Ngozi, Burundi.

In Burundi perché la vita si compia

La fatica di stare in un Paese straniero, il rapporto con una ragazza madre, la morte di un neonato. Un'ostetrica italiana, che lavora nella città di Ngozi, racconta perché è andata là e perché sceglie di tornarci: «Per sperimentare la vertigine di Gesù»

«Perché la mia vita si compia e il mondo Ti riconosca». Quando ho annunciato che sarei andata in missione, i miei amici spesso mi hanno chiesto il perché di questa scelta, perché proprio l’Africa, perché proprio il Burundi; e questa preghiera, che ho imparato alle medie e che recito tutte le sere, mi è sempre sembrata la risposta più esaustiva e più vera a tutte le loro domande: «Perché la mia vita si compia e il mondo Ti riconosca», mio buon Gesù.

Certo, non era che un piccola intuizione allora. Ma la possibilità che in Africa ciò per cui pregavo potesse prendere forma davvero mi aveva fatto dire «sì» ad una proposta che sembrava quasi folle. Almeno in parte questa preghiera si è concretizzata nella straordinaria quotidianità delle mie giornate burundesi, con una semplicità ed un'evidenza che mi hanno lasciata davvero sbalordita; perché è stato semplice scoprire e conoscere me stessa, ed è stato evidente che tutto ciò che sono stata in grado di fare non è stato possibile - e non lo è tuttora - grazie alle mie capacità, ma per grazia.

Sono una gran chiacchierona, lo ammetto, e ho sempre pensato che il modo con cui più ero in grado di aiutare i miei amici nel momento del bisogno fosse la parola giusta al momento giusto. Con la mia formazione da ostetrica questa capacità l'avevo ben affinata. Ma arrivata in Africa, da un giorno all’altro mi sono trovata a non essere più in grado di parlare con le mamme che venivano a farsi visitare e a far visitare i loro neonati, perché la maggior parte della popolazione burundese parla solo ed esclusivamente il Kirundi, la lingua locale; questo primo impatto mi ha fatto fare molta fatica e spesso mi domandavo: Gesù, come posso rendere testimonianza del tuo amore infinito per me se non posso nemmeno chiedere a queste donne come stanno?

Ebbene, la risposta è arrivata pronta ed evidente: dopo pochi giorni le mamme alla fine della visita mi abbracciavano, mi riconoscevano nei corridoi e raccontavano agli infermieri di come la muzungu (la "bianca") avesse loro ridonato speranza e gioia. Che cosa avevo fatto loro di così tanto straordinario? Assolutamente nulla! Semplicemente trattavo loro e i loro bambini con cura, la stessa cura e lo stesso amore con cui sono stata guardata fin da piccola dai miei genitori e dai miei amici, nulla di più; questo era sufficiente per stupire le donne e far nascere in loro gratitudine e riconoscenza. È proprio vero che solo se si viene guardati con uno sguardo di amore, che è lo sguardo di Dio su di noi, si può guardare gli altri con altrettanto amore, come è successo a Maria Goretti.

Maria Goretti è una ragazzina di 14 anni, vive con la mamma e il compagno della mamma in mezzo alla foresta, in una delle colline che circondano la città di Ngozi, dove si trova l'ospedale in cui lavoravo. Io l'ho conosciuta quando era ancora incinta, ormai al termine della gravidanza, probabilmente sorta dopo una violenza. Dopo aver partorito, è venuta a far visitare la sua bambina ed è subito nata una simpatia tra di noi. Ha iniziato a sorridere, cosa che - a suo stesso dire - non faceva da molto tempo. Per non perdere la possibilità che lei significava per me, io e Israël, l'infermiere che aveva assistito al parto, abbiamo deciso di andarla a trovare nella sua capanna, con la scusa di osservare se la bambina stava crescendo bene. Dal primo momento in cui siamo arrivati non ha più smesso di sorridere, e la cosa che più mi ha commosso è stata osservare che, mentre prima quando allattava non guardava la sua bambina, adesso la teneva in braccio e la accarezzava con un affetto davvero materno.

Anche per me è stato necessario imparare di nuovo questa tenerezza, per non cadere nel buio del cinismo. Un giorno, sono rimasta un’ora ad aiutare una mamma a spremere il latte da dare al suo bambino che, ricoverato in neonatologia, non aveva la forza di attaccarsi al seno per mangiare; il giorno dopo il bambino è morto. Il mio primo pensiero è stato pensare che fosse stata una fatica inutile, tempo sprecato. Mi sono scoperta terribilmente cinica, ma allo stesso tempo la risposta al mio cinismo era lì, pronta ed evidente, così semplice da essere disarmante: Israël di fianco a me si era messo a piangere, davanti alla morte, così misteriosa, di un bambino piccolo. Che grazia! Che grazia che un secondo dopo essermi scoperta cinica, brutta del mio pensiero ridotto, Dio mi aveva messo di fianco una persona che mi riportava al modo più vero e grande di guardare ad un fatto così tragico, con una tenerezza incredibile.

Ho sperimentato la vertigine di Gesù che si fa presente nella vita quotidiana, e ti permette di scoprire un pezzettino della vocazione a cui ti chiama. Dopo aver provato una vertigine tale, non si può più farne a meno, perfino se ti mette davanti ad una brutalità disarmante, come è successo a me non solo nelle circostanze che ho incontrato, ma anche in ciò che ho scoperto di me. Mi sono scoperta capace di un cinismo inimmaginabile, ma subito sono stata riportata ad un modo vero ed umano di guardare le cose, subito sono stata perdonata.

Perciò quando i miei amici mi chiedono perché voglio tornare, la risposta è sempre la stessa: «Perché la mia vita si compia e il mondo Ti riconosca». È per questo che voglio tornare, per questo e niente di meno.

Mariachiara, Ngozi (Burundi).