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La mia nuova (temporanea) dimora

Il virus colpisce Nando e lo costringe in una camera d'ospedale. Ma il compagno di stanza e il conforto di chi è fuori non lo lasciano solo. Una compagnia che non dà tregua. Ed è un po' come da giovani, al Luna Park...

«Non siamo soli perché Uno è venuto per farci compagnia ad accompagnarci a vivere», don Julián Carrón.
Sto iniziando la quarta settimana di malattia: una polmonite bilaterale da Covid19 definita dai medici “molto seria”. Questo virus tenace e vile ti percuote e ti frusta da tutte le parti: oltre al dolore, alla stanchezza e alla fatica fisica dovuta alla mancanza di respiro, l’altra più grave conseguenza è l’isolamento dai tuoi cari e dai tuoi affetti, costretto come sei a vivere sigillato in una stanza di ospedale, dove, se ti va bene (come a me), trovi un compagno di stanza anziano che non appena lo saluti ti stoppa e ti dice che sta pregando!

Da questo banale incontro nasce una bella amicizia sostenuta dal fatto che entrambi crediamo in Gesù e ci aiutiamo vicendevolmente nelle condizioni che la realtà ci impone. Questa situazione, questa nuova realtà non domina, non prevale, non è la padrona su tutto, perché, oltre questa nuova e inaspettata amicizia che mi rende lieto, ciò che più stupisce in modo eccezionale è il ricevere (continuamente in questi 22/23 giorni di ospedale) messaggi e telefonate dei miei famigliari, dai miei amici del gruppetto della Fraternità e da tutti gli altri amici della comunità, che non ti lasciano nemmeno per un momento da solo nel trascorrere della giornata, che ti accompagnano costantemente con quello sguardo di bene che hanno su di te, e che hanno caro il tuo destino. Il bello è che non sei il solo ad accorgerti, tanto è vero che il “coinquilino” stupito chiede chi sia io e chi siano tutti questi amici «che non mi danno tregua» confortandomi e informandosi sulla mia salute. È come sentirsi in una centrifuga, oppure come da ragazzo, quando si saltava la scuola con gli amici per andare alla giostra del Luna Park, dove continuamente sei lanciato in alto per provare la vertigine di volare nel vuoto, ma poi ritorni sempre verso i tuoi amici.

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Anche adesso, che sei un pochino più anziano, continuamente sei lanciato, rilanciato e ripreso con i messaggini, o i collegamenti Zoom per recitare insieme l’Angelus o il Rosario o fare Scuola di comunità. È incredibile che il mio vivere in una stanza di ospedale adesso è la mia nuova dimora, dove comunque l’affetto della famiglia, degli amici e di chi ti è più caro è condiviso anche dai compagni di stanza.

Chiedere qui in ospedale «con umile certezza che l’inizio di ogni giornata sia un sì al Signore che ci abbraccia e rende fertile il terreno del nostro cuore», ha un valore diverso, un peso diverso, una consapevole gratitudine differente da prima, oserei dire più motivata.

Nando, Gerenzano (Varese)