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«Chiudi gli occhi e riaprili»

Dopo un intervento d'urgenza al cuore, Fulvio si trova in un centro di riabilitazione. «Ricordo il primo giorno in cui ho guardato dalla finestra. C'erano 4 alberi, la fermata del bus e sullo sfondo la tangenziale. Era tutto meraviglioso»

Ho superato i 60 anni e recentemente un fastidio al petto ha suggerito qualche controllo medico e il risultato è stato un intervento d’urgenza a cuore aperto. Ci sono momenti in cui il pensiero della morte come di una possibilità reale è inevitabile. Mentre mi portavano in sala operatoria mi sono chiesto se sarei stato pronto. Subito la domanda mi è sembrata astratta, ed è partita in automatico un’Ave Maria. Un istante dopo sono stato invaso dalla gratitudine per tutta l’infinita serie di cose e incontri belli che la vita mi ha regalato. E ho detto il mio grazie. Solo allora ho capito di essere pronto. Ma evidentemente non era la mia ora, e così mi sono risvegliato diverse ore dopo in terapia intensiva. Il mio corpo era un grumo dolorante e non potevo muovere altro che gli occhi. C’era una cosa, una sola, che, man mano la coscienza riemergeva, ero in grado di fare: invocare l’aiuto di Dio. Allora è avvenuto per me un piccolo miracolo: il momento in cui i miei occhi hanno intercettato sulla parete di fronte la sagoma di un crocifisso. Era Lui, ed era lì per me. Lo sguardo umano che avevo bisogno di incrociare è stato il Suo. «All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna». Questo dice papa Francesco, questo conferma la mia esperienza. E così, sotto questa impressione, ho attraversato alcuni giorni e notti, ancora all’insegna della fatica e del dolore, ma benedetti dai primi timidi segnali di ripresa. Ricordo bene il primo giorno in cui ho potuto alzarmi dal letto e avvicinarmi alla finestra. Il mondo intero era rappresentato da 4 alberi, la fermata del bus, il parcheggio dell’ospedale e, sullo sfondo, la tangenziale: mi è sembrato tutto meraviglioso. Che gratitudine perché il mondo esiste.

Dopo dieci giorni dall’intervento, è previsto il mio trasferimento presso un centro di riabilitazione. Mentre mi sto preparando, mi raggiunge la notizia che mia mamma è salita in Cielo. Il desiderio di rientrare a casa è forte, ma le mie condizioni non lo consentono. Riesco a dare qualche indicazione ai figli e agli amici del gruppetto di Fraternità e loro pensano a tutto. Mia mamma è accompagnata all’incontro con il Signore con un funerale semplice, ma curato in ogni particolare. L’attenzione degli amici arriva fino a consentirmi di seguirlo in video collegamento. Nel dolore per la mamma e il dispiacere per la mia assenza, mi scende nel cuore una grande pace.

Al centro mi colpisce la somministrazione di un questionario, volto a stabilire se un paziente ha bisogno o meno di un sostegno psicologico. In buona sostanza una serie di domande che si potrebbero sintetizzare in questi due estremi: o «la vita è ancora una cosa degna di essere vissuta» oppure «la vita è una fregatura»; e tu sei chiamato a dire dove ti collochi in una scala da 1 a 5. Lo compilo a gran velocità, con tutte le risposte che vanno in un’unica direzione: la vita era bella prima e bella rimane. Ho tanta curiosità di vedere che cosa ancora mi riserva e come il Signore vorrà ancora sorprendermi. Ma questo non è scontato e, una volta di più, è fonte di gratitudine.

Quando agli ultimi Esercizi della Fraternità, Carrón ha parlato della «speranza che non delude», ha citato don Giussani: «Gli uomini hanno bisogno ultimamente di una cosa: la certezza della positività del loro tempo, della loro vita, la certezza del loro destino». Questa certezza è dentro di me, non per qualche mia dote particolare, ma per una storia di appartenenza, in cui di continuo ragione e affezione sono richiamate al sì di Pietro e alla fedeltà di Dio.

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In questo centro tutti gli ospiti hanno subìto interventi pesanti, sembra quasi una gara a chi ha le cicatrici più lunghe o l’angioplastica più complicata. Qui è molto facile ricordarsi quanto fragile è l’uomo. È incredibile la quantità e la qualità delle cure mediche, e questo anche per persone messe più gravi di me, che ti chiedi con che aspettativa di vita possano ancora essere restituite alle loro famiglie. Allora mi è sorta la domanda: per che cosa vale davvero la pena di restituire al mondo un uomo? Un giorno, mentre ero disteso su un lettino per l’ennesima ecografia, ho avuto un’“illuminazione”: ha senso investire tanto sull’umano perché l’uomo possa essere restituito al compito definitivo della sua vita: amare ed essere amato.

Rosa Montero nell’articolo “Oggi, qui, ora” ripreso da Tracce scrive: «Sarò felice quando raggiungerò la mia destinazione. Beh, la cattiva notizia è che non si arriva mai. Esiste solo l’oggi, il qui e l’ora». Io so di avere davanti a me tutto un lavoro da fare, perché neppure quello che sto vivendo, con la densità della sua sfida, se non diviene consapevolezza, può salvarmi dal rischio del già saputo, della scontatezza. Però se potessi rispondere alla giornalista spagnola, alla luce della mia esperienza con molta umiltà le direi: «Come esiste “solo” l’oggi, il qui e l’ora? Non la sorprende che ci siano? E che le facciano sorgere domande decisive? Io mi sento di dire che la realtà va amata così com’è, perché c’è, e ha dentro un germe di bene indistruttibile. La buona notizia è che l’oggi, il qui e l’ora sono salvati da una speranza che non delude, perché Qualcuno ha creato tutto per l’esistenza». «Tutto» cosa? Chiudi gli occhi e riaprili: tutto. Con te al centro.
Fulvio, Sondrio