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Basilea. «Che cosa mi fa camminare?»

Nella pandemia, la scoperta della radice vera dell'amicizia. E della possibilità che tutto diventi occasione di scoperta di sé e del mondo. Come quell'incontro con una dottoranda nigeriana che...

Esattamente un anno fa, all’inizio del 2020, in un incontro di responsabili di CL qui in Svizzera, ci è stata ricordata quella frase di San Paolo che dice: «Nessun dono di fede più ci manca». Oggi mi chiedo: «Era vero? È vero?». Io posso rispondere di sì, così come posso dire che l’anno passato è stato un anno di grazia del Signore, nella misura in cui mi accorgo di come certe parole diventano “mie”, assumono un contenuto di esperienza. E l’unico modo in cui questo accade, per me, è nella sequela al movimento. Faccio degli esempi.

Nei mesi scorsi mi sono spesso sentita dire, da alcuni amici del movimento, in modi diversi, che «non siamo più (o non siamo tanto) una comunità, perché non ci vediamo». E io mi sono dovuta chiedere: ma a me cosa o chi fa compagnia (e quindi mi rende parte di una “comunità”)? Cosa mi fa camminare? Cosa mi aiuta a vivere? Io penso a don Carrón a Milano, a Francesca a Roma, a Tommaso a Ginevra, a don Giussani… Questi sono i rapporti in cui il mio rapporto con Gesù è sostenuto ed è vissuto in modo più trasparente. Non sono i legami più immediati, nel senso della vicinanza fisica. Eppure io non posso pensare alla compagnia senza pensare a questi. E non li sento per nulla meno. Questo non vuol dire che non domando e desidero la stessa intensità di rapporto anche dove vivo.

Anzi, questo desiderio mi apre a riconoscere il vero in tutti quelli che mi sono dati qui a Basilea (che siano o meno del movimento, penso ai genitori coi cui stiamo aprendo una scuola perché condividiamo la domanda su cosa voglia dire educare, anche se non sono del movimento). Solo così capisco, do contenuto, alle parole di don Giussani: «La compagnia è nell’Io». O come diceva don Carrón nella lettera alla Fraternità: «È a questo livello della questione – il riconoscimento della natura totalizzante dell’incontro, che diviene forma vera di ogni rapporto – che vengono in nostro aiuto presenze veramente “amiche”, che ci testimoniano la strada che ci consente di vivere una situazione come quella attuale».

Per me la pandemia (la mia pandemia) è come ricominciata quando abbiamo ricevuto a marzo la lettera di Carrón alla Fraternità, perché ha cambiato la mia prospettiva e quindi ha aperto uno squarcio su una possibilità da verificare (cioè rendere mia): «In questo momento, in cui il nulla dilaga, il riconoscimento di Cristo e il nostro “sì” a Lui, anche nell’isolamento in cui ognuno di noi potrebbe essere costretto a stare, è già il contributo alla salvezza di ogni uomo oggi, prima di ogni legittimo tentativo di farsi compagnia, che pure va perseguito nei limiti del consentito. Niente è più urgente di questa autocoscienza».

Da quel momento in poi tutto è diventato occasione di verifica. Questo non toglie il dramma, la fatica, il dolore anche a volte di una situazione comunque difficile. Eppure mi sono scoperta, in tempo di pandemia, a fine gravidanza con delle difficoltà, a dire «ma io non ho paura di avere paura». Questo secondo me è un altro mondo, una fede che può sfidare tutto, senza evitare qualcosa o aspettare che passi.

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E questo mi abilita ad entrare nel modo in attesa. In questi giorni ho ricevuto una lettera da una mia dottoranda Nigeriana, che ha finito ed è tornata in Nigeria. Il giorno dell’esame mi aveva detto: «Ci sono stati momenti duri, in cui mi dicevo "ma chi me lo fa fare, lascio tutto e torno a casa". Poi pensavo a te e pensavo che non era giusto, che non era vero». Ora mi scrive: «Grazie mille per tutto ciò che hai lasciato in tutta la mia vita, la storia della mia vita non può essere scritta senza menzionarti in tutte le sue ramificazioni. Sono in debito con te e l'unico modo per mostrare la mia gratitudine è continuare ad avere un atteggiamento positivo ed essere buono con le persone che incontro come lo eri tu con me».
Ecco, io la “responsabilità e decisione” e il “Tempio nel tempo, la dimora” di cui si parla nel testo della Scuola di comunità, le capisco a partire da questi due giudizi che ha dato la mia dottoranda nigeriana. Ma io mi accorgo di lei, del suo cuore, della verità di quel che vive e dice, perché seguo Carrón, cioè mi immedesimo per esempio con i passi che lui indica durante gli incontri in collegamento. E per questo mi stride una certa riduzione del senso della compagnia o comunità, che peraltro taglierebbe fuori anche il mio rapporto col Mistero.

Ilaria, Basilea