Tra le vie di Forlì

Alluvione. Se il cuore riemerge dal fango

C'è Giacomo, neolaureato, che è andato ad aiutare tra le vie devastate di Forlì. E c'è una mamma romagnola che si mette a far dolci per raccogliere fondi per chi ha perso tutto. I loro racconti

L'origine salda
Dopo anni stupendi in università, il 4 maggio è arrivata “la mia ora”: mi sono laureato in Ingegneria in Bovisa a Milano. Quella giornata è stata come fare un punto sulla mia vita: c’erano la mia famiglia, i miei amici di Reggio Emilia, la mia morosa, la mia comunità… era commovente vedere tutto il cammino fatto e accorgersi di una gratitudine che prendeva me e le persone a me care. Anche l’anno scorso ho vissuto un momento simile, quando ho lasciato la responsabilità della comunità ad un altro ragazzo per potermi concentrare sulla tesi.
Dopo entrambi questi momenti di gioia, mi è stato donato di mettere concretamente alla prova la mia gratitudine. Infatti, l’anno scorso, era sorta l’esigenza di andare in Polonia a prendere alcuni profughi ucraini. E quest’anno la mia gratitudine si è dovuta scontrare con un fatto tragico: mentre noi neolaureati ci approcciavamo al mondo del lavoro, alla stesura del curriculum e ai primi colloqui, in Romagna molte persone perdevano tutto a causa dell’alluvione.
Un messaggio dalla comunità di Reggio Emilia, inoltratomi da mio papà, evidenziava la necessità di aiuto concreto e immediato. Non c’è stato bisogno di pensarci più di tanto, e con altri due amici neolaureati abbiamo deciso di andare ad aiutare.
Il piano era semplice: il quartier generale sarebbe stata casa mia a Reggio Emilia, e per due giorni avremmo fatto avanti e indietro da Forlì, insieme ad un altro amico che si era aggiunto. Così, caricate pale e stivali, siamo partiti.
Lungo l’autostrada non si vedevano grandi disastri e appena usciti la situazione era quasi normale. Ma scesi dalla rampa della tangenziale di Forlì, il paesaggio è cambiato completamente: tutto era coperto da uno strato di fango più o meno spesso e il colore predominante era un grigio-beige “ipnotizzante”. La polvere alzata dai camion rendeva l’aria difficile da respirare sulle strade più trafficate. Infatti, camion, ruspe e uomini lavoravano freneticamente come formiche, accatastando mobili ai bordi delle strade o spalando il fango. Quel cambio repentino di paesaggio è stata la prima cosa che mi ha colpito: una via poteva essere completamente distrutta, mentre qualche chilometro più avanti la furia dell’acqua aveva risparmiato dalla devastazione.
La prima che abbiamo aiutato è stata Roby, una signora sulla cinquantina che viveva con sette cani nel quartiere “Cava”. Nomen omen. Il quartiere, infatti, è in una sorta di buco, a ridosso di un canale, che esondando era arrivato fino al primo piano. Roby aveva, appunto, perso ogni cosa. Il nostro compito era svuotarle la casa e accumulare tutto a bordo strada. Un lavoro ingrato: dover buttare da una finestra tutto quello che una persona ha accumulato in una vita, ma farlo sotto i suoi occhi era ancora peggio. Ogni qual volta trovavamo qualcosa che non fosse particolarmente corrotto dal fango le chiedevamo cosa volesse farne. Ma la risposta era sempre la stessa: «Buttate via tutto. Non voglio vedere più nulla». Quelle parole erano una pugnalata, ma capivamo che non aveva senso stare a discutere in quel momento. Abbiamo solo messo da parte alcune foto, delegando a lei la decisione finale. Con grande sorpresa da un certo momento, ha iniziato a salvare alcune cose. Verso la fine della giornata ci siamo congedati. Prima di salutarci, ci ha chiesto da dove venissimo e sorridendo ci ha detto: «Alla fine, delle cose materiali non me ne frega niente, quello che conta sono i rapporti con le persone». Tornati a casa, lavati e rifocillati a dovere dalla cena della mamma, ci siamo addormentati alle dieci, come forse non accadeva da quando eravamo alle elementari.
Il giorno dopo, abbiamo aiutato una famiglia del movimento. Genitori, figli e nonni vivevano in un complesso di due casette nella campagna forlivese. Lì il fango copriva il piano terra, ma non c’era più acqua e in alcune zone cominciava a seccare. Il lavoro consisteva nello spalare e accatastare oggetti. La sorpresa della giornata è stata che, ad un certo punto, è comparso inaspettatamente Davide Prosperi, che era a Forlì per incontrare le persone e farsi un’idea dei danni. Il papà della famiglia ci ha chiesto se per noi era un problema se si allontanava per andare a pranzo con Davide e ad altre persone della comunità. A me e ai miei amici in quel momento è risultato chiaro, ricordando anche gli anni in università, che per stare di fronte a quella tragedia ci voleva un’origine salda a cui costantemente attingere e che in quel momento per lui e per noi consisteva nel fatto che lui andasse a quel pranzo. Al suo ritorno il lavoro è proseguito, con le stesse difficoltà della mattina, ma con una gratitudine che ci ha accompagnati fino a quando ci siamo salutati.
Nessuno di noi si sarebbe aspettato le parole di Roby, sotto uno strato di fango più o meno spesso, anche nel suo cuore si annidava lo stesso desiderio di amare ed essere amata che prendeva noi. Affinché però quel desiderio non si ricopra di fango, o anche solo per “spalarlo via” quando ne fosse coperto, è necessaria una strada e una compagnia che ci accompagni, come ci ha ricordato il nostro amico chiedendoci di andare a quel pranzo. E come abbiamo visto noi in questi anni in Bovisa.
Giacomo, Reggio Emilia



La ciambella per gli alluvionati
Pochi giorni dopo l’alluvione, una mattina riflettevo su come Rimini, dove abito da ormai più di trent’anni, fosse stata solo sfiorata dalla tragedia, che invece aveva devastato le città vicine. Proprio quella mattina mio figlio era partito alla volta di Forlì con un gruppo di amici per spalare e dare una mano. Questo fatto mi interrogava su cosa avrei potuto fare io per aiutare. La mia età e la mia salute però mi imponevano di essere prudente e spalare il fango non era certo la cosa migliore per me. Mi sono chiesta: «Qual è la mia specialità? Come potrei io, con quello che so fare, essere di aiuto ai miei fratelli alluvionati?». La risposta è stata immediata: «La mia specialità è cucinare! Come posso fare sì che questo sia di aiuto a qualcuno?».
Ho iniziato a preparare dei filoni di ciambella romagnola, che è uno dei dolci caratteristici di questa zona, e a proporli ad amici e conoscenti. In cambio chiedevo un’offerta destinata agli alluvionati. Ho fatto girare la proposta sui canali social. In pochi giorni la mia casa si è trasformata in una piccola pasticceria. Lavorando tre giorni a settimana non potevo dedicarmi a tempo pieno a questo progetto, però in tutti i momenti liberi sfornavo ciambelle.
Quello che mi ha veramente stupito è stata la generosità delle persone e in quattro giorni ho venduto circa 60 filoni. Una risposta assolutamente inaspettata.
Poi un’altra sorpresa. Alcuni amici mi hanno suggerito di proporre l’iniziativa alla festa delle scuole Karis dove hanno studiato, e ancora studiano, i miei figli. Ma come organizzare e preparare da sola una cosa del genere? Con tutta la mia buona volontà non ce l’avrei fatta. Allora ho iniziato a coinvolgere prima un'amica, che lavora a scuola, e poi altre. E così alla festa siamo riuscite a vendere ben 80 filoni di “ciambella solidale”. Mi sono accorta come da soli il nostro contributo è poca cosa, ma insieme si possono fare miracoli.
Una grande emozione mi ha preso nel vedere tante persone donare con generosità quel poco o quel tanto che potevano, ma sempre con il cuore. Io mi sento di aver fatto davvero poco, di aver solo seguito un’ispirazione che sicuramente non veniva da me. Ma Qualcuno ha preso sul serio la disponibilità mia e di tutte le amiche che hanno aiutato e l’ha trasformata in qualcosa di più grande.
Una mamma riminese