Quella baldanza ingenua che viene dalla fede

Comunione e Liberazione compie 40 anni: intervista al suo fondatore Luigi Giussani. «Il Giornale del Popolo», pp. 2-3
Michele Fazioli

Il movimento ecclesiale «Comunione e Liberazione» compie quarant'anni, come è stato ampiamente ricordato dalla stampa nelle scorse settimane. Fu infatti quarant'anni fa che un sacerdote, insegnante di religione, don Luigi Giussani, salendo un giorno i tre scalini d'entrata del Liceo Berchet di Milano e incontrando un gruppetto di studenti, chiese conto del loro essere cristiani e al tempo stesso così poco identificabili. Da lì, da quel gruppetto sparuto di studenti, partì un movimento che diventò Gioventù Studentesca e poi Comunione e Liberazione e che oggi conta centomila aderenti in 42 paesi del mondo ed ha presenze missionarie in Brasile, in Africa, in Siberia. Comunione e Liberazione è uno dei movimenti ecclesiali più valorizzati dall'attuale Pontefice ed è particolarmente vitale nell'educazione alla fede. Nel quarantennale e in occasione del Natale, abbiamo intervistato il fondatore, monsignor Luigi Giussani.

Sfrondiamo il Natale di tutti i contorni che non c'entrano e veniamo alla sostanza del Natale cristiano, che è memoria e al tempo stesso presenza di un Avvenimento: Dio che si è fatto uomo ed ha abitato in mezzo a noi. Ma dopo duemila anni questo avvenimento e questa presenza sono ancora visibili e incontrabili? E come?
San Giovanni nella sua prima lettera dice testualmente così: «Quello che noi abbiamo visto, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo toccato, è il Verbo della Vita». La verità sul mondo e sull'esistenza è diventata carne, tanto è vero che è stata vista e toccata. Ma cosa sarebbe ora se non fosse, proprio oggi, visibile, udibile e toccabile? Dice Kierkegaard: «l'unico rapporto che si può creare con la grandezza è la contemporaneità». Questo significa che un grande è solo presente. Se non è presente nel presente, non esiste. E aggiunge anche che non sarà un morto a cambiare le persone. Il ricordo di un morto commuoverà le persone ma non le muoverà, non le cambierà. È da questo che si capisce come oggi, secondo la fede cristiana, si può toccare, vedere, udire Cristo, costatando in un incontro il cambiamento che una Fede vissuta opera in una persona.

Quindi la Fede deve essere incontrata come una presenza viva; poi, allora, cambia la persona. Se non la cambia, non è fede?
Si incontra appunto in quanto cambia. Altrimenti non c'è nemmeno lo spunto per la fede.

Siamo qui, in questo Natale, duemila anni dopo la nascita di Gesù in Palestina. Ma la certezza di quell'Avvenimento, la Fede, sono ancora presenti universalmente? Al mondo ci sono oggi sette miliardi di uomini e un miliardo di essi si dicono cristiani. Di questo miliardo il dieci per cento è praticante e di questo dieci per cento forse soltanto una parte ha veramente piena coscienza dell'avvenimento cristiano. Dopo duemila anni questo non contraddice la pretesa di universalità del fatto cristiano?
Uno dei primi missionari che sono andati in Giappone, fra i primi Gesuiti compagni di Francesco Saverio, diceva già allora: «non domandiamoci se siamo pochi. Diciamo piuttosto che siamo». È una grande sfida come richiamo al cuore dell'uomo, alla mente dell'uomo. Il fatto cristiano era identificabile in una persona duemila anni fa: se duemila anni dopo ancora interessa me così che non abbia tregua per il mio cuore e la mia mente la sua ricerca, la sua profonda e attuale ricerca; se mi lascia colmo di speranza il fatto che come direttiva e prospettiva del futuro, partendo da un presente sperimentato, io possa affrontare i problemi con una chiarezza di criterio, di valutazione; se io posso ancora fare così, allora questo è un miracolo. Il miracolo per la Chiesa è un fatto (un fatto, perciò un avvenimento) che, inesorabilmente, richiama a Dio, a Cristo. Per esempio, sentire parlare le suore di Madre Teresa di Calcutta. Una di esse trova in una cloaca a cielo aperto un poveraccio morente, immerso nel guano: le suore se lo prendono, se lo portano a casa, lo lavano, lo curano. Dopo, quando sta per morire, lui dice questa frase: «Sono vissuto come un disgraziato, muoio come un principe». Ecco, è una cosa umana, ma è una cosa umana che al fondo diventa reperibile soltanto dentro certe circostanze determinate da quel fatto cristiano.

Il mondo di oggi, la cultura di oggi, sostengono, forse non sempre ma certamente spesso, che la Fede contraddice la Ragione. Lei sostiene invece il contrario e cioè che la Fede valorizza al massimo la Ragione e che comunque la Fede è ragionevole.
Se la fede è Cristo che si propone all'uomo come sua Salvezza, è un potenziamento della ragione che deve intervenire tutta intera: non una censura, oppure un silenziatore su qualche aspetto, o una mobilitazione dei dati umani secondo un tornaconto preconcetto. Lei mi ricorda un fatto che mi è capitato, perché tutte le cose che ho imparato non le ho imparate studiando teologia o insegnando teologia al seminario e poi all'università, ma le ho imparate dai ragazzi, dovendo rispondere alle loro domande.
La prima classe in cui sono entrato 40 anni fa dopo aver varcato quei primi tre gradini del liceo Berchet, era una prima E. Sto per salire alla cattedra e vedo in fondo, vicino al muro, uno che alza la mano. Toh, mi dico, c'è un'obiezione prima ancora che abbia a incominciare. E gli faccio: «dica». E lui: «Professore, è inutile che lei venga qui a parlarci di religione. Per parlare bisogna ragionare. Lei applicherebbe la Ragione alla Fede. Queste due parole non stanno insieme, perché sono come due rette sghembe. Quello che è vero per la Fede può essere sbagliato per la Ragione, e viceversa. Non c'entrano. Non possiamo parlare della Fede perché la Fede è un sentimento che si ha o non si ha».
Dentro di me ho subito pensato: questo è il primo risultato di qualche presenza di un professore di filosofia. Mi è venuto di domandare: «scusi, cos'è secondo lei la Fede?». Silenzio. Ho domandato allora a tutta la classe: «che cosa è secondo voi la Fede?». Silenzio, i sorrisi iniziali sono scomparsi. Allora ho domandato: «che cosa è secondo voi la ragione?». Silenzio anche di fronte a questa domanda. Dopo aver domandato questo sono partito con la lezione e ho discusso durante tutta l'ora. Alla fine faccio per uscire e c'è il professore di filosofia che sta per entrare. Allora gli dico: «professore, questi ragazzi giocano un po' slealmente, usano parole di cui non sanno il significato». E gli ho spiegato la situazione. E lui dice: «ma no, è giusto, anche la Chiesa lo sostiene». Io rispondo: «Ma come, ho studiato teologia e non ho mai sentito una cosa simile!». E lui mi dice: «Il Concilio Arausicano II...». Io replico subito: «Lei fa anche storia e perciò dovrebbe insegnare lei a me che le definizioni si devono intendere secondo il contesto storico in cui sono pronunciate. La Chiesa voleva dire che la Fede può dire delle verità che la ragione non può dimostrare: che esiste il Mistero lo dimostra la ragione, ma che il Mistero sia Padre, Figlio e Spirito Santo, su questo la Ragione tace». Intanto tutta la classe era uscita fuori e i ragazzi erano tutti tesi attorno a noi, ma io dovevo andare all'altra ora di scuola. Mi premeva che i ragazzi capissero il problema che mi accorava. Ho domandato al professore: «senta, guardi, continueremo il discorso un'altra volta; per adesso mi risponda: io le giuro che c'è l'America, senza averla vista, senza ipotizzare di poterla vedere. Allo stato attuale delle cose io dico che l'America c'è, con la stessa certezza evidente come quella con cui vedo che lei è presente a me. Come vedo che lei è presente, io dico che l'America c'è, senza averla mai vista e senza neanche mettere come condizione che io la possa mai vedere. Il problema è che l'esistenza dell'America è testimoniata da milioni di persone. Le domando ora se questa mia persuasione è ragionevole oppure no». Dopo un istante di suspence, il professore volle essere coerente e disse: «No». E allora io dissi: «Grazie. Il vero problema fra me e voi, il primo vero problema, non è che voi non crediate e che io creda. Non è la Fede. È un concetto di Ragione che ci divide. La Fede mi fa attivare un concetto di Ragione più completo di quanto voi ne abbiate, perché avete sentito: per me dire che l'America c'è è ragionevolissimo».

Quindi la Fede vuol dire, se ho ben capito, fidarsi di uno che testimonia. Perché qualcuno potrebbe dire: io non c'ero duemila anni fa in Palestina, io non ho potuto vedere e toccare Gesù. Eppure la Fede continua ancora, qui e ora.
Come continua la Fede è anche facilmente comprensibile. Penso ai due che per primi videro e incontrarono Gesù, come narra san Giovanni quando parla del primo incontro suo e di Andrea. Perché il cristianesimo è un avvenimento che ha sempre la fisionomia di un incontro. Giovanni e Andrea l'hanno seguito per curiosità mentre si allontanava da Giovanni Battista e Gesù, sentendosi pedinato, si voltò e disse: «che cosa volete?». E loro dissero: «dove stai di casa?». E lui rispose: «venite a vedere...». E loro andarono e rimasero con lui tutto il giorno. Non si descrive nulla nei dettagli: Giovanni, lo scrittore che scrive queste storie da vecchio, appunta i fatti senza descriverli. Sono stati là a sentirlo, anzi a guardarlo parlare anche se non capivano tutto quello che diceva. Ma parlava in un modo tale che più tardi diranno: «nessuno ha mai parlato come quest'uomo». Stettero ammirati a sentirlo parlare e nacque in quel momento la domanda con cui il problema è entrato nel mondo e, con buona pace di tutti, è diventato il problema perenne della storia: «ma chi è mai costui? Come fa a parlare così?». E sentivano intanto che qualcosa cominciava a cambiare in loro. È tutto da ricostruire quel punto del «notes» di Giovanni, in cui il racconto è sospeso e tutto è dato per supposto. Possiamo immaginare il loro ritorno a casa, in silenzio, investiti fino al midollo delle ossa. Andrea sarà entrato in casa e la moglie, sospeso il rimprovero per il ritardo, gli avrà detto: «sei cambiato, stasera, sei diverso. Cosa ti è successo?». E lui, magari scoppiando dall'emozione, l'avrà abbracciata in un modo diverso dalle altre volte. Ma la stessa domanda risuonerà anche più tardi. Qualche tempo dopo, andando in barca con il mare in tempesta, i discepoli, spaventati, svegliarono Gesù che, stanco, dormiva e gli dissero: «salvaci, che andiamo a fondo». Lui guardò il mare e la tempesta si calmò. E loro, presi da spavento, loro che lo conoscevano, che stavano con lui, conoscevano sua madre e i suoi parenti, dissero: «ma chi è mai costui?». Quello che lui diceva, quello che lui faceva era così sproporzionato a loro che quella domanda esprimeva il loro sgomento: «ma chi è mai costui?». Più tardi la stessa frase la espressero i suoi avversari, quando, a Gerusalemme, prima di prenderlo per ammazzarlo gli chiesero letteralmente: «fino a quando ci tieni con il fiato sospeso? Da che parte vieni? Chi sei?». E avevano l'anagrafe, si era iscritto a Betlemme, lo conoscevano talmente bene che lo odiavano e lo combattevano. Ma anche in loro quell'interrogativo nasceva come sproporzione sperimentabile fra la loro misura e quello che lui diceva e faceva. Questo sollevava in loro rabbia, mentre nei discepoli aveva generato la scoperta di una fiducia senza fine. Per tornare a quel primo giorno, a quel primo incontro di Giovanni e di Andrea, loro sono andati via la sera con questa convinzione: «se non credo a quest'uomo non credo neanche più ai miei occhi». C'era una tale evidenza di necessità e di fiducia, una tale evidenza di possibilità di abbandono alla schiettezza del suo dire, che quello che sentirono da lui lo riportarono. Tanto è vero che Andrea incontra il fratello Simone e subito gli dice: «Abbiamo trovato il Messia». E lo portò da Gesù. E a Simone successe la stessa cosa. E Simone lo disse agli amici. E gli amici diventano un gruppetto che si lega in forza di quella conoscenza. Parlano, usano le parole che hanno sentito usare da Lui, le dicono agli amici, alle mogli, ai figli e loro ad altri amici ancora. Così si supera il primo secolo e come un fiume l'incontro con questo personaggio passa ad altri, finché è arrivato a mia madre. Questo fiume, questa testimonianza è arrivata a mia madre e mia madre l'ha detta a me e io ho capito.

Dunque lei dice che tutto avviene per un primo incontro che poi continua in una catena ininterrotta ma è sempre lo stesso incontro che si fonda nella fiducia in chi testimonia.
Si fonda sulla certezza che chi testimonia non inganna.

So che lei si è arrabbiato di fronte al ragionamento del giornalista Eugenio Scalfari, ragionamento che si focalizza in una frase: «il nostro effimero è la nostra eternità. La nostra morte è insignificante. Il nostro cuore è una pompa: l'organo più necessario e più sciocco». E lei ha reagito.
E chi non reagirebbe? Come si può permettere a qualcuno di distruggere così il significato che ogni uomo percepisce e vive, di cui egli gode e per cui egli piange e che trova in se stesso? Un gruppo di ragazzi di Bologna ha risposto con un volantino al discorso inaugurale dell'Anno Accademico pronunciato da Umberto Eco, secondo il quale la storia si è mossa solo perché qualcuno voleva giocare.
A sentire lui, dunque, tutto è accaduto per hobby. Allora, si sono detti i ragazzi di Bologna, se tutto è un giro di giostra, perché noi studenti facciamo l'Università, abbiamo bisogno di lavorare, sposarci, fare soldi, figli? Perché perdere degli anni dentro questo box di giochi falsi? Gli studenti hanno detto: noi abbiamo sete di verità, abbiamo sete di giustizia, sete di amore, vogliamo fare famiglia, vogliamo lavorare, vogliamo costruire; noi crediamo nella positività dell'evoluzione che la mano dell'uomo - quindi la mente e il cuore dell'uomo - opera nella storia.
Non sentiamo affatto come un gioco il rinascere e l'alzarsi tutte le mattine per riprendere il lavoro di ogni giorno. Ecco, per questo la frase di Scalfari è una frase per me delittuosa: perché tenta di distruggere ciò che nell'uomo, come esperienza, si impone in modo ben diverso da quello che lui dice. La sete di verità, la sete di felicità non per nulla sono trattate come problemi capitali, per la sanità del vivere, dalla Chiesa più che da tutti gli altri.

Lei parla spesso di nichilismo, quasi che, rifiutando l'avvenimento cristiano, l'uomo a poco a poco finisca per distruggere se stesso.
Non sono solo io a dire questo. Si potrebbero ipotizzare altri atteggiamenti che affrontino la situazione umana nella realtà con una ipotesi positiva. I trecento personaggi, capi di religioni diverse, che con il Cardinal Martini fecero recentemente un pellegrinaggio a Milano, costituivano ognuno il tentativo di interpretare il rapporto che intercorre tra l'effimero punto umano e il significato stabile ed eterno di esso. Victor Hugo in una bellissima poesia del suo libro «Les contemplations» immagina un uomo, di sera, seduto sulla spiaggia, che guarda la stella più prossima e si immagina quante migliaia e migliaia di archi debba esigere un ponte che unisse quel suo stare mortificato da una incognita ultima e questo ultimo punto in cui l'incognita sarebbe risolta, sarebbe chiarita. Tutti gli uomini, in tutti i tempi, hanno in qualche modo cercato (variamente, usando la loro cultura o usando la loro ignoranza o l'impeto del cuore); ma tutti ad un certo punto, di fronte all'esito ultimo della loro ricerca, dopo la distrazione con cui uno giustamente è attirato dai passi dello sforzo che fa, si trovano davanti a quello che dice benissimo in una sua poesia lo scrittore Pär Lagerkvist: «Nessuno risponde alla voce che risuona nelle tenebre». C'è come un'attrattiva nella realtà del mondo per il cuore dell'uomo, ma nessuno risponde, non c'è alcuna voce che possa rispondere a questa attesa del cuore. Ma perché la voce allora grida? Perché il cuore grida, il cuore esige, il cuore domanda? Ultimamente questa è una sicurezza, è una certezza che all'uomo può venire soltanto da una presenza più grande di sé che lo accompagni nel cammino della vita, che lo conforti, che lo illumini quando si sente smarrito e solo. Senza la certezza di una attuale presenza del Divino è troppo difficile che l'uomo possa dare lungo la strada una risposta ai suoi perché: oppure la dà come Scalfari, ma questo è proprio l'inizio della distruzione, è la tragedia e non più il dramma. Il dramma è una vita tra un IO e un TU, fra un NOI e un VOI che si propongono permanentemente l'un all'altro. La tragedia è la distruzione dell'IO e del TU, un modo distruttivo di impostare lo sguardo alle cose, lo sguardo del proprio rapporto.

Lei recentemente ha usato un'analogia, un'immagine molto bella, lirica, per significare che il cristianesimo è qualcosa che ci arriva incontro dal profondo dell'orizzonte apparentemente vuoto e che tuttavia, cogliendo la speranza e l'attesa dell'uomo, fa sorgere qualcuno. Alla fine dunque, monsignor Giussani, l'orizzonte non è vuoto.
Come questo è vero! Significa ri-identificare l'avvenimento cristiano. Usavo quell'immagine commentando positivamente quella bellissima canzone spagnola che si chiama «La Sivigliana» e che sentii per la prima volta da tutto il popolo riunito che salutava il Papa che partiva da Siviglia: «Qualcosa muore nell'anima quando se ne va l'amico, la barca si va facendo piccola quando s'allontana sul mare e quando si va perdendo e grande è la solitudine. Questo vuoto che lascia l'amico che se ne va è come un pozzo senza fondo che non si può riempire». La canzone parla di alcuni che portano l'amico per la partenza sul mare; l'amico sale sulla barca, il «barquiño» si allontana, si allontana, si fa sempre più piccolo finché la barca arriva nell'orizzonte estremo che la beve: e non c'è più nulla. Non c'è più nulla eccetto che la memoria e il dolore di un ricordo. Il cristiano invece è un uomo appoggiato alla sbarra del porto, che è là e guarda il mare nel quale non c'è niente, salvo quell'ultimo filo che è l'orizzonte. Ma mentre per l'uomo solito quel filo d'orizzonte è il punto dove tutto annega, scompare, per il cristiano quella linea d'orizzonte è come l'enigma, il mistero da cui deve effluire, deve fluire davanti a lui, deve arrivare a lui qualcosa. E, infatti, a un certo momento appare un punto sulla linea dell'orizzonte. Questo «barquiño», che è un punto, diventa sempre più grande, sempre più grande finché si vede un uomo, il barcaiolo, seduto dentro. La barca si avvicina alla riva, attracca, e l'uomo che stava aspettando abbraccia l'uomo che arriva. Il cristianesimo nasce così, come l'uomo che aspetta, che abbraccia l'uomo che arriva.

Dunque, la perdita dolorosa dell'amico sul filo dell'orizzonte della canzone spagnola viene totalmente capovolta e diventa attesa e abbraccio di colui che arriva.
Infatti, se Dio diventa uomo, l'ipotesi stessa decide della sua verità perché è inconcepibile, impensabile, inimmaginabile per l'uomo. Non esiste nessuna affermazione che l'uomo possa inventare più grande di questa: Dio si fa uomo. È solo questo che può fare capovolgere la situazione per cui sul mare sterminato, sull'orizzonte acerbo e senza vita nasce qualche cosa che ingigantendo nel tempo raggiunge l'uomo in un modo così esauriente, così esauriente sulle sue attese, che l'uomo è compiuto, si sente protagonista del tempo e dello spazio. Il cristianesimo genera un nuovo protagonismo nella storia.

Ma se oggi questo avvenimento cristiano cui lei ha accennato sin dall'inizio (e che è così ben figurato nella sua immagine dell'orizzonte) non è sempre compiutamente percepito, la Chiesa non ha una qualche responsabilità?
Senza dubbio; in quanto spesso la Chiesa non ha suggerito la modalità coerente con cui doveva essere presentata come ideale di educazione del popolo. La Chiesa nasce come una presenza continua dell'avvenimento di Cristo e quindi deve nascere sempre come è nato l'avvenimento di Cristo: un incontro che una persona fa con un'altra persona, un ambito umano in cui la propria soggettività è tutta investita dallo stupore di qualcosa di nuovo, di più giusto, di più bello, di più buono, di più paziente, di più conveniente (nel senso quasi commerciale del termine: ma anche Gesù ha usato questa parola «Conviene a voi fare quello che vi dico»). La Chiesa spesso ha offuscato la forza di questo incontro permettendo che si riducesse la sua natura e la sua struttura alla teologia, alla costruzione intellettuale, che tra l'altro ha l'inconveniente di essere diversa per ogni teologo e quindi nella misura in cui questi teologi acquistano fama, essi confondono le idee del popolo invece che chiarire il cammino da prendere. Quello che non è giusto tentativo di ricerca per migliorare la conoscenza del dogma, da parte dei teologi, diventa invece confusa nebbia per coloro che li seguono, sentendosi contesi tra opposte o comunque diverse interpretazioni di Cristo. Infatti la cosa più grande che forse Cristo ha fatto per l'educazione dell'umanità è quella di stabilire un'autorità, quella del Papa, autorità oggettiva, non interpretabile da altri, neanche dai teologi, non creatrice di leggi, ma mediatrice agli uomini del suo messaggio divino. E questa autorità infallibile non fu stabilita perché fosse un uomo eccezionale il Papa che vien messo a capo del gregge, ma perché Dio è così potente da poter reggere infallibilmente il modo con cui uno detta i programmi giusti al cammino dell'uomo.
L'altra tentazione è quella della riduzione moralistica, cioè della lettura dell'avvenimento cristiano a riflessione e tentativo morale.

Questo l'aveva detto bene Giovanni Paolo I: «Il guaio del cristianesimo di oggi è di aver sostituito con delle regole lo stupore dell'avvenimento cristiano».
Dunque la morale prima della fede, quando invece dovrebbe essere vero il contrario.

Esattamente. Ma mentre il primo difetto (quello intellettualistico) è più immediatamente tentazione di ogni singolo uomo, secondo la sua genialità, questo secondo difetto è favorito dal potere, dal potere dello Stato quando lo Stato sia un potere e non un servizio, di qualsiasi colore esso sia. E questo succede quando si vuol governare anche l'anima dell'uomo, del proprio popolo. Allora si sottolineano certi valori, resi ovvii dalla cultura del tempo e determinanti la figura dell'uomo, più ancora che del cittadino, e dunque importanti, censurandone altri e giudicando poi gli uomini secondo questa sottolineatura parziale. D'altro canto non è che la Chiesa non sostenga le leggi morali e il decalogo stesso di Dio già noto dall'Antico Testamento. Ma il problema è che la sua natura, principalmente, si è identificata e codificata come un insieme di leggi, questo dà luogo a tanti equivoci, specialmente quando la società opera una pressione dispotica sulla cultura che forma il clima delle scuole, delle università, dei giornali e dei massmedia in genere. Invece la morale della Chiesa si esprime sì in leggi alle quali la vita deve adeguarsi, ma queste leggi nascono dallo stupore e dall'amore che l'incontro originante la Fede produce. Chiunque ha questa speranza, diceva san Giovanni, la speranza cioè che gli nasce vedendo Cristo come lo hanno visto Giovanni e Andrea, si purifica come Egli è puro. È molto più uno sguardo imitativo, è molto più uno sguardo desideroso di seguire la perfezione intravista nello stupore originale, che non l'analisi della natura e del comportamento umano per stabilire quale sia il meglio da fare.

Abbiamo detto, monsignor Giussani, che il movimento da lei fondato, Comunione e Liberazione, partito 40 anni fa da quel piccolo gruppo di studenti del Liceo Berchet di Milano, ha avuto una affiliazione enorme che coinvolge oggi centomila persone in tutto il mondo. A questa presenza fervorosa è stata mossa e si muove spesso una critica: quella di essere un po' elitaria, un po' ghetto rassicurante e soprattutto un po' integralista.
Lei che cosa risponde?

Se per integralismo s'intende una ricerca della verità intransigente sull'obiettività del metodo e anche dolorosamente coerente su quello che diventa evidente nella ricerca, allora sono ben contento di essere chiamato integralista. Ma integralismo dovrebbe essere: «quello che penso io devi pensare anche tu», una qualsiasi formale imposizione agli altri, una richiesta agli altri che ammettano la posizione mia come unica, un togliere agli altri la libertà della ricerca e la responsabilità della conclusione. Ora, questo è esattamente il contrario del nostro atteggiamento.

Che cos'è invece quella «baldanza ingenua» con cui lei definisce il suo movimento nel quarantennale della nascita?
Questo chiarisce che non siamo integralisti. La «baldanza» deriva dalla natura finale dell'avvenimento, dalla certezza che l'incontro fatto è l'incontro con la Verità, con la Verità della Terra Incognita, come scrivevano i geografi antichi attorno alla terra nota: cioè del Mistero. Il cristianesimo è l'incontro con il Mistero dentro un incontro umano.

E l'ingenuità?
L'ingenuità è la semplicità con cui si vuole essere coerenti con questo. La baldanza poggia sulla certezza. L'ingenuità è un atto di umiltà e di amore.

Lei ha parlato della concatenazione degli incontri che hanno portato da quell'incontro di Giovanni e Andrea con Gesù all'incontro dentro una compagnia di oggi. Ma come è vivibile concretamente, come è toccabile con mano questo incontro che rivive e vive?
Voglio rispondere citando una lettera che mi ha mandato Andrea, un giovane malato di AIDS, due giorni prima che morisse. Ne leggo un brano: «Le scrivo solamente per dirle grazie; grazie del fatto di avere dato un senso a questa mia arida vita. La mia vita oramai appiattita e resa sterile... ha un sussulto di senso e significato che spazza via i pensieri cattivi e i dolori, anzi li abbraccia, li rende veri, rendendo il mio corpo larvoso e putrido segno della Sua presenza. Grazie don Giussani, grazie perché mi ha comunicato la sua Fede, o, come lei lo chiama, questo Avvenimento. Adesso mi sento in pace, libero e in pace. Quando Ziba (un amico) recitava l'Angelus davanti a me che gli bestemmiavo in faccia, lo odiavo e gli dicevo che è un codardo, perché l'unica cosa che sapeva fare era dire quelle stupide preghiere davanti a me. Ora, quando balbettando tento di dirlo con lui, capisco che il codardo ero io, perché non vedevo neppure a un palmo dal naso la verità che mi stava di fronte. Grazie, perché nelle lacrime posso dire che morire così ha un senso, non perché sia più bello - ho una grande paura di morire -, ma perché ora so che c'è qualcuno che mi vuole bene e anch'io forse mi posso salvare e posso anch'io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato».
Proprio nello stesso tempo un'altra lettera mi perviene, da parte di una madre di famiglia, moglie di un professore universitario, sulla soglia del declino finale anche qui dovuto all'impero di un male rabbrividente, un cancro. Dalla vertiginosa situazione umana in cui si trova, la novità impressionante del radicale cambiamento è segnata da queste parole: «Ringrazio te e il movimento perché mi avete fatto conoscere il volto buono del Mistero». E il cuore di chi la sente - o la legge - vive l'ininterrotto ultimo silenzio dello stupore.
Ecco: la copiosità, la grandezza, l'ammirabile riuscita dei cambiamenti provocati con l'incontro della nostra compagnia come l'Avvenimento riofferto, lo stesso clima della nostra compagnia cui sensibilmente si riconduce il moltiplicarsi di questi cambiamenti - tutto ciò dà alla intuizione della Verità una sicurezza che fa affrontare in modo diverso qualsiasi cosa della vita. Anche la morte. La morte o più tranquillamente la vita quotidiana. I genitori mi scrivono a centinaia e centinaia, lettere in cui mi chiedono «cosa ha fatto, cosa avete fatto a mio figlio? Ci tratta bene, ora. È cambiato».

Grazie don Giussani, per questa intervista destinata alla Svizzera italiana. E buon anno!
Auguro anch'io buon anno a tutti gli amici svizzeri. E vorrei ricordare loro il caso di un cambiamento (perché si può dire così) che li interessa, che interessa tutti uno ad uno: è quello del vostro Vescovo. Da quando la malattia mortale (non immediatamente mortale, ma per natura sua mortale) lo ha aggredito, lui è molto cambiato. Quando l'ho visto per la prima volta dopo l'insorgere della malattia mi è venuto incontro e mi ha detto: «Il tempo si fa breve». Lui è così mutato, nella sua dedizione, nel suo sacrificio, nella sua accettazione, nella semplicità della Fede, lui così grande teologo, che a me che sono estraneo pare che nella sua Diocesi sia avvenuto come un miracolo: un cambiamento visibile, oggettivo, in tutta la sua Diocesi. Preghiamo per lui.

(Intervista di Michele Fazioli, in collaborazione con la RTSI)