La guerra, Ungaretti e i miei alunni
Fare lezione di Letteratura e poi vedere in tv l'invasione dell'Ucraina. Ma sono le lacrime di una allieva dal cognome dell'Est a rendere reale quel che succede. La lettera di una profCessate d’uccidere i morti è il verso che apre una lirica famosa di Ungaretti, scritta alla fine della Seconda Guerra mondiale. È il monito del poeta a non sprecare l’insegnamento che l’uomo può trarre dalla storia. Leggo il componimento perché è nel manuale adottato dalla scuola in cui insegno per le seconde liceo. Lo propongo in classe e lo spiego facendo mia un po’ di retorica, che sembra inevitabile quando si affrontano certe pagine di storia. È metà febbraio e le immagini crude che popolano le poesie di Ungaretti colpiscono, ma sono lontane: la bocca digrignata del milite straziato e i brandelli di muro dopo il bombardamento di San Martino del Carso a tratti impressionano, ma perdono di concretezza nell’immaginario di chi, come me e i miei alunni, le guerre le ha sempre solo lette sulle pagine dei libri.
È fine febbraio: una settimana dopo, Putin invade l’Ucraina. Il fatto colpisce, ma entro in classe come prima, fino a quando mi capita di incontrare sulle scale della scuola una alunna a cui avevo letto quelle poesie. Ha il cognome straniero, dell’Est, letto tante volte sul registro senza chiedermi mai da dove provenisse. Vedo che piange, accompagnata da due amiche. Cerco di capirne il motivo: mi racconta agitata che la mattina presto aveva sentito i parenti che vivono in Ucraina e che le hanno raccontato cosa sta accadendo. Come si sta davanti a una ragazzina per cui quelle notizie di cronaca diventano per lei fatti famigliari e concreti? Non ho saputo dirle nulla, anzi ho provato quasi imbarazzo per il mio silenzio, ma ricordo anche di averle quasi “invidiate” quelle lacrime: chissà con quale coscienza e con quali domande lei sarebbe tornata a leggere certe pagine di scuola.
Lo stesso giorno, incontro altri due ragazzini: non sono miei alunni, ma, per la simpatia che mi hanno da subito ispirato, li ho conosciuti all’inizio dell’anno e, da quel momento, in ogni occasione, mi raccontano qualcosa di loro. Sono di nazionalità egiziana e russa. Anche stare davanti a loro non mi lascia serena. Il primo vorrebbe organizzare qualche iniziativa per raccogliere dei fondi per la gente dell’Ucraina e chiede il mio aiuto. Me lo propone con una semplicità entusiasta che supera la misura del mio sentirmi sproporzionata. Gli rispondo qualche parola sbrigativa e con un sorriso, a metà tra lo scetticismo e la sorpresa; ma ho invidiato profondamente anche il suo slancio, perché espressione pura di un desiderio vivo in lui che risponde alle circostanze senza sottrarsi per la paura di non essere “abbastanza”.
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L’inquietudine che ho provato mi accompagna: entrando a fare lezione posso tornare a fare poesia e grammatica come prima? Da quell’incontro sulle scale, fa capolino in me il desiderio timido che anche il mio lavoro e il modo in cui lo faccio possa non essere estraneo alle ferite dell’uomo, senza doverle ignorare perché sproporzionate rispetto ad ogni nostro tentativo di affrontarle.
Lettera firmata