Una serata della tre giorni a Pavia e dintorni

Padova. Tre giorni a Pavia, per essere abbracciati

Una convivenza durante le vacanze per sessanta giovani lavoratori veneti. Dall'incontro con la vita dei Santi della bassa Lombardia a quello con Marco e Caterina, freschi sposi, e con la loro "nostalgia"...

È il 4 gennaio 2020: una sessantina di giovani lavoratori della comunità di Padova si ritrovano tre giorni a Pavia, invitati con una domanda: “Che novità sta portando nella tua vita l’aderire alla Comunità?”. All’introduzione della sera, si intuisce fin da subito quello che c’è a tema in questi giorni: la nostra umanità, il nostro bisogno, le nostre domande. E, allora, la prima compagnia che siamo chiamati a farci tra di noi è proprio quella che ci permette di non censurare nulla del nostro umano, perché come ripete Samir, citando la Scuola di comunità, «cosa vale se guadagni il mondo e poi perdi te stesso?». Se siamo qui è perché abbiamo incontrato questa possibilità nella vita e, cioè, che possiamo non perdere nulla di quello che siamo e di quello che viviamo.

Si capisce immediatamente che questi giorni non sono una scampagnata o una gita fuori porta per riempire gli ultimi sgoccioli di vacanze natalizie, ma siamo stati invitati, siamo qui per questa promessa, perché consapevoli che occorre che essa riaccada, si faccia carne: non basta il ricordo, non basta ripeterselo, occorre vedere Gesù riaccadere.



Il giorno dopo, il giro di Pavia, la visita alla chiesa dove è custodito il corpo di sant’Agostino, così come la sera prima da san Riccardo Pampuri a Trivolzio, ci permettono di incontrare le storie di santi che ci testimoniano cosa il Mistero è in grado di generare nella vita di colui che gli dice “sì”.

La sera torniamo in albergo. Ad attenderci, Caterina e Marco, due giovani sposi che ci raccontano la loro vita degli ultimi due mesi dopo il matrimonio. Prima, il viaggio di nozze a Roma, quando proprio nel momento in cui avevano tutto quello di cui credevano di aver bisogno, emerge in Caterina una certa nostalgia, che anche Marco riconosce di avere: «Ma cos’è che ci manca ora, che il giorno del matrimonio avevamo? Quello che i nostri amici ci portano, Gesù. E adesso l’unica cosa che vogliamo è iniziare a vivere questa settimana come occasione perché Lui ci venga a prendere». E così il giorno dopo hanno cercato qualcuno del movimento lì dov’erano.

Nulla è censurato. Anche la tristezza, che si manifesta in una situazione in cui sembrerebbe inopportuna, diventa il modo in cui è possibile accorgersi di quello di cui si ha veramente bisogno: Cristo risponde alla nostra domanda ultima, perché, come ci diceva Marco, «o si parte dal bisogno o non sapremo mai dove andare, perché senza quel bisogno non hai bisogno di Cristo».

Raccontano altri esempi, e traspare che nella vita di chi ha incontrato Gesù nulla è più banale, nulla è da buttare, neppure la propria svogliatezza, le proprie paure, i propri progetti, perché è dentro le pieghe del nostro umano che il Mistero si palesa, rispondendo realmente a ciò che desideriamo.

Ascoltarli pone due alternative: definire un’ultima misura su di sé, per quella distanza che si può percepire tra la loro coscienza e la propria, oppure arrendersi all’evidenza che il loro essere così non è frutto di una capacità. La possibilità di non buttar via nulla di quello che si è e di quello che si vive… È un Altro che la rende possibile. «Non si cresce in coerenza, ma in affezione», ha detto Caterina: il problema non è allora diventare capaci o essere all’altezza, ma riconoscere cosa ci permette di ripartire, di guardare tutto quello che siamo senza paura. E starci.

«Un luogo nel quale siamo ridonati a noi stessi»: questo è ciò che abbiamo sperimentato in questi giorni e che emerge anche durante l’Assemblea finale. Una compagnia che non rimane a lato della vita, ma che ha la pretesa di essere totalizzante per l’esistenza. Samir, citando la Scuola di comunità dice ancora: «Un incontro, se è totalizzante, diventa la forma e non semplicemente un ambito di rapporti». Ed è tale nella misura in cui permette di accorgersi sempre di più che quello di cui abbiamo bisogno è un Padre che ci guardi come noi non sappiamo guardarci. Un Padre che sia presente ora, che faccia crescere il desiderio di conoscerlo e di scoprire cosa può diventare la vita vissuta al Suo cospetto.

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Così come dice anche Karim: «Si pecca tante volte, ma il metodo di Dio è che riaccade. E questo sguardo ti dice di non aver paura e può rendere la mia esperienza totalizzante con tutti». Abbiamo bisogno che Lui riaccada per ripartire, che vinca le nostre misure e le nostre paure. Come aggiunge Matteo nel suo intervento: «Quando Caterina e Marco hanno iniziato a parlare mi sono trovato come davanti a un bivio: o il giudizio su di me è tutto quello che “non ho vissuto” in questi mesi, oppure tutto è possibilità ed è abbracciato. E io torno a casa abbracciato così».
Annachiara, Padova