Il punto fermo nella "burrasca" della mia maturità

Venerdì 24 maggio a Milano, don Carrón ha incontrato i maturandi. Tante le domande sul senso della fatica, il valore dei sogni, il dramma della libertà... E una provocazione: «Cristo quando entra nella vita, porta un di più»
Carlo Simone

«Devi cercare dov’è/ il punto fermo tra le onde del mare/ e quest’isola c’è», canta Claudio Chieffo in una bella canzone che a Gs mi è capitato spesso di ascoltare. L’abbiamo cantata anche venerdì 24 maggio, all’incontro tenutosi al Sacro Cuore fra i maturandi e don Julián Carrón.
Un periodo di burrasca, quello che precede il grande passo della maturità. Alla richiesta di studio che non è mai stata così esigente si sommano i timori per il futuro, che non è solo sinonimo di università, ma anche di vocazione professionale e spirituale. Maturità: il modo burocratico per accertare che non sei più un bambino, ma inizi ad essere adulto. Ma nella vita reale l’esame a giugno sarà solo una piccola parte di un percorso di crescita che inizia davvero a diventare inquietante con tutte le sue problematiche, perché io e i miei coetanei, finito il liceo, siamo davanti ancora una volta al mistero della nostra vita, con tutte le sue implicazioni.

Chieffo canta che c’è “il punto fermo”, “l’isola” a cui approdare nonostante questo periodo sia così delicato. Ed è perché tutti quei ragazzi hanno deciso di scommettere che un punto di certezza in mezzo alle mille questioni c’è, che venerdì si sono ritrovati per esprimere le loro domande, tra paure e speranze, a don Carrón.
Tutt’altro che bamboccioni o menefreghisti, si è subito parlato di argomenti cruciali: il senso della fatica, il valore dei sogni, il dramma della libertà, e anche con curiosa insistenza del problema della verginità e della vocazione sia sacerdotale che matrimoniale, due chiamate che nonostante i latrati della società individualistica e immanentistica in cui viviamo sembrano non passare mai di moda.

Carrón prende la domanda sul senso della fatica nello studio e la allarga fino a ricoprire tutte le circostanze dolorose della vita. Ricorda le parole di Shakespeare: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che nella tua filosofia». Spiega come cambi la vita se si vive con la consapevolezza che ciò che ci circonda trascende i nostri orizzonti a ciò che ci limitiamo a vedere. Per questo anche se il Mistero sceglie di chiamarci attraverso circostanze cupe, diventa ragionevole la fatica dello stare davanti al dolore, perché più grande del male è la speranza che ogni sacrificio spalanchi a un bene più grande e non immediatamente riconoscibile.

Riguardo alle passioni, che tanto entusiasmano quanto deludono, Carrón afferma che il loro criterio di verità è la durata, resistendo alle paure e alla fatica per realizzarlo. La vera passione, dice, quindi, la vocazione ti sostiene lei stessa nello sforzo per raggiungerla.
Un ragazzo deluso perché per problemi fisici si è visto precludere il suo sogno di fare il calciatore e che ha riconosciuto in questo una limitazione alla propria libertà, si sente rispondere che libertà non è sinonimo di ottenere ciò che abbiamo in testa in quel momento, che spesso ci conduce a grandi delusioni, ma aderire ad una felicità incontrata lungo il percorso. All’obiezione del ragazzo: «Quindi sono libero solo di aderire a qualcosa di prestabilito per me?», don Carrón risponde che libertà è vivere in maniera così aperta al reale ogni singolo giorno da renderci conto che quel piano “prestabilito” di Provvidenza non è a discapito della nostra libertà, ma è anzi ciò che di più bello è stato pensato apposta per noi, e quindi desiderabile.

Il che si ricollega all’ultima domanda: la vocazione. Spesso si crede che la felicità vera sia solo per i preti che si donano interamente al Mistero. Sbagliato, dice Carrón. Il Signore non ci chiama per infastidirci, ma per darci la pienezza del vivere: motivo per cui ogni cosa che siamo chiamati a fare è scelta specificamente ad personam e per darci il massimo della gioia. Vocazione al matrimonio e vocazione sacerdotale si sostengono a vicenda: la prima per proseguire il piano di Dio che vuole l’uomo partecipe della Sua gioia di esistere e amare, la seconda per testimoniare agli uomini che questa felicità promessa è reale già adesso, nella persona di Cristo che è tutto.
Nulla di ciò che Dio ci chiama ad essere è contro di noi, perché «Cristo quando entra nella tua vita porta un di più, non un di meno. Chi ha rischiato di più è stato Dio che ci ha lanciati al mondo con la fiducia che grazie al nostro cuore e al bisogno di felicità e all’esperienza che non inganna mai proseguissimo lungo la strada che porta a Lui», conclude Carrón.
Non credo di essere stato l’unico che, uscendo dall’Aula Magna del Sacro Cuore, canticchiava la fine di quella canzone di Chieffo: «Sarò con te/ io ti ho messo una mano sul cuore/ sarò con te/ come un fuoco che dentro non muore».