Marco Simoncelli.

Il «Sic», uno come noi

Trentacinque ragazzi si trovano per una pizza. Si parla della morte di Simoncelli. «Uno di noi», che ha inseguito la sua passione su una moto. E il vuoto lasciato provoca fino a chiedersi cosa sia la vita, fino a non dare più nulla per scontato

Ieri abbiamo passato un serata con trentacinque ragazzini della nostra parrocchia con cui coltiviamo una bella amicizia nata nel percorso di preparazione alla Cresima. Ci vediamo ogni quindici giorni la domenica e facciamo un po’ di giochi insieme, per poi trovarci a cena davanti a una pizza a raccontare cosa succede nella vita di tutti i giorni. Ieri ha dominato il pensiero di Marco Simoncelli, scomparso da un istante all’altro mentre faceva il suo lavoro, il motociclista al gran premio. Per tutti era fondamentalmente “uno di noi”, che ce l’aveva fatta, realizzandosi nella sua passione. Tra i ragazzi questo fatto riecheggiava a vari livelli, in alcuni dominava il dispiacere per la brusca interruzione del “sogno” di questo ragazzo di ventiquattro anni, per altri la morte di Simoncelli era una sorta di monito ad esorcizzare i rischi della vita, che - è evidente a tutti- sono imprevedibili ed incalcolabili. Noi più grandi abbiamo posto l’accento sul fatto che il dolore di una morte così è una grossa provocazione a chiedersi cosa sia realmente la vita, quale sia il suo valore, dove vadano a finire tutti i desideri veri e grandi che abbiamo. Solo nell’abbraccio del Mistero presente qui e ora tra noi possiamo guardare queste cose senza dar nulla per scontato. Alla fine dell’incontro un ragazzino ha rilanciato ad alcuni di noi una provocazione: «È morto facendo quello che voleva, vivendo fino in fondo la sua passione, questo è quello che conta». Ma la passione non è forse un segno del fatto che vogliamo essere felici, pienamente.
Luigi, Pesaro