Noi siamo degli ebrei

Per i cristiani è più certa che mai l'analogia fra la vicenda di Cristo e l'Olocausto. Da «la Repubblica», p. 13
Luigi Giussani

Pio XI, a chi gli chiese, mandatogli evidentemente da Mussolini, che anche la Chiesa di Roma favorisse le leggi razziali di Hitler rispose: «Noi siamo spiritualmente degli ebrei» (1938). Certo, occorre una lettura culturalmente ben provveduta per dire così. Comunque, il rapporto tra il popolo cristiano e la realtà ebraica, culturalmente o no, nell'oggi della storia è perfettamente indicato nell'espressione usata da Pio XI.
Ciò che mi ha indotto a intervenire, è l'avere saputo da la Repubblica del 21 dicembre l'orrendo fatto determinato in Germania da un rigurgito d'affermazione nazista: l'esplosione di una bomba nel cimitero ebraico di Berlino, che ha gravemente danneggiato la tomba di Heinz Galinski, una delle figure più rappresentative dell'ebraismo tedesco.
Questo episodio mi ha ricordato il momento in cui gli ebrei hanno levato un grido, facendolo intendere a tutto il mondo, attraverso il martirio dell'Olocausto, l'assurdo sacrificio sopportato per tutti. E per noi adesso la storia ebraica fino a Gesù sostiene una concezione dell'uomo, del suo destino, dei rapporti col mondo che il nostro popolo può sentire profeticamente analogica alla sua stessa storia. L'Olocausto è diventato una pedagogia per tutti i cristiani; come marchio doloroso e ingiusto la Shoah è proposta dalla più fervida cultura ebraica come argomento cardine anche per l'umanità, quale debba essere. Così per noi cristiani oggi è più certa che mai l'analogia della vicenda di Cristo con il senso dell'Olocausto.
Per noi la pedagogia divina attraverso il popolo ebraico tende a insegnarci, come supremo fattore del benessere sociale, la concezione del Dio unico biblico, creatore e Mistero, che nel tempo delinea un progetto per cui tutto il mondo dispiega una dinamica da cui scaturisce la sua ricerca di felicità e di compimento; Dio, l'unico, il totalmente Altro che è pur senso del tempo e Signore della persona, impegnativo nel giudicare i poteri e le vie dell'uomo; il Dio unico presente sulla terra attraverso il "Tempio" («Verrò a voi nel tempio»), non solo come simbolo del divino, ma come il luogo in cui Egli partecipa all'esistenza concreta dell'uomo, creando il suo popolo. E così il Tempio rimane il luogo supremo per tutti i tempi e gli spazi della storia umana. Per affermare Dio e questo Tempio (tutti gli uomini debbono!) viene eletto un popolo: quello che nasce da Abramo, per cui la persona viene creata per la salvezza del mondo con un compito identificabile con quello del popolo stesso.
Questo popolo a cui Dio dà corpo nella storia per dilatare la conoscenza del proprio Mistero in tutto il mondo e in tutti i tempi, «in tutte le nazioni», trova impegnata la parola sua nella visione del fine della storia in cui il popolo stesso si troverà nel giorno di Dio, nel quale si compiranno le promesse cui gli ebrei debbono corrispondere con la loro fedeltà di attesa. E' l'attesa di qualcosa che salvi l'uomo e l'umanità, cioè la liberi dal fatto significativamente primo della storia dell'uomo che prevede, per il peccato originale, una fatica della libertà davanti a Dio. E perciò dolore e "distruzione". Così la grandiosa letteratura profetica segna l'acme e la profondità possibile della coscienza dell'ebreo in cammino.
Il soggetto di quel "grande giorno" tanto atteso veniva identificato nel termine "servo di Jahve" o "Messia". La coscienza avveduta di un cristiano investita dalla tradizione non può non identificare il proprio esistere in questa storia. Che cosa ci può essere di diverso? Che per noi il Mistero è voluto intervenire nella tragedia dell'uomo dentro il cosmo, divenendo uomo. Gesù di Nazareth per noi è il compimento dell'attesa in cui tutto il popolo d'Israele è vissuto, unico nella storia del mondo. Ma la nostra non è presunzione, bensì uno stupefatto paragone, per cui a noi poveri uomini comuni il Mistero di quella persona si è comunicato, sì che guardando la storia come ha raggiunto noi in paragone con la storia degli ebrei, saremmo più felici di chiedere ai nostri fratelli ebrei di perdonarci la nostra certezza, mentre ad essi è riservato ancora di portare pondus diei et aestus (cioè tutto il peso della storia) nella vita. Ma la fatica della fedeltà nell'attesa di Dio si realizza anche come croce nella vita dei credenti.

Luigi Giussani (la Repubblica, 2 gennaio 1999)