In cammino alla riscoperta di Lui

«Mi fermo e mi guardo attorno: il Signore sta plasmando i nostri cuori». Una ragazza racconta il suo pellegrinaggio in Polonia. Il lavoro in cucina, i momenti di silenzio e di fatica, e la certezza con cui riprende la strada di tutti i giorni

È stata la seconda volta che ho fatto il Pellegrinaggio a Czestochowa. È stata la seconda volta che ho ricevuto la grazia di vederLo tra noi. Nel messaggio per noi pellegrini Carrón ci ha scritto: «il pellegrinaggio è per chiedere la fede»; e poi ancora: «Se tornaste a casa da Czestochowa avendo sperimentato la fede come un’esperienza presente, come il riconoscimento della Sua presenza presente, sarebbe il dono più grande per continuare a vivere».
Io questo dono l’ho ricevuto. L’ho visto presente in più di una situazione. La più facile da raccontare è questa: il terzo giorno di cammino, dopo la pausa pranzo ci rimettiamo per strada. Si usma nell’aria che il cielo non resisterà a lungo, e tutti ci mettiamo le mantelle. Di fatti inizia a diluviare: la pioggia è forte e il vento anche, e per di più soffia da sinistra, quindi riusciamo a bagnarci comunque. Arrivati al campo, dove dobbiamo montare le tende, tutti sperano che salti fuori uno spazio chiuso in cui poter passare la notte. Così è: tutti possiamo dormire al chiuso. Questo però significa non poter accendere i fornelletti per cucinare e doverci cibare di scatolette. Qui la preoccupazione più grande per me: noi del Poli ci siamo organizzati per mangiare tutti insieme a cena e a pranzo, e non avevamo considerato l’ipotesi di una scorta di scatolette. E qui ha inizio il miracolo.
Non piove più, dei tre responsabili delle cucine io e l’altra ragazza non sappiamo come muoverci in questa situazione: vogliamo prendere posto dentro la scuola, ma capire anche se è possibile attaccare i nostri fuochi e cucinare per le solite 100 persone. Chiamano il colore della nostra fascetta, andiamo a cercare i nostri bagagli e ci raggiunge il terzo responsabile delle cucine e ci dice di non preoccuparci, che il gazebo è già montato, che con gli altri uomini del Poli ha già scaricato il necessario per preparare la cena. Sistemate le nostre cose, raggiungiamo il gazebo: l’acqua per la polenta è già sui fuochi. Io mi metto davanti ad un pentolone e inizio a preparare il sugo che accompagnerà la polenta. A poco a poco iniziano a radunarsi attorno tutti quelli che solitamente mangiano con noi. Poi arriva anche altra gente. La giornata è stata difficile e tutti stiamo un po’ soffrendo la fame e il freddo, allora qualcuno inizia a preparare bruschette con il pane avanzato della giornata per iniziare a tenere a bada la fame; poi mettiamo su un pentolone d’acqua per preparare del thè caldo. Siamo almeno in dieci che ci adoperiamo per preparare la cena, quasi non ci si muove. Sugo e polenta sono pronti, iniziamo a servire: quasi 150 piatti. Ci mettiamo pochissimo a servire perché in tanti ci aiutano: chi separa i piatti di plastica, chi li riempie e chi li porge alla folla affamata. Finito di servire, però, qualcuno ha ancora fame e viene a chiedere il bis: è avanzato solo del sugo, e io continuo a riempire piatti.
«Sono l’unica che non ha ancora mangiato»: appena faccio questo pensiero qualcuno viene a darmi il cambio. Poi iniziamo a servire thè caldo e caramelle: ogni persona è rincuorata. Senza che nessuno di noi lo richieda apertamente, qualcuno viene a offrirsi volontario. Io mi fermo un attimo e mi guardo intorno: Lui è qui con noi, è evidente. È qui e sta plasmando i nostri cuori; sta plasmando il mio: mi accorgo che per tutto il tempo non ho mai pensato a quanto fossi stanca, a quanto avrei voluto sdraiarmi e dormire, ma ho pensato solo al fatto che ogni persona che era lí aveva bisogno di mangiare, mi sono preoccupata di cucinare un buon sugo e di servirne a sufficienza in ogni piatto. E sono convinta che sia così anche per gli altri che si sono adoperati a cucinare e per quelli che ora stanno mettendo in ordine. Noi tutti siamo qui e stiamo guardando dalla stessa parte, stiamo guardando Lui che è presente adesso e che ci fa voler bene gli uni gli altri, anche se con qualcuno non ci siamo mai rivolti la parola. Lui ci tiene insieme.

Tre cose mi hanno commosso:
Il silenzio. Durante il cammino era il momento più difficile perché, finché si chiacchiera con gli amici, finché si canta tutti insieme, finché si recitano le Lodi o il Rosario, finché si è attenti ad ascoltare il brano della lezione del giorno, non si è concentrati sulla fatica. Quando invece veniva chiesto il silenzio sentivo tutta la fatica sulle gambe, sentivo la stanchezza. Ma era il momento più bello e più utile della giornata: era il momento privilegiato in cui accorgersi delle cose che ci sono date, delle cose che accadono senza che siano mai state preparate o progettate da noi. Era il momento in cui sentivo tutto il mio essere bisognosa: «Che cosa avvertiamo di più necessario, se non il bisogno di una presenza che ci accompagni lungo la strada della vita?» (dal messaggio di don Carrón). Era il momento in cui chiedere quella presenza per se stessi e in cui affidarsi completamente.

La fratellanza: sul volantino di presentazione del pellegrinaggio che ci è stato dato al nostro arrivo a Cracovia sono elencate le caratteristiche che deve avere il pellegrino; tra queste, una ci aveva fatto sorridere in un primo momento: «Siamo aperti l’uno nei confronti dell'altro, chiamiamoci “fratello”, “sorella” e aiutiamoci a vicenda». Questa fratellanza l’ho vissuta personalmente sulla mia pelle. In primis con alcuni del Poli: noi responsabili delle cucine, a differenza degli anni scorsi, siamo riusciti a camminare tutte le tappe perché avevamo l’aiuto degli altri che arrivati al campo si preoccupavano di prendere i nostri zaini e di montare le nostre tende, in modo che noi potessimo invece occuparci subito della cena. Mi sono sentita accompagnata da fratelli e sorelle in questo, perché nella libertà di rispondere alla nostra richiesta di aiuto hanno detto sì (noi avremmo camminato una tappa in meno al giorno se avessero detto di no).

L’umiltà. Le prime sere di cammino, finito di mangiare, tutti applaudivano al nome degli altri due responsabili delle cucine per la riuscita della cena: il mio veniva omesso e ne ero infastidita. Ma subito mi rendevo conto di essere ancor più infastidita da questa mia poca umiltà. Parlandone con uno dei preti che ci accompagnava, lui mi faceva notare che è esattamente quello che si diceva quest’anno a Scuola di comunità sulla dipendenza dall’esito. Non sarebbe stata una cosa sbagliata che mi venisse riconosciuto il merito della fatica che avevo fatto, ma non era per quello che io la facevo: io la facevo per la Sua gloria. Questa prospettiva ha cambiato completamente il mio atteggiamento: era accresciuto il mio desiderio che tutti fossero contenti di mangiare, che anche gli otto della segreteria che si erano affidati a noi per il sacchetto del pranzo lo ricevessero prima di andare a dormire e non mi sono più trovata a volere che gli altri mi applaudissero. E l’ultima sera, la sola in cui mi sono un po’ lasciata andare e l’unica cosa che ho preparato è stato il dolce, mi hanno applaudito. E mi sono commossa.

Sono tornata a casa con negli occhi l’immagine della Madonna Nera di Czestochowa, nella testa le parole che ho sentito e nel cuore i volti che ho incontrato (o re-incontrato) in questi giorni. Pronta per ricominciare (per la seconda volta) il cammino della mia vita quotidiana certa della Sua “presenza presente”.
Serena, Bresso.