Don Roberto Marchesoni con Giovanni Paolo II e don Giussani

Roberto Marchesoni. Un padre tra le Dolomiti

È morto il 3 febbraio il sacerdote trentino amico di don Giussani. Una vita avventurosa, iniziata con un incontro su un sentiero di montagna. I suoi amici lo ricordano per «riconoscerne l'appassionata paternità»

«Dai frutti li riconoscerete», ci ha avvertito Gesù. E noi questi frutti li possiamo contemplare commossi oggi: la grandezza di un uomo splende ancor più alla fine della sua vita, come stiamo vedendo e toccando dopo la morte di don Roberto Marchesoni, avvenuta il 3 febbraio scorso.
Tutti conoscevamo la sua vita avventurosa, spesa tra Montagne del Trentino, Bassa Milanese, Triveneto, Calabria, Kosovo, Polonia, Albania, Brasile, Terra Santa, Isola d’Elba… per citare le tappe più significative. Tuttavia siamo rimasti stupiti dalla numerosa e intensa partecipazione di tanti, e da tanti luoghi anche lontani (qualcuno giunto apposta perfino dal Camerun), per celebrarne non la morte, ma la vita, e riconoscerne la forte e appassionata paternità.
Il fulcro della sua vita è stato l’avvenimento dell’incontro con don Giussani. Lui, giovane prete ventisettenne, lo conobbe in modo imprevedibile durante una vacanza estiva. Così lo racconta in un suo appunto autobiografico:

«Era il 16 luglio verso le 11 del mattino, quando scendendo al rifugio Selvata (nelle Dolomiti di Brenta, ndr) incontro una compagnia di giovani studenti che stavano dividendosi in gruppi per andare al rifugio Mandrone. Molti di loro scelsero di restare alla base. Un momento di preghiera comune, che era un salmo recitato in uno strano modo (in tono retto), ma con molta attenzione. Io li osservavo un po’ stupito. Stavo per ritornare al campo quando uno di loro mi chiese dove erano le cascate del Nardis. Mi accorsi della difficoltà che aveva nel parlare: aveva una balbuzie imbarazzante. Feci un pezzo di strada con loro.
Mi presentai come un prete assistente degli studenti di Rovereto; lui mi disse il suo nome. Nonostante l’evidente difficoltà di parlare mi chiese se conoscessi Gioventù Studentesca di Milano. Gli risposi di no. Mi chiese pure se conoscessi don Luigi Giussani: altra risposta negativa. Allora aggiunse: «Noi siamo con lui all’albergo Panorama di Madonna di Campiglio. Domani siamo a casa tutti. Parlo con lui e forse potete incontrarvi».
Ci demmo appuntamento telefonico: non potevo rifiutare. Il giorno dopo ero al loro albergo. Incominciava il tramonto sul Brenta quando arrivammo sulla terrazza dove c’erano 200 studenti milanesi. Sentivo una voce roca che invitava al silenzio: tutti obbedirono di colpo. Poi un canto: “Gerusalemme, oh la mia gioia …”. Tutti cantavano concentrati. Poi don Giussani parlò del cammino dell’uomo e della bellezza. Un attimo di silenzio e alla fine l’invito a dire un Padre nostro con il cuore, con l’intelligenza e con il corpo. Pregarono in una maniera tale che io rimasi molto stupito, perché non avevo mai visto una cosa simile. L’incontro finì con questa preghiera. Durante la cena don Giussani volle sapere della mia esperienza con i giovani: mi fece parlare a lungo e ogni tanto esplodeva entusiasta. Mi presentò a tutti i ragazzi e ci lasciammo con un abbraccio e un “tubighi”, una specie di grido degli indios del Brasile, dove loro avevano degli amici in missione.»

Continua l’appunto di don Roberto:

«Ritornai in Val di Genova, provai a dormire, ma facevo fatica a prendere sonno. Non potevo staccarmi dal rivedere i particolari di quell’Incontro. Una impressione strana, ma forte, come di fronte a qualcosa di eccezionale che ti suscita stupore e simpatia.
Sempre accompagnato da qualcuno dei miei ogni giorno scendevo a Campiglio. Partecipavo ai giochi, alle messe, ai canti, all’ascolto della musica classica spiegata da don Padovani. Comprai i primi libri (…). Il linguaggio era un po’ difficile, ma avevo davanti e partecipavo ad una esperienza viva. Stando con loro lo stupore iniziale era un giudizio, che era come una colla. Un giudizio che incollava tutti a Lui. Tutti i giorni che passavano aggiungevano “manate di colla” e non potevi più liberartene. Come per Pietro: “Se andiamo via da Te, dove andiamo?”. Anche Pietro era un peccatore, tanto che Gesù lo chiama “Figlio di Satana”, eppure non smette di guardarlo con una tenerezza infinita.
Quando ci salutammo alla fine della vacanza avevo in tasca molti indirizzi di Milano, con l’invito all'incontro di Varigotti che era la “tre giorni” - in settembre - di preparazione per l’inizio della scuola. Fu l’inizio entusiasta di un laboratorio di vita cristiana dal ’63 al ’66 a Rovereto.
Iniziato l’anno scolastico radunai tutti i miei studenti e incominciai a raccontare l’incontro, che mi era capitato durante l’estate. I ragazzi rimasero molto colpiti. In loro esistevano ancora brani di tradizione cristiana, unita ad una attesa di qualcosa di nuovo; quell’incontro fu come una scintilla di novità. Io sentivo la necessità di una compagnia più adulta: cominciai i miei pellegrinaggi settimanali Rovereto-Milano. Conobbi, oltre don Giussani, altre persone di autorità indiscussa, altri sacerdoti, il suo vice don Giovanni Padovani, don Pino de Bernardis di Chiavari, don Francesco Ricci di Forlì e don Francesco (Ciccio) Ventorino di Catania».

Don Giussani (in basso a sinistra) a Madonna di Campiglio

Da questo seme è nata una lunga storia, grazie alla travolgente e affettivamente intensa umanità di don Roberto, preoccupato solo di dare gloria e testimonianza alla gloria umana di Cristo. In moltissimi - oltre ad incontrare, attraverso il carisma di don Giussani, Cristo vivo, presente e permanente nella Chiesa -, hanno imparato da lui ad andare in montagna, a sciare, a pattinare sulle montagne del Trentino, a nuotare e fare immersioni all’Isola d’Elba durante vacanze memorabili di giovani lavoratori.
Subito dopo la morte di don Roberto, a noi che eravamo riuniti intorno a lui, il suo vicino di stanza, don Mario Damaggio, sacerdote di 97 anni, ha detto commosso: «Sono venuto qui per morire dieci anni fa e sono ancora qui, ma vorrei morire come lui, circondato da tanta cura e da tanti amici».
Molti, che l’hanno conosciuto e seguito, hanno lasciato un ricordo personale, di cui qui ne riportiamo alcuni.
Morena, Carlo, Paolo

Quante persone ci stanno in una 500? A Rovereto, fine Anni Sessanta, si stava anche 5 dietro e 3 davanti! Riuscite ad immaginare il groviglio di corpi nella 500 di don Roberto, mentre ci portava a “vivere” la caritativa? Talvolta il don estraeva perfino l’asta delle marce per far posto ad un ginocchio. Per un 18enne come me, cresciuto in una morale fondata su regole da rispettare, era un’esperienza stupefacente. Ma perché ho scelto questo piccolissimo episodio per ricordare l’amicizia con don Roberto? Non potevo scegliere, ad esempio, il provocatorio “vieni e vedi”, rivoltomi dopo una Messa, oppure l’esperienza in Calabria, con quello stimolo costante a giudicare ciò che si viveva? Ho preferito scegliere la mitica 500 perché era un chiaro esempio di come ti sentivi coinvolto nell’entusiasmo per Cristo che don Roberto, per lui rinnovato nell'incontro con Giussani. Era proprio la prova “provata” che la Chiesa «non cresce per proselitismo, ma per attrazione», come dice Benedetto XVI.
Sandro

La dipartita di don Roberto mi ha portata, come immagino sia accaduto a molti tra noi, a rivedere come in filigrana tanti pezzi di vita “partecipati” con lui. Sono tornata con la memoria all'incontro iniziale. Liceo Rosmini, Rovereto. Le sue domande brucianti poste in classe! L’invito a una vacanza invernale… E qui subito il primo giorno, sciando, mi fratturo un malleolo: gesso! E chi lo dice a casa? Mio padre contro la Chiesa, contro i preti, contro il fatto che sono andata via con un gruppo guidato da un prete… Don Roberto e don Romano, finita la vacanza mi accompagnano a casa e lo affrontano... Poi per i 30 giorni in cui rimango ingessata, ogni giorno, don Roberto mi viene a prendere a casa per portarmi a scuola e così pure per riportarmi. Se lui non può trova sempre qualcuno che lo faccia al posto suo. Chi ero io? Una sconosciuta ragazzina, ombrosa ed estranea incrociata in un’aula di scuola qualche giorno prima. Questa l’apparenza più immediata certo. Non per lui, però, che ha saputo con immediatezza sradicare e buttare via “la tenda dell’apparenza” per dedicarsi anche a quella ragazzina estranea. Questa sua gratuità vissuta mi si mostra oggi in tutta la sua grandezza. Fin da subito ha saputo amare il mio destino e così, nel tempo, anche attraverso la sua voce, il suo volto, la sua compagnia, a me è stato dato di conoscere il “volto buono del Mistero”.
Cinzia

Caro don Roberto, lo scorso Natale sono venuto a trovarti accompagnato da mio figlio che voleva salutarti. Un breve spazio di tempo dove lui, guardando le fotografie appese nella tua sala, quelle del santo Giovanni Paolo II sull’Adamello e della terrazza dell’hotel Panorama di Madonna di Campiglio, ti ha chiesto del tuo incontro con Giussani. Mentre gli raccontavi di quello che ti aveva colpito, dell’accento con cui parlava e del modo con cui avevate recitato assieme il Padre Nostro, con un’intensità mai vista, ho avuto un sussulto perché mi è tornato alla memoria il mio primo incontro con te. Era l’inverno del ‘73, mi sembra di viverlo adesso, eravamo alla vacanza di GS a Castel Tesino e don Romano ha richiamato la nostra attenzione sul tuo arrivo dicendoci «ecco un nostro grande amico che arriva dal Friuli ed è venuto a salutarci», tu ci hai guardati con simpatia e ci hai detto «ora recitiamo il Padre Nostro, pensando alle parole che diciamo». È stata la prima volta che ho preso coscienza di cosa accadeva in quelle parole. Davanti a te e mio figlio non ho potuto non commuovermi di come quella sera di molti anni fa a Castel Tesino hai fatto riaccadere dentro di me lo stesso stupore che aveva scosso la tua vita molti anni prima, permettendo che cambiasse anche la mia.
Carlo