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Il compito continuo di essere veri

Oltre quarant'anni di insegnamento festeggiati tra i colleghi e con una lettera agli studenti. Una storia fatta di volti, momenti. Perfino di errori. E di uno sguardo cambiato nel tempo

Weekend prima degli scrutini di fine anno: un gruppo di colleghi prepara un aperitivo per me e la mia collega di Matematica, prossimi alla pensione. Poco prima del dolce, prendo la parola, volendo esprimere quello che mi preme nel cuore ormai da tempo e la gratitudine verso ognuno di loro, per quel gesto e ciò di cui era segno. Ho voluto comunicare cosa mi ha mosso in più di quarant’anni di insegnamento e, soprattutto, la gratitudine, tornato dopo anni di missione in Perù, per quello che era cambiato in me e con loro negli ultimi anni; anni difficili e allo stesso tempo pieni di entusiasmo, di stima e di frutti insperati, pieni di impegno. Così, confusamente, in un saluto improvvisato, ho desiderato dire loro da chi avessi imparato e cosa avessi maturato in tutto questo tempo.

Quando ho fatto la prima supplenza erano i giorni del rapimento di Aldo Moro, marzo 1978, diversi colleghi non erano ancora nati, ma ho voluto evocare con un’immagine drammatica i cambiamenti nel mondo e nella scuola in questi decenni. Ed anche quale compito continuo abbiamo, quello di ricostruire l’umano, il nostro, quello di essere veri.

Sono andato avanti un po’ a ruota libera, nella memoria si affollavano volti, momenti, parole ascoltate, anche errori fatti, ma il sentimento prevalente era questo: in quasi 42 anni ho imparato a guardare i miei alunni; è cambiato il mio sguardo a loro e al mondo, stupito da quel «Misterio eterno dell’esser nostro», che sono io e che sono loro.

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Nell’ultima lezione, ho dato ad ogni alunno una lettera, in cui tra l’altro ho scritto: «Mentre io termino la mia carriera di docente, voi vi aprite alla fine del liceo e, poi, all’università e alla vita, con i suoi impegni di famiglia e di lavoro. Vorrei, anzitutto, ricordare le persone da cui ho imparato e per cui ho deciso di dedicarmi all’insegnamento: mia madre, appassionata professoressa di Lettere classiche e, in università, un grande docente, un sacerdote che mi ha insegnato a guardare le cose salvando la ragione. Da lui ho imparato cosa voglia dire essere sempre giovani. Scriveva: “La giovinezza è un atteggiamento del cuore. Si è giovani quando non ci si accomoda, ma si è tesi verso la realtà con l’avidità di imparare quel che essa suggerisce sul nostro destino, così che la realtà solleciti quelle domande che costituiscono il cuore dell’uomo e quelle domande che sono in noi il riverbero del destino e aspettano una risposta che riguarda tutta la vita”. Vi auguro di non esser mai tranquilli, di “non esser mai soddisfatti di nessuna cosa terrena”, direbbe Leopardi. Auguro, perciò, anche a voi, questa indomabilità e passione a vivere cercando la ragione, il senso di tutto, a “seguir, virtute e canoscenza”, come dice Ulisse nell’Inferno di Dante».
Giancorrado, Corsico (Milano)