lì: la vita non è un’astrazione, la vita è, come vediamo, un desiderio che uno ha dentro il cuore, come quello di vedere che aveva quel cieco. Il primo fattore di questa esperienza, di cui mi domandava Costantino, è questa umanità nostra, che noi ci troviamo addosso, con una urgenza nel cuore di pienezza, con un desiderio di verità, di bellezza, di costruttività che non possiamo toglierci di dosso. E questo desiderio è un desiderio di totalità, diceva lui prima, ed è vero: perché è un desiderio dell’impossibile, di qualcosa che è così grande che uno si rende conto che è impossibile all’uomo potervi rispondere, ma c’è e noi non possiamo accontentarci; anche se tante volte cerchiamo di accontentarci, non possiamo. Sarebbe facile ridurre, come riduciamo l’aria condizionata, l’ampiezza del desiderio. Certe volte ci abbiamo provato, ma non ci riusciamo, perché è inscritto nella nostra natura; è di più, all’inizio, è prima di qualsiasi mossa della libertà, ce lo troviamo addosso, e questo urge dentro di noi in tanti modi, nelle urgenze che abbiamo, come qualcosa che vien fuori dal più intimo del nostro cuore, dalle nostre viscere, come un’urgenza che è più grande di noi. Tant’è vero che tutte le mattine non possiamo evitare di ritrovarcelo addosso, sia capitato quello che sia capitato il giorno prima. Sono urgenze che possono avere tantissime modalità: tristezza, solitudine, desiderio di pienezza, di essere voluto bene, stanchezza. Le modalità possono essere quasi infinite, ma sono tutte modalità di questo desiderio che ci troviamo addosso e che urge dentro di noi come qualcosa che non si ferma mai. Non è come quando uno guarda tranquillamente, come quando legge una poesia in cui si parla di queste cose; no, no, no! È qualcosa che ci sentiamo dentro, che sentiamo vibrare dentro di noi; è questo che noi abbiamo imparato a identificare con la parola “cuore”, che riassume questo insieme di esigenze che ci sentiamo addosso e che, se noi lo prendiamo sul serio, diventa veramente il criterio di giudizio con cui ci buttiamo ogni volta nel reale, ogni mattina.

La prima questione è rendersi conto che questo cuore è l’affermazione più grande che noi possiamo fare della dignità dell’uomo, perché nessuno, se prende consapevolezza di che cosa è il cuore, può fregarsene, nessuno, perché nessuno è in grado di cambiare questo cuore, neanche noi che tante volte proveremmo quasi a dimenticarlo. Invece questo cuore, così come ci viene dato, così come ci costituisce, ci lancia nel reale per vedere, in ogni cosa che troviamo, come corrisponde o no a questo desiderio del cuore. Io sono grato a don Giussani, lo dico sempre ogni volta che parlo, perché, avendo capito questo, avendomi reso consapevole di questo, mi ha consentito di fare un cammino umano nella vita. Perché io tante volte incontravo persone grandi, ma erano là, lontane, e io ero qui come un nano e non sapevo come raggiungerle. Invece don Giussani mi mostrava un cammino, una strada da fare, in cui mi dava un criterio che non era quello che decideva lui, ma quello che io riconoscevo dentro di me, nella mia esperienza; e perciò mi lanciava in continuazione a verificare, nell’esperienza, che cosa mi corrispondeva. E quando uno comincia a fare così, ogni cosa che succede, anche quando uno sbaglia, anche quando le cose non funzionano come pensava, tutto diventa parte di un cammino, parte di una costruzione, è come un mattone con cui uno pian piano costruisce la propria vita. Tutto serve, anche quando uno sbaglia: guardate che questo è uno spettacolo! Che tutto possa servire alla costruzione della vita, perché uno impara che cosa è la verità; perché anche quando uno dice: «Questo non è», vuol dire che c’è qualcosa, che sta affermando sempre qualcosa di vero, di bello, anche se ancora non l’ha incontrato, vuol dire che qualcosa non corrisponde. Ma c’è qualcosa che corrisponde, e perciò quando uno incontra, quando ha la grazia - diciamo in linguaggio cristiano - di trovare quella presenza unica, eccezionale, in cui incomincia a vedere, a intravedere la corrispondenza, allora si esalta proprio l’io. È quello che a noi è capitato incontrando don Giussani, come è capitato agli apostoli incontrando Gesù. Quello che mi colpisce sempre sono quelle sfumature che uno dà quasi per scontate nella vita, come quando legge il Vangelo: quei primi due che l’hanno incontrato per la prima volta, Giovanni e Andrea, non sapevano niente di Lui. Come l’hanno riconosciuto tra tanti, tra tanti volti che avevano incontrato nella vita, come hanno riconosciuto che era proprio Lui? È facile, è facile riconoscerlo, come quando uno va a una festa e riconosce lei, la persona amata: niente è più facile di questo.

Il cristianesimo è facile: uno accusa il contraccolpo di una Presenza buona, che corrisponde. E si vede che Lo ha incontrato per una cosa semplicissima: perché uno ha voglia di rivederLo il giorno dopo. Provate a pensare quante persone avete incontrato nella vita che avete desiderato rivedere il giorno dopo, di andare a trovare il giorno dopo. Tutto è cominciato così, il Vangelo, la novità cristiana sono incominciati così, in un modo assolutamente semplice: la sequela di Gesù non è stato altro che il desiderio di poter rivedere, una volta dopo l’altra, quella persona da cui uno è stato colpito nella vita. Non siamo matti, non siamo dei visionari, anzi, proprio perché voglio rivederlo il giorno dopo, e poi il giorno dopo, e poi il giorno dopo, posso rendermi conto se sono stato un visionario, perché una volta posso sbagliare, due volte posso sbagliare, tre volte posso sbagliare, ma alla quinta mi rendo conto, o alla sesta, o all’ottava. È impossibile non rendersi conto quando si sbaglia: provate voi stessi. Invece la verifica che uno ha incontrato la verità, che uno ha incontrato qualcosa che gli interessa per sempre, è che proprio il desiderio di rivederlo in continuazione, gli conferma ogni volta di più che era proprio lui, come quando hai incontrato la persona amata: reincontrarla conferma ogni volta di più che è proprio lei. Perciò, accettando di partecipare a quella compagnia, cercando di rispondere al desiderio di rivederla ancora, uno verifica, con la ragione e con la libertà, non soltanto con il sentimento, che era proprio Lui.

È veramente una cosa grande come siamo stati fatti, perché perfino Gesù si sottomette a questo criterio di giudizio che è il cuore; non dobbiamo usare questo criterio per tutto il resto tranne che per Gesù e con Gesù seguire senza ragione. È proprio nell’incontro con Gesù che viene fuori, nell’esperienza, che cos’è il cuore; perché Gesù corrisponde al cuore, e perciò ci riempie di ragione, e quanto più uno Lo incontra tanto più ha ragioni per seguirLo. E questo, pian piano, desta un’affezione a Gesù che è imparagonabile a qualsiasi altra cosa, perché uno sperimenta nella vita questo centuplo, perché vede come la vita diventa, ogni volta, più intensa, più grande, più bella; quanto più passa il tempo tanto più uno si rende conto perché Gesù è diverso, se uno ha incontrato veramente Gesù. Perché Gesù è diverso? Perché tutte le altre cose, anche se promettono molto, poi deludono; la diversità sta proprio in questo: quanto più frequenti Gesù, quanto più gli sei affezionato, quanto più diventa tuo, tanto più puoi partecipare alla novità che Lui introduce nella vita. Chi sei tu, Cristo, chi sei tu che non possiamo fare a meno di Te, una volta che Ti abbiamo incontrato? Perché, come abbiamo cantato, è come se ogni volta di più «noi non sappiamo chi era», e più lo frequentiamo, più ci rendiamo conto che ancora non l’abbiamo scoperto del tutto, perché tutto è da scoprire: è familiare, ma è sempre più nuovo. Ma chi è questo a cui diamo il nome di Gesù? Egli rende, ogni volta, il cuore più contento, più lieto, quanto più passa la vita, perché questa è la diversità. A me impressiona tantissimo quante persone conosciamo con più di quarant’anni che non siano già scettiche, cioè che non siano già deluse, perché tutti incominciamo nella vita con questo slancio, con questa curiosità, con questo desiderio, ma pian piano decadiamo; perciò trovare persone, come noi abbiamo visto, come don Giussani o Giovanni Paolo II o Benedetto XVI, che ha settantotto anni, e vedere in loro come la vita non fa la parabola di tutti, ma che uno vive e muore sempre con un di più, ditemi se c’è qualcosa al mondo che sia paragonabile a questo.

Esposito: Sono molto colpito da quello che hai detto adesso, e cioè che anche rispetto a Gesù il criterio di verifica è il cuore, perché altrimenti tutto si ridurrebbe a un moralismo, a una nostra idea. Questo mi fa pensare che è proprio una novità questa dinamica di cui tu parli, quella per cui incontrando Gesù, attraverso l’incontro con il carisma di don Giussani, comincia un cammino veramente umano. Invece per noi - dico “noi”, non dico: “la mentalità in cui viviamo”, perché è anche la nostra, questa mentalità - si verifica una strana situazione: avvertiamo un fascino, sentendo uno come don Giussani, come te, che racconta un’esperienza di cambiamento dell’umano; avvertiamo questo fascino, eppure percepiamo anche una fatica, perché si tratta di una controtendenza rispetto alla mentalità di tutti - che è anche la nostra, ripeto -, vale a dire la mentalità del nichilismo. L’aspetto affascinante di quello che tu dicevi lo richiamava anche don Giussani nell’articolo sull’eucarestia: perché l’Eucarestia è sorprendente? Perché è il punto in cui «la realtà sensibile, la carne e il sangue non sono limite, non si oppongono alla realtà ultima vera, all’eterno, allo Spirito». La realtà sensibile non è più separata rispetto al divino, all’ideale, allo spirituale, al significato di tutto: anzi, è come se il segno e il Mistero, come ci richiamavi questa mattina, coincidessero. In genere, invece, noi pensiamo in un’altra maniera, e consideriamo l’ideale come qualcosa di astratto, riducendolo a un’idea spiritualistica o traducendolo in uno sforzo volontaristico («cosa dobbiamo fare», «come possiamo impegnarci di più»), mentre dall’altra parte la realtà sensibile, quello che ci tocca e ci pesa nella vita, sembrerebbe portare soltanto allo scetticismo. Volevamo chiedere a te - perché sei anche tu come noi partecipe di questa mentalità -: come quello che ci hai detto giudica e fa conoscere di più il dramma del nichilismo?

Carrón: Guardate che cercare di rispondere a queste domande che abbiamo tutti, adesso che il nichilismo ci circonda tutti, è andare veramente a fondo di che cosa è la vita, di cosa è il reale. A noi tante volte l’ideale sembra astratto, pensiamo che possiamo raggiungerlo attraverso un’astrazione, ma la modalità con cui il Mistero ci ha consentito di conoscere il reale, non è attraverso un’astrazione: è attraverso il concreto. Vi faccio un esempio: non abbiamo conosciuto l’amore facendo un corso all’università, altrimenti tutti coloro che ci hanno preceduto e che non hanno avuto la fortuna di andare all’università sono disgraziati, poveretti. Invece no, perché noi, tutti gli uomini, siamo stati introdotti all’amore non attraverso un discorso, ma innamorandoci di qualcuno, o essendo amati da qualcuno; e così abbiamo capito, dall’interno dell’esperienza, cos’è l’amore. Non che nessuno ci abbia fatto una lezione, ma noi abbiamo potuto giudicare se era vera o no la lezione proprio per l’esperienza che abbiamo fatto. Il criterio è la nostra esperienza. Questo metodo, con cui siamo introdotti alla verità delle cose, alla verità di quelle cose che sono veramente decisive, è lo stesso metodo con cui il Mistero cerca di salvarci dal nichilismo; altrimenti prima o poi tutto diventa veramente non interessante per la vita. E qual è la modalità con cui ci salva? La modalità è quella che don Giussani ci ha sempre insegnato, ed è rivoluzionaria, tant’è vero che tentiamo di difenderci da essa. Si chiama “preferenza”. Il concetto di preferenza è una delle cose più belle che abbiamo mai sentito: il Signore, per attrarre il nostro cuore, che ha sempre un po’ la tentazione dell’autonomia, che ha sempre il desiderio di affermarsi un po’ pazzamente contro se stesso, come cerca di salvarci? Non soltanto con dei comandamenti, non soltanto con una legge esterna, ma destando davanti a noi una preferenza; e una preferenza non può essere qualcosa di astratto, ma deve essere qualcosa di sensibile, di concreto, a cui uno si sente veramente attaccato. Prima di rendersi conto, uno è attaccato a; poi si rende conto che è attaccato a; e così il Signore ci afferra dall’interno di una esperienza umana. E perciò occorre una realtà fisica, concreta; don Giussani usa il termine udibile, fotografabile, perché se non fosse così, noi, che siamo fatti di carne e ossa, di corpo e anima, non saremmo mai travolti, presi con tutto il nostro io. Se è una cosa astratta, noi decidiamo cosa seguire e cosa no, ma se c’è una preferenza, è tutto il mio io che è trascinato, coinvolto in quel desiderio di partecipare; e così, attraverso questa preferenza, il Signore ci fa attaccare, ci incolla. E quando uno è incollato a qualcosa d’altro, non può essere nichilista, perché questa è la vittoria proprio del nichilismo, proprio sul nichilismo: che uno è attratto da qualcosa che è interessante per la propria vita, che costantemente ridesta l’interesse per la propria vita e proprio nel fatto che ridesta l’interesse per la propria vita dimostra la sua verità, la sua diversità rispetto a tutto il resto, che prima o poi decade. Perché questa è la differenza; l’unica cosa importante è verificare se c’è qualcosa che è interessante e resta interessante nel tempo e nell’eternità, perché di cose che in un certo momento ci interessano, ce ne sono troppe, ma cose che restano interessanti per il tempo, nel tempo, queste non sono tante, anzi, ce n’è soltanto una. E ciascuno può fare esperienza di questo. Perché, amici, se non c’è qualcosa che resti interessante per il tempo, per la vita, per l’eternità, possiamo andare “tranquillamente” a casa, non c’è niente da fare, anche con tutta la nostra volontà, anche con tutto il nostro impegno etico, anche con tutto il nostro moralismo, non ce la faremmo mai, perché non ci sarà mai qualcosa che ci interesserà per sempre, e perciò, prima o poi, vincerà il moralismo. Per questo il problema di oggi non è diventare più moralisti, ma qual è la vera natura del cristianesimo, che cosa ha fatto Gesù, che cosa ha introdotto Gesù come novità della vita. Perciò non bastava che Gesù ci facesse arrivare un elenco di comandamenti, di valori morali così come adesso non basta un elenco di valori morali, riducendo il cristianesimo a un’etica, perché questa non è in grado di interessare tutta la vita; e infatti, ridotto a un’etica, il cristianesimo non ci interessa più. Guardate che nella nostra società il nichilismo vince, non nelle società non cristiane, ma proprio in quelle cristiane, proprio per questa riduzione etica del cristianesimo. Fin dall’inizio i primi che L’hanno incontrato, Giovanni e Andrea, e quelli che rimangono attaccati a questo metodo, solo essi hanno vinto il nichilismo, e solo così si può vincere il nichilismo. Invece quando il cristianesimo si riduce, viene ridotto a un’etica, inesorabilmente finisce per non interessare più. Lo vediamo oggi come neanche il desiderio di vivere certi valori riesce a fermare il nichilismo: è micidiale, ma è proprio così. E questo è un problema che non riguarda solo i cristiani, ma riguarda tutti quanti hanno a cuore la propria umanità; perciò il problema è antropologico, non etico; il problema è che cosa risponde a questo desiderio di pienezza, di bellezza, di giustizia che abbiamo dentro, che cosa può restare interessante per tutta la vita. Senza questo, prima o poi, il nichilismo vincerà. In questi giorni un gruppetto di universitari di Milano mi ha raccontato di avere incontrato una ragazza protestante che pensava di essere più attaccata al Mistero di loro, ma poi ha detto loro: «Stando con voi mi rendo conto - diceva a un gruppo di ragazzi cattolici, del movimento! - adesso, mi rendo più conto proprio stando con voi come il Mistero diventa veramente familiare». Questa ragazza aveva sentito parlare del Mistero, forse dava tempo al Mistero, dedicava qualche aspetto della vita al sacro, ma non riusciva a fare sì che il Mistero le diventasse familiare. Invece è stando in una realtà sensibile che costantemente ci apre all’Infinito, ci apre all’Infinito in continuazione, che il Mistero diventa familiare. Perché noi, oggi, quando troviamo cristiani con quella diversità unica che noi abbiamo incontrato in don Giussani o in Giovanni Paolo II, amici, quello di cui noi facciamo esperienza si chiama Gesù. Perché noi, come ho detto in altre occasioni, sappiamo che Gesù continua a essere presente, non soltanto perché rimane, permane la Sua causa, non solo perché permane la Sua parola, non soltanto perché permane la Sua etica; noi sappiamo che permane Gesù, perché noi siamo stati guardati con una modalità che è entrata nella storia e che è possibile soltanto per Gesù. Noi sappiamo che Lui continua a essere tra di noi, non perché facciamo uno sforzo di immaginazione, non perché vogliamo convincerci di questo; non dobbiamo fare nessuno sforzo. Siamo noi i primi a stupirci di come siamo stati guardati, perché è una forma, è uno sguardo che dà forma allo sguardo, è lo sguardo di Gesù che ha dato e che dà forma allo sguardo con cui noi siamo stati guardati. Noi non siamo soltanto dei disgraziati, come a volte capita a tanti cristiani di pensare, perché non abbiamo avuto la fortuna di incontrare, come Giovanni e Andrea, Gesù; no, noi non siamo sfortunati: noi abbiamo incontrato Gesù, come Giovanni e Andrea, con una modalità diversa, attraverso una carne diversa, ma l’esperienza che abbiamo fatto attraverso questa carne diversa è la stessa di Giovanni e Andrea. Altrimenti, guardate ognuno di voi, nessuno di noi sarebbe qui questa sera. È stato proprio Lui che ci ha affascinato e continua ad affascinarci attraverso questa preferenza unica con cui ci abbraccia.

Esposito: Questo sguardo stupito di cui parlavi adesso è tanto più interessante, secondo me, quanto più è un giudizio su tutto, e ci fa capire di più che cosa è successo. Mi torna alla mente quella famosa frase di Eliot che don Giussani spesso ha ripreso: come è potuta accadere questa riduzione dello stupore a una serie di regole, a un moralismo? E incalzava Eliot: «È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?» (T.S. Eliot, I cori da «La Rocca», Bur, Milano 1994, p. 101). Io su di me sento ancora l’urgenza di queste domande, e non per un gusto di analisi, ma perché quando qualcosa appassiona, uno vuole starci sempre di fronte, e ogni volta si chiede come stiano le cose, proprio per la passione di aderire alla verità della vita. Secondo te come è potuto succedere?

Carrón: Don Giussani, rispondendo a questa domanda, nell’ultima intervista fatta, ci ha detto: «Tutti e due», è l’umanità che aveva abbandonato la Chiesa cercando, pensando illusoriamente di poter trovare da sé quello che solo la Chiesa aveva portato al mondo, e noi vediamo come è andata a finire; ma è la Chiesa, allo stesso tempo, che ha abbandonato l’umanità, e questo è quello che a noi interessa di più, perché noi siamo Chiesa e siamo stati scelti, ci è stata data questa grazia per tutti, perché questo è il metodo che Dio ha usato e usa in continuazione: chiamare alcuni per arrivare a tutti attraverso di loro. Perciò a me interessa molto questa domanda che è abbastanza collegata a quello che abbiamo detto. Perché la Chiesa ha abbandonato l’umanità? Perché noi tante volte abbandoniamo l’umanità di coloro che stanno accanto a noi nel lavoro, o come compagni di cammino della vita, perché li abbandoniamo? A me ha colpito quello che diceva don Giussani: «La Chiesa ha avuto vergogna di Cristo», e ho cercato di capire questo. La Chiesa e noi abbiamo vergogna di Cristo proprio perché se uno non fa l’esperienza che abbiamo detto all’inizio, di cui abbiamo parlato fino adesso, se Cristo non è un’esperienza reale, concreta, davanti alle urgenze della vita, ai problemi della vita, uno non riesce a dire la parola “Cristo”. Quante volte, per il fatto di convivere con delle persone, o per essere prete o perché ti vedono diverso dagli altri al lavoro, qualcuno ci affida delle preoccupazioni, dei problemi - pensiamo allo Tsunami, che tutti abbiamo vissuto insieme a tanti altri compagni -. Ma quanti, davanti a questi grossi problemi del vivere, riescono a dire la parola “Cristo”? Ci sembra astratta, ci sembra inadeguata al dramma che vive quella gente, ci sembra una cosa piccola davanti al dramma, e perciò non la diciamo. Non è che abbiamo vergogna di dire “Cristo” a parole: «Sì, io sono cristiano»; il problema è che davanti a certe circostanze della vita, se uno non ha sperimentato che Cristo vince nel reale, che Cristo è in grado di cambiare le circostanze, non ha il coraggio di dire la parola “Cristo”: si vergogna. E pian piano la gente, come ognuno di noi, se Cristo non serve, se non lo sperimenta nei problemi della vita, prima o poi incomincia a staccarsi da Cristo; se non serve per vivere, allora incominciamo a vivere senza di Lui. Noi, la Chiesa, incomincia a abbandonare l’umanità, e alla fine l’umanità abbandona la Chiesa. Perché se non serve, se non mi accompagna, se non è veramente utile per vivere il dramma, se non è qualcosa che introduce una novità, l’uomo dice: «Perché devo credere? Perché devo continuare ad attaccarmi? Neanche lo penso, neanche ci penso». Prima o poi si stacca, il distacco da Gesù incomincia a vincere; ma non come un volersi staccare: accade; accade che il distacco incomincia a vincere, cioè incomincia quel processo che finisce nel nichilismo. Distaccandosi, non si è in grado di vedere la vittoria di Cristo nel tempo e nello spazio. Invece la sua vittoria è proprio in quello che vi ha appassionato, nel momento che viviamo; per questo mi ribello ogni volta di più quando qualcuno mi vuol togliere il dramma del vivere, perché il dramma del vivere è quello che mi fa gridare di più, come il cieco Bartimeo, a Cristo, mi fa andare di più a Cristo, e perciò mi fa vedere, come il cieco, la Sua vittoria nel tempo. Senza che uno rifaccia in continuazione questa esperienza, senza che uno, ogni volta che capita questo, sfidi Cristo in modo da vedere la Sua vittoria nel tempo, incomincia la sua sconfitta, incomincia ad abbandonare Cristo perché non gli risponde. Nei giorni scorsi sono stato a Varigotti, dove don Giussani aveva trascorso qualche momento della vita alla fine degli anni Quaranta, e ho letto una lettera scritta di là a un amico: gli scriveva che le cose che il Signore ci dà, quelle dolorose, e ripeteva, quelle più dolorose, quelle più intensamente dolorose, sono quelle che ci danno l’occasione di andare da Gesù, e di vedere la Sua vittoria. Guardate come il Vangelo è pieno di tanti che andavano a cercare Gesù nel proprio dramma. E lì si svelava in continuazione chi era Gesù. Se vogliamo non abbandonare Gesù, che non vinca il distacco, e perciò il nichilismo, o tutto quello che accade è per noi un’occasione di un rapporto più vero con Gesù, per vedere la Sua vittoria, o prima o poi noi abbandoniamo Gesù, la Chiesa incomincia ad abbandonare Gesù, ad aver vergogna di Gesù; la Chiesa abbandona l’umanità e poi l’umanità abbandona la Chiesa, perché una Chiesa che non risponde al dramma dell’uomo è inutile.

Esposito: Ultima domanda. A noi interesserebbe molto sapere che cosa vuol dire per te, per la tua esperienza personale, appartenere a questo popolo nuovo che miracolosamente si forma, a questa nostra unità. La questione si pone per ciascuno di noi, per noi che siamo qui e per tutti gli altri nostri amici che sono collegati in diretta in altre tre sale (siamo più di millecinquecento). Per tutti, per l’ultimo arrivato come per il dottor Michele Emiliano, sindaco di Bari, che è qui di fronte a noi e che ringraziamo, o per il professor Giovanni Girone, rettore della nostra Università, o per il professor Renato Cervini, preside della Facoltà di Ingegneria al Politecnico. A che responsabilità - non astrattamente, ma seguendo questi accenti di verità che tu ci hai testimoniato -, a che responsabilità ci chiama l’incontro con il cristianesimo (penso soprattutto alla sfida che presenze come don Giussani, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ci rilanciano continuamente)? Qual è la nostra responsabilità personale nell’appartenenza a questo popolo?

Carrón: Il papa Benedetto XVI, quando era ancora il cardinal Ratzinger, ha trovato una modalità geniale per rispondere a questa domanda, quando ha celebrato il funerale di Giovanni Paolo II: mi ha colpito tantissimo come abbia trovato in una parola la modalità semplice per sintetizzare la vita di Giovanni Paolo II, grande personaggio: «Seguimi». Rispondendo in continuazione a questa richiesta di Gesù, in ogni momento della sua vita, Giovanni Paolo II è stato per noi quello che noi abbiamo visto. Qual è stata la sua responsabilità? Non fare grandi cose, perché la nostra responsabilità si gioca in questo dialogo misterioso tra ognuno di noi e Cristo. Tutta l’omelia dell’allora cardinale Ratzinger è stato descrivere la vita di Giovanni Paolo II, un gigante della fede del nostro tempo, come risposta a quella iniziativa di Gesù che in ogni momento della vita chiamava Giovanni Paolo II: «Seguimi, seguimi». Fin da quando, all’inizio, senza che nessuno lo conoscesse, tutto è cominciato quasi di nascosto, in questo dialogo misterioso; e tutta la vita è stato questo dialogo misterioso tra Cristo e Giovanni Paolo II. La nostra responsabilità, amici, è molto semplice: rispondere, rispondere a Gesù. Quando mi domandano della mia responsabilità adesso, una responsabilità che mi aveva affidato don Giussani, dico: «Non è cambiato niente: io devo rispondere adesso a Gesù come gli rispondevo prima, come cercavo di rispondergli prima. In ogni momento la modalità con cui Lui ti chiama chiede la tua libertà. Adesso che siamo qua in più di mille, non è diverso da quando ero a Madrid, quasi di nascosto; è lo stesso, lo stesso, amici! E oggi posso dire di no come potevo dire di no a Madrid, e oggi posso dire di sì come potevo dire di sì a Madrid. La nostra responsabilità è molto semplice: è dire di sì alla modalità con cui Cristo ci chiama. E questo sembra quasi niente, ma è tutto, perché in questo “sì” c’è tutto, perché abbiamo visto che cosa è successo in don Giussani, in Giovanni Paolo II: uno che dice di sì diventa testimonianza, davanti a tutti, della bellezza che Cristo è. Ed è in grado di destare l’umano, di farci vivere la vita con una intensità, con una vibrazione umana che noi non potevamo neanche pensare prima. Perciò la nostra responsabilità in questa appartenenza è semplice: noi abbiamo visto davanti ai nostri occhi, sentiamo questa preferenza che si è destata davanti a noi, e la nostra libertà è chiamata a rispondere. Tutta la nostra responsabilità è proprio nella risposta che noi diamo alla modalità con cui Lui ha destato questa preferenza davanti ai nostri occhi. E perciò è facile, come lo è una preferenza; così facile che a volte uno non se ne rende conto: gli sembra di non fare niente e invece lo fa, perché tanti possono essere stati colpiti e dire di no, invece accettare questa preferenza è la cosa più semplice e allo stesso tempo più feconda per noi e per tutti. Grazie.

Giovanni Girone: Mi sembra che questo applauso sia la testimonianza dell’affetto che ci lega a don Julián. Continua un colloquio, in una maniera più piena. La stragrande parte delle nostre università è legata a questo movimento, e io credo di interpretare il pensiero di questa grande parte ringraziando don Julián per questo colloquio bellissimo che ci ha voluto donare, per la guida che ci vorrà continuare a dare, per la presenza di Cl nelle nostre università. Credo che il Sindaco vorrà aggiungere qualche cosa, perché questa è una presenza non soltanto nelle università, ma anche nella nostra città. Ecco, come piccolo segno di attenzione volevo donare a don Julián il sigillo dell’Università di Bari.

Esposito: Era un fuori programma, davvero. Ringrazio molto il Magnifico Rettore professor Giovanni Girone, come pure ringrazio per la sua presenza il professor Cervini, preside della Facoltà di Ingegneria, che è il padrone di casa: grazie per l’ospitalità. Se la città di Bari vuole dire qualcosa…

Michele Emiliano: Io metto subito in pratica la chiamata autorevole alla quale faceva riferimento don Julián: rispondo subito sì, nel senso che sono veramente felice di essere qui. Sono presente come Michele Emiliano, devo essere sincero, e ci tenevo moltissimo a essere presente con questa qualità di persona: qualche volta perfino mi dimentico di essere il sindaco di una città che vive un momento bellissimo. E mi permetterà, don Julián, di non dire tante parole, ma di dirle soltanto che da stasera è ancora più bello, dopo averla ascoltata. Perché quel «seguimi», quel dire «sì» credo che sia una ricetta utile per tutti, in particolare per quelli che in questo momento hanno dei problemi particolarmente grossi, e che quindi in quel dire «sì» chiedono anche aiuto per rispondere alle tante cose che noi, in qualche modo, dobbiamo far camminare. E mi pare che la prima canzone che abbiamo sentito oggi [La strada; ndr] aveva a che fare con l’idea del camminare, dell’andare avanti. Credo che anche l’idea di questo cammino corrisponda poi ad ammettere con se stessi - e non è facile - di dover dire quel sì, perché altrimenti non si muove nulla.

Esposito: Come sempre, quando le cose non sono programmate, si capisce di più se sono vere, come in questo caso. Permettetemi di concludere l’incontro di questa sera ringraziando Julián, anche se è stato molto più esplicito ed eloquente il vostro applauso. Comunque, davvero grazie, davvero grazie per questa compagnia che ci fai nel cammino, e non soltanto per l’incontro di questa sera. Perché per un uomo avere un punto di riferimento nella vita, più o meno distante, più o meno vicino, è una possibilità di respirare. Ricordo a tutti che la sollecitazione di questa sera è un metodo, non è soltanto un richiamo episodico. Questo metodo nella nostra esperienza si chiama Scuola di comunità. E quindi l’invito è, per coloro che seguono questo metodo da quarant’anni come per coloro che dovessero essere qui per caso, per la prima volta, a tenere presente l’utilità di questo metodo di paragone della vita con la proposta.