Giovanni Bizzozero.

«Così questa morte mi sta facendo crescere»

Marta ha saputo la notizia dell'incidente di Giovanni Bizzozero la notte stessa: «Mi continuavo a chiedere cosa volesse dire». Poi, il giorno dopo, in classe «qualcosa mi ha scosso». E tutto ha preso un altro valore...

Nella notte tra giovedì e venerdì è morto un mio amico, Giovanni. Io e la mia famiglia l'abbiamo saputo subito e poi Giacomo, suo fratello, è venuto a casa nostra fino alla mattina. Da quando ho ricevuto la notizia non ho potuto più dormire e mi continuavo a chiedere cosa volesse dire che Giovanni era morto, non riuscivo a capire. Non avendo mai fatto esperienza della morte non riuscivo neanche a rendermene conto. Giovanni era morto. Per tutta la notte, restando sveglia, mi veniva continuamente in mente Marco Simoncelli, soprattutto la predica del Vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi. Alla possibile obiezione di chiedersi dove fosse Dio nel momento in cui Simoncelli è stato investito dai suoi amici, morendo in modo tragico, ha risposto che era lì, accanto a lui, per salvarlo dal baratro del nulla.
Avevo solo in mente questo. Uno muore, e poi? Quello che io credo, che noi cristiani crediamo, è che uno, dopo aver chiuso gli occhi, quando li riapre vede Dio. Si incontra Cristo quando si muore. Alla mattina, però, tutti abbiamo dovuto fare i conti con la nostra routine, che ormai non poteva più essere uguale a prima. E così, anche solo la preghiera del mattino che siamo soliti dire in famiglia prima di andare a scuola, di solito in modo o svogliato o di fretta perché qualcuno è in ritardo, è stata diversa. E per la prima volta, mentre pronunciavo «grazie per avermi conservato questa notte», ho preso coscienza di ciò che stavo dicendo. Ero viva. Non era e non è scontato. Giovanni non era vivo quella mattina. In macchina, andando a scuola, forse anche perché è proprio ciò che sto leggendo a Scuola di comunità, mi sono resa conto che non mi ero data da sola una serie di cose: il mio amico che mi portava a scuola, i miei amici, il fatto che ero viva, che c’ero. Tutte queste cose sono state date a me, pensate per me.
Durante le prime ore di lezione ero comunque frastornata e triste. Poi, ad un tratto, qualcosa mi ha scosso e si è imposta in me una volontà di non sprecare ciò che avevo, ciò che mi era donato in quel momento. E così, “risvegliandomi” in classe, anche solo la lezione di Scienze della terra, che avevo lì davanti a me, ha preso un altro valore. Inevitabilmente, riconoscendo una non necessaria esistenza mia e delle cose che avevo di fronte, sorgevano in me il desiderio e l’urgenza di darmi ragione delle mie azioni. Non volevo sprecare il mio tempo, e volevo che questo prendesse una ragione: dovevano avere valore le cose che facevo, perché avendo preso coscienza, forse anche solo per un istante, che non era scontato che fossi viva e che tutto mi fosse donato, ero come carica di una forza nuova e potente che mi ha spronato a non farmi scorrere via tutto.
Quel giorno non ho fatto grandi cose. Ho avuto cinque ore di scuola come sempre, ho pranzato e studiato per il compitino di greco del giorno dopo, sono andata ad uno degli incontri sulla mostra dei 150 anni di sussidiarietà e sono tornata a casa con i mezzi. Non c’era nulla di speciale di per sé in ciò che ho fatto, se non che per la prima volta nella mia vita ho avuto una ragione, un motivo per ogni cosa che ho fatto. Se è vero che la morte di Giovanni non è la fine della sua vita, non è solo una tragedia, ci deve essere un senso in ciò che è accaduto. Io non so quale sia, ma posso affermare, per quanto ho visto dopo la sua scomparsa, che la realtà anche rispetto alla morte è comunque positiva perché ci è data. È pensata e data a me e, in quanto tale, rimanda ad un disegno sconosciuto che c’è su di me. Anche solo la coscienza di questo provoca, ha provocato me e mi fa chiedere le ragioni delle cose che faccio, e mi fa essere più me stessa di fronte alle cose anche semplici che vivo. La morte di Giovanni è stata per me il seme di una crescita.
Marta, Milano