Massimo Robberto all'Istituto Canossa di Lodi

Il punto che può guardare le stelle

Un incontro tra l'astrofisico Massimo Robberto e gli studenti di una scuola media di Lodi, a parlare di universo, telescopi e amicizia. Tra lo stupore e le domande, la scoperta che «ci si può innamorare sempre di una cosa grande»

È ancora possibile oggi suscitare un vero interesse nei nostri studenti nei confronti della realtà? Lo abbiamo visto accadere a fine maggio, a Lodi. Nella sala polivalente dell’Istituto Canossa il professore Massimo Robberto incontra gli studenti della scuola media.

Massimo, observatory scientist della Nasa presso lo Space Telescope Science Institute di Baltimora negli Stati Uniti, dialoga per due ore con studenti e professori sulla sua passione per il cosmo e le stelle. Lo scienziato, che è il responsabile della “camera per il vicino infrarosso” del nuovo telescopio spaziale James Webb, mostra agli studenti le più recenti immagini delle galassie fatte dal telescopio spaziale Hubble e presenta il futuro telescopio ormai prossimo al lancio nello spazio.

Ininterrotte le domande dei ragazzi. Chiede Alessandra: «Come hai capito di essere appassionato a questo lavoro? Questa passione è nata da qualche bisogno?». E Thea: «Che strada hai dovuto fare per arrivare dove sei ora?». Ancora, Riccardo: «Sei felice della tua scelta e del tuo lavoro?».



«Il mio lavoro ha scelto me», risponde lo scienziato: «Fin da ragazzo avevo una grande curiosità che non veniva mai meno, e quando ho messo gli occhi per la prima volta in un telescopio mi sono detto: “Voglio vedere, voglio capire”. Erano gli anni dello sbarco sulla Luna e lo spazio per me era la grande avventura, la grande scoperta. Le scelte poi si sono sviluppate tenendo nel cuore questa ferita, questa passione. Certamente sono felice ed ho il privilegio di fare un lavoro che amo».

«Ma che cosa sono le stelle per te?», domanda Giovanni. E Riccardo: «Quando vedi le stelle, a cosa pensi?». E Robberto: «Le stelle per certi aspetti sono sistemi estremamente semplici, che hanno il compito fondamentale di produrre i metalli e permettere ai pianeti, alla terra di esistere. Noi siamo polvere di stelle e penso che la nostra esistenza, rispetto al tempo trascorso dall’inizio, è come l’ultimo istante che è passato, ha la durata di un batter d’occhio. Siamo la cosa più effimera che si possa immaginare nell’universo eppure siamo quel punto che lo può guardare, da dove la natura stessa si guarda. Che strana importanza ci è data; siamo la voce del creato e lo diciamo per il tavolo, il foglio di carta, l’aria che respiriamo che non lo sanno».

La curiosità dei ragazzi si scatena. Omar vuole sapere qual è la costellazione preferita dello scienziato. «La nebulosa di Orione», risponde il professore: «In questa regione, in questo momento, stanno nascendo delle stelle con i loro pianeti. Scopriamo fenomeni nuovi. Quando le stelle nascono sono estremamente vicine e, se si scontrano, può accadere una gigantesca esplosione. Avevamo trovato alcune stelle che sembravano essere state lanciate da una esplosione. I conti però non tornavano perché osservando vedevamo che andavano tutte nella stessa direzione e non nell’altra e questo non è possibile. Mancava un dato alla nostra osservazione; ci sono voluti dieci anni per vedere che una stellina si sta spostando dalla parte opposta. Così abbiamo ricostruito l’esplosione avvenuta nel 1485 e capiamo meglio cosa è successo. Proprio come dicevano i Greci: il cosmo è un ordine».



La ragione si sente sfidata e Giovanni si domanda quale sia lo scopo ultimo della ricerca dell’astrofisico. Risposta: «Soddisfare la nostra curiosità. La nostra curiosità è come quella dei bambini che, guardando il cielo, si chiedono: “Come? Perché?”. Da questa curiosità nella storia sono emerse le prime domande e le prime risposte. Le domande sono la cosa più grande che abbiamo. Non c’è nessuna domanda banale. Ogni volta che s’incontra una risposta nasce una nuova domanda. Per esempio una delle domande più importanti nella storia della cosmologia è: perché di notte il cielo è buio? Oppure, dove va a finire tutta questa luce? Occorre che l’universo sia nato e si espanda. Questa complessità ordinata ci provoca una curiosità e il bisogno dello strumento giusto per conoscerla. La nostra ricerca nasce dal gusto di fare una cosa grande che ci mette insieme al lavoro e di farla insieme per lasciare anche a te un mondo migliore».

Le domande non finirebbero più, dalle più complesse alle più semplici. Nessuna domanda infatti è “banale” e Massimo le prende tutte molto seriamente. Aanche quelle dei professori, che si aggiungono a quelle degli studenti. «C’è stato qualcosa che ti ha cambiato la vita?», chiede un’insegnante. E Massimo: «È una grande opera costruire la propria vita e non si può farlo da soli. L’aiuto più grande che ho avuto è stata una compagnia guidata, certi amici che mi hanno preso sul serio. Gli amici veri mi hanno preso per mano». «Ma allora cosa significa per noi tendere alle stelle?», chiede ancora un’altra docente. «La fortuna che abbiamo come scienziati è quella di avere a che fare con la realtà, con i dati. Dobbiamo trattare bene la realtà perché quello che abbiamo davanti è sempre di più di quello che pensiamo. E stando davanti alla realtà, facciamo un piccolo passo indietro. Dalle stelle, che sono la cosa più altro da noi, impariamo ad amare la realtà più del nostro tornaconto, la verità più di quello che pensiamo».

I ragazzi, al termine dell’incontro, si avvicinano a Massimo per fargli ancora altre domande. Lo scienziato ha ridestato il fascino dell’esplorazione, della scienza come ricerca, dell’avventura della conoscenza della realtà. Nel dialogo con lui abbiamo visto come l’io si ridesta nell’incontro con una persona curiosa e appassionata a tutto quello che c’è. Perché, come Massimo ci ha detto, «non si è mai troppo giovani (o non più giovani) per innamorarsi di una cosa grande».

Carola, Lodi