Giovanna (al centro) con alcuni amici della Fraternità

Giovanna e l'unica verità della vita

Mamma, moglie e amica di tanti, è salita al Padre a novembre dopo due anni di malattia. Ecco cosa scrive il marito Carlo, rileggendo la lettera di Carrón pubblicata sul "Corriere della Sera" la Vigilia di Natale

«Ma come Dio lancia la sua sfida? Quale è il gesto più potente che Egli compie nei nostri confronti? Non ci offre la parola consolatoria ma accade nella nostra vita. Facendosi carne e restando presente attraverso la carne, l’umanità reale di persone concrete, può abbracciare ogni situazione umana, entrare in ogni disagio, in ogni ferita in ogni attesa del cuore».

Così l’articolo di Carrón sul Corriere della Sera del 24 dicembre scorso. E quando questo avviene nella vita di un uomo, tutto cambia, è una meraviglia che ti stupisce ogni momento. Giovanna, mia moglie, è salita al Padre nel giorno di Tutti i Santi, dopo due anni di sofferenze causate da una grave malattia che ha segnato la vita della nostra famiglia e degli amici che ci hanno accompagnato, giorno e notte, con affetto e attenzione. Come dico sempre ai miei figli, non possiamo rifiutarci di stare nella realtà, ma in questi mesi è stato evidente che anche la sofferenza può essere vissuta con libertà e dignità solo per lo sguardo fisso a Gesù. Tutto è possibile se teniamo lo sguardo fisso a Lui che ci viene incontro ogni giorno. Quello che accade, anche le difficoltà, ci è dato perché c’è uno che ci vuole bene più ancora di noi stessi. Giovanna diceva che quello che ci accade è il modo con cui il Signore parla a ognuno di noi, personalmente.

Sì, la vita è una sfida continua e quello che capita spesso è come un test che fa vedere dove sta la nostra consistenza. Talvolta, vediamo la vita come un susseguirsi di tappe da superare: sappiamo già ora cosa ci accadrà, e anche la malattia si potrebbe affrontare così. Talvolta sappiamo già come il tumore evolverà, e quali saranno le conseguenze. E questo può diventare il contenuto della vita, mentre a Dio tutto è possibile: possiamo guardare tutto non solo attaccati al dolore ma al desiderio di vivere. Per questo, fino all’ultimo istante, Giovanna è stata attaccata alla vita tutta. Amava dire, anche ai medici che la curavano, che lei non era solo la sua malattia. Fino all’ultimo giorno di vita ha seguito con passione e attenzione la famiglia, gli amici che hanno condiviso questi anni difficili e l’associazione culturale “Umana Avventura”, alla quale si era dedicata da lungo tempo.

Noi tutti abbiamo imparato da questa esperienza che il punto è di domandarci se vogliamo giocare questa sfida nel quotidiano o se preferiamo stare a guardare. Se la giochiamo, il nostro umano cambia. Infatti, stupiva tutti vedere la letizia con cui Giovanna affrontava la vita senza lamentarsi, pur nel dolore anche fisico che talvolta diventava difficile affrontare nonostante i farmaci. Stupiva vedere come cercava continuamente di sostenere le persone ammalate come lei che incontrava durante le presenze in ospedale per le terapie. È proprio vero che il cuore dell’uomo è più grande di ogni disperazione. Poteva vivere la sofferenza con letizia non perché non fosse cosciente della sua malattia (Giovanna era medico), ma diceva a tutti che ciò era possibile perché «è la fede che vogliamo vivere, e questa è l’unica verità della vita». Di fronte a questa esperienza per me è stato ed è evidente oggi che non reggi per una chiarezza o una spiegazione sulla vita, ma si tratta di non chiudere le domande vere, lasciare che, attraverso di esse, come una ferita aperta, Egli si possa inserire e trapassare tutta la vita piena di bisogno che siamo. Allora, è evidente che siamo chiamati in gioco noi, sono chiamato in gioco io: è chiamata in gioco la mia libertà. Come ha scritto mio figlio Lorenzo alla sua mamma il giorno della morte: «Aiutaci a tener desto il nostro cuore».

Così, solo ora comincio a capire quello che mi ha detto Carrón al telefono il giorno dopo la morte di Giovanna, che non è finito niente, ma è un nuovo inizio per questa chiamata in gioco nuova, ancora una volta, ora. In questi anni, spesso con Giovanna ci siamo chiesti: «“Chi è Costui” che ci permette di stare di fronte a questo che ci sta capitando senza disperarci?». È la stessa domanda che faccio ai miei figli ora, quando la sera a cena mi chiedono: «Ma perché la mamma è morta?». E io dico loro: «Non lo so, forse lo sapremo solo alla fine. Ma chiediamoci: perché noi siamo al mondo? Perché ci siamo? Per chi ci siamo? Se non ci aiutiamo su questo allora si sarebbe la disperazione». Non disperarsi non vuol dire fare finta di niente e in modo quasi automatico andare avanti cercando di schermarci dietro muri di difesa per sopravvivere o dimenticare, ma fare in modo che ci si renda conto di quanto è bello il mondo, e che non solo è bello, ma pieno di mistero.

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Questo lo imparo oggi dai miei figli e dagli amici con i quali condivido i fatti della vita. Loro sono questa possibilità di continuità perché non basta che un fatto ci capiti, e neppure basta fare i conti con la morte: occorre che ci accorgiamo del suo significato, altrimenti tutto può appiattirsi e diventare una questione qualunque. Per vivere abbiamo bisogno di una speranza vera, che non consiste nell’attendere momenti migliori, ma la speranza della fede vissuta che ti fa stare nella realtà senza fuggire e ringraziando di ciò che ci è stato donato. Non siamo mai soli.
Carlo, Seregno (Monza e Brianza)