Il Campus By Night di Bologna (Foto: Federico Santini e Linda Martina)

Bologna. Quel punto bianco in ognuno di noi

“Cosa rende la vita vita?”. Questo il titolo del Campus By Night, che si è svolto tra il 7 e 9 ottobre. Mostre, conferenze, dibattiti per «scoprire un io cambiato da una bellezza che lo attrae e lo apre al mondo». Il racconto di quei giorni

Quando siamo andati in giro per Bologna a chiedere ai nostri coetanei cosa rende la vita vita, la prima reazione è stata sempre un certo impaccio. Allora l’edizione di quest’anno del Campus By Night è nata per raccontare – a parole, ma soprattutto con fatti – che promessa di bene c’è anche solo nel porre questa domanda. Tutto ciò ha preso forma nel centro della città attraverso mostre, conferenze, dibattiti, ma anche eventi sportivi, aperitivi e ristorazione. Ogni momento, dalla partita a ping pong fino ai dialoghi davanti a uno spritz, sono stati un’occasione di scoperta.

Da sempre il Campus cerca di portare all’intera comunità universitaria e alla città ciò che più ci appassiona nella vita e nello studio, ma quest’anno la sfida è stata ancora più grande. Nel ritornare in Università, ci siamo accorti che tra compagni di corso e professori prevalevano una certa stanchezza nel ricominciare e l’amaro in bocca per tutto ciò di cui la pandemia ci ha “privati”. Invece, nel guardarci tra noi, era evidente come vincesse una positività sia rispetto ai mesi passati che al nuovo inizio che ci attendeva. Allora si è amplificata la domanda: cosa rende l’istante pieno di significato? Cosa mi dà la voglia di ricominciare? E quindi, “Cosa rende la vita vita?”. Al punto da diventare il titolo dell’edizione di quest’anno.

La domanda è stata decisiva già nella preparazione del Campus, in particolare nei momenti di fatica. Dopo essere stata coinvolta nell’organizzazione dell’evento, una di noi ha raccontato: «Nel parlare, nel confrontarsi e anche nel discutere, quel gruppo di amici aveva uno sguardo che raramente avevo visto. Era evidente che ciò che li muoveva parlava direttamente al loro cuore tanto da fargli brillare gli occhi. E lo si vedeva in ogni cosa, a partire dalla cura dei particolari».



E ancora: «Se non fosse per una bellezza così grande, nessuno sarebbe stato disposto, per tre mesi, a stare tutti i venerdì sera intorno a un tavolo, per risolvere i problemi che di volta in volta si presentavano». Già qui c’è un accenno di risposta: per scoprire cosa rende la vita vita, bisogna trovare chi la vive già. Perché puoi anche non conoscerne il segreto, ma non puoi non esserne contagiato. «Ad un tratto mi sono ritrovata desiderosa di spendermi anche io per la costruzione del Campus, affinché anche gli altri potessero conoscere ciò che ha saputo prendermi in questi anni di Università. Ma non finiva qui. “Che bello sarebbe tutto così”, ho pensato».

Ha senso costruire il Campus se c’è anche una sola persona che racconta questo: un io cambiato da una bellezza che lo attrae, che prende tutto di sé e lo apre al mondo. Ma il Campus non è solo la ragazza che lo costruisce e si ritrova cambiata: è il ragazzo Erasmus che, curioso, ti riempie di domande; la matricola che si guarda attorno stupita nel vedere una cosa tanto grande; il passante che chiama al telefono l’amico per invitarlo a seguire un incontro. Sono i ragazzini che, increduli nel vedere un campo da calcio in Piazza Puntoni, partecipano entusiasti; la coppia di sposi che, ascoltando la spiegazione della mostra sulla giovinezza, si commuove.

Valerio Capasa, uno dei relatori ha raccontato: «Quando sono arrivato, ho pensato che il Campus è una cosa che rende la vita vita. Uno che fa l’università è abituato a pensarla come la pensano tutti, ma a un certo punto vede che ci sono alcuni studenti come gli altri, che mettono su un evento perché sono appassionati a sé, a quello che studiano, alle persone che incontrano. Ti fai tante domande e ti chiedi: cos’è che rende la loro vita diversa? Sapere che esiste qualcosa come questo è molto più chiaro di quello che possiamo dirci».

A riconferma di questo, un docente universitario, dopo aver cenato con alcuni suoi studenti che hanno realizzato il Campus, ha scritto loro: «L’opportunità di stare assieme e di scambiare opinioni e punti di vista sull’università ha un valore inestimabile e, almeno per quel che mi riguarda, è la prima volta che vedo qualcuno riuscirci, quindi avete tutta la mia stima e gratitudine».

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È soltanto davanti a qualcosa di presente e oggettivo che la domanda del titolo comincia a illuminarsi. La semplificazione di questa dinamica è giunta l’ultima sera con lo scrittore Fahrad Bitani che, intervistato dal giornalista Alessandro Banfi sulle vicende dell’Afghanistan, ha raccontato del suo cambiamento umano. Arrivato in Italia pieno di odio verso gli «infedeli cristiani», ciò che lo ha staccato dalle sue immagini e portato ad una vera conversione – nel senso greco di metà-noia, cambiamento di mentalità – sono state le piccole attenzioni che ha ricevuto: «I piccoli gesti sono ciò che cambiano la storia dell’uomo e sono ciò che hanno cambiato me».

I gesti umani non sarebbero sufficienti se non andassero a rintracciare «quel punto bianco nel cuore», cioè quelle esigenze di bello, vero, buono e giusto che caratterizzano inesorabilmente ciascuno di noi. Fahrad ha raccontato di come la figura di sua mamma sia stata decisiva nel mantenere vivo il suo punto bianco, anche quando la violenza della guerra sembrava rabbuiare tutto.
È soltanto grazie a qualcuno che tiene vivo quel desiderio, che è pronto ad aspettarci senza “se” e senza “ma”, che la vita vale la pena viverla.
Elisabetta e Ida, Bologna