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Se "salvare" gli altri non basta

La decisione di diventare assistente sociale in età adulta e l'occasione di lavorare nei centri d'accoglienza per migranti. Ecco come Serena racconta il rapporto con una bambina afghana e la sua famiglia

Ho deciso di diventare assistente sociale da adulta, partendo dal desiderio di stare con persone che nel lavoro vengono definite “vulnerabili”: bambini, anziani, malati mentali. Non sapevo bene in cosa consistesse questa professione, ma so perfettamente quando ho deciso di farlo: nel settembre del 2015, dopo la morte del piccolo Aylan, il bambino siriano trovato senza vita sulle spiagge della Turchia. Quel fatto ha determinato la mia scelta. Mi sono abilitata e ho accettato il primo lavoro che, per una strana coincidenza, mi è stato offerto: operare nei Centri di accoglienza straordinari con i migranti. Il lavoro con queste persone non te lo insegnano ai tirocini universitari e quasi tutti i miei colleghi più anziani non ne hanno esperienza, così, non sapendo letteralmente dove “mettere le mani”, mi sono data da fare, fidandomi della mia intuizione e chiedendo ogni mattina una cosa: «Signore, rivelati nella mia giornata».

Il primo volto che ho incontrato è stato quello di una bambina afghana di dieci anni che mi ha aperto la porta della sua “casa”, la mattina di un’ispezione della Prefettura. Data l’incredibile somiglianza con mia figlia, mi sono immediatamente legata a lei. E lei a me. La storia che mi ha raccontato, insieme a suo padre, è quella di una famiglia come tante scappata da Kabul e dalla guerra: i talebani con i fucili puntati sono un ricordo vivo che diventa un incubo per i bambini quasi ogni notte. Ho cominciato ad andare in quel centro di accoglienza appena potevo, cercando di liberarmi dagli impegni per insegnare a questa bambina e ai suoi due fratellini un minimo di alfabetizzazione e quindi avviare un percorso di inserimento scolastico. Portavo lettere da colorare, vocali da imparare e un alfabeto da ripetere che era diventato un po’ la nostra canzone. Ogni volta che ci vedevamo era una festa, lei mi regalava un disegno o mi faceva vedere che da sola aveva scritto pagine di parole italiane.

Il giorno che, insieme a suo padre, ho accompagnato a scuola lei e il fratellino mi hanno tenuta per mano e anche se li ho affidati a insegnanti meravigliosi che si sono subito presi a cuore la loro storia, ho sentito verso questi bambini uno struggimento grande. Due giorni dopo, sono tornata per parlare con le insegnanti e loro, a sorpresa, mi hanno fatto entrare nella classe della bambina che vedendomi si è alzata dalla sedia ed è corsa ad abbracciarmi. Siamo rimaste abbracciate per un bel po’, ed era così palpabile la sua e la mia gioia di fronte a quella vittoria (la scuola, finalmente, dopo due mesi che erano in Italia!) che io mi sono commossa. E anche lei.

Ma questo struggimento continua, anche quando li vedo felici, e non mi basta risolvere i loro problemi. Io li aiuto con il dottore, la scuola, i documenti... Ma mi chiedo: che ne sarà di loro, del loro destino? Cosa sarà di altri quattro fratellini afghani, sordomuti, che vado a visitare settimanalmente e per i quali non so cosa fare? Cosa sono io in questa realtà così dolorosa se non porto la gioia di un incontro?

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Il punto non è “salvare” gli altri, ma cercare il Signore ogni giorno, chiedere la sua Presenza perché è così che si rivela: negli occhi grandi e spalancati di una bambina di dieci anni.
Serena, Arezzo