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Da un "errore" all'unico bene

La cameretta per il bimbo in arrivo era pronta, ma un imprevisto cambia tutto. Così una coppia in attesa, dopo due anni e la prospettiva di un’adozione, scopre qual è il vero bisogno

Nell’ultimo periodo ho potuto comprendere in una circostanza particolarmente drammatica che cosa sia la compagnia del Mistero. Io e mia moglie abbiamo intrapreso da due anni il percorso per l’adozione. Siamo arrivati a questa decisione sereni, certi, in forza di tutto quello che abbiamo vissuto nella nostra esperienza e storia: anche nelle apparenti avversità, abbiamo sempre potuto non solo “respirare” ma gustare la presenza del Signore, in forme impreviste.

Nell’affrontare l’odiosa prassi della check list per l’adozione (consenso a eventuali problemi sanitari, psico-sociali...) abbiamo dato una disponibilità piuttosto ampia. La sola condizione che abbiamo posto è che non avremmo accettato un affido temporaneo. Così ci siamo lanciati sulla strada dell’adozione internazionale. Finché non è arrivata la chiamata inattesa dal Tribunale per i minori della nostra città.

«La giudice vi ha selezionato per un bambino. Vi attendiamo lunedì». Con timore e tremore andiamo all’audizione. La giudice ci spiega il caso. Il bambino ha quattro anni, viene dall’Africa, vive in comunità, non ha un papà e, da quasi un anno, nemmeno una mamma. Ci viene poi detto che è, sì, un affido temporaneo, ma che sicuramente in tempi brevi si trasformerà in adozione. «Preparatevi, perché lo conoscerete tra pochi giorni e presto verrà a vivere con voi». Con il cuore pieno di gioia, accettiamo. Ci dicono il suo nome ed è lo stesso che da sempre avremmo scelto per un nostro figlio naturale. Torniamo a casa grati.

Nei giorni seguenti, attendiamo la chiamata della comunità. Iniziamo a fare posto nel nostro cuore e nella nostra casa. Compriamo la cameretta, insieme a tutto il necessario… Siamo “pronti”, ma la chiamata non arriva. Diciotto giorni di silenzio, poi finalmente la convocazione dei servizi sociali. E la notizia raggelante: si è trattato di un “errore” nell’aggiornamento del fascicolo. La madre del bambino c’è ed è idonea. «A questo punto», ci viene detto, «venire con voi potrebbe essere traumatico, ma se volete…». Noi fermiamo tutto. Con il cuore a pezzi, diciamo: «L’unica cosa che noi vogliamo è il bene di questo bimbo. Lui è entrato a far parte della nostra vita. Voi dovete capire qual è il bene per lui. Noi siamo disponibili ad aiutarlo, e se serve anche ad aiutare la madre, in qualsiasi forma». Le operatrici, molto preoccupate per la nostra reazione e una possibile denuncia, restano attonite. Dopo alcuni istanti di silenzio, ci dicono: «Grazie. Quello che state facendo non è da tutti».

Io e mia moglie entriamo in macchina. Sorpresi dalla nostra stessa reazione, ci viene in mente la coscienza che ha san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». Da quel giorno è iniziato un periodo di caos tra le varie istituzioni, in cui ci siamo trovati per forza coinvolti. Ma sono stati mesi “benedetti”. Nella lacerazione del cuore e in un’apparente disperazione, stiamo assaporando di più il “senso” delle cose.

Immergendoci in questa situazione senza censurare nulla, abbiamo fatto da subito esperienza di come questa sia la strada per poter conoscere di più l’Unico che può rispondere al nostro grido di compiutezza. Infatti non c’è un libretto di istruzioni. Non c’è la frase che ti acquieta, la soluzione che ti appaga: è meglio che ora il bimbo venga con noi o vada con la madre? Di cosa ha bisogno? Rispondere con una “soluzione” o l’altra genera solo solitudine. Ma di cosa abbia “veramente” bisogno, invece, iniziamo a intuirlo. Perché è la stessa cosa di cui abbiamo bisogno noi: che Uno si prenda cura di noi e, strappandoci dal nulla, ci salvi. Che occasione per riscoprirlo! Guardare a un bimbo che aspetta di poter abbracciare un papà e una mamma ci ha reso più consapevoli della carnalità della nostra esigenza originale: siamo dipendenza e siamo rapporto. E questo è vitale anzitutto per noi. Senza un Padre che ci genera ora, quale “cura” potremmo offrire?

Ad oggi abbiamo iniziato a frequentare il bimbo e stiamo aspettando che venga in affido. Non sappiamo cosa accadrà, ma siamo grati di quello che stiamo già vivendo e imparando. Ne Il senso religioso don Giussani dice: «La religione è sì ciò che l'uomo fa nella sua solitudine, ma è anche ciò in cui scopre la sua essenziale compagnia. Tale compagnia è poi più originale della solitudine, in quanto quella struttura di domanda non è generata da un mio volere, mi è data. Perciò prima della solitudine sta la compagnia». E poi: «Solo l’ipotesi di Dio, solo l’affermazione del mistero come realtà esistente oltre la nostra capacità di ricognizione corrisponde alla struttura originale dell’uomo». Soltanto la Sua compagnia: come si spiegherebbe altrimenti la letizia che ci siamo trovati addosso e che ci ha consentito di vivere e lavorare più intensamente che mai? Ed è la Sua compagnia a permetterci di capire il senso della nostra piccola, e quantomai sgangherata, compagnia.

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Questa «realtà esistente oltre la nostra capacità di ricognizione» non è fuori dalla realtà. È possibile viverla immergendoci nel reale, dove «quelli che sono presi da Lui» costituiscono il segno tangibile della Sua resurrezione ora. Allora finiscono anche le false immagini e le pretese. La compagnia vale non per quello che fa (cosa può fare in una situazione così?). La compagnia vale, e varrà sempre, per quello che è: un promemoria, non ideale, ma visibile, di quale sia la nostra consistenza e il nostro Destino. Un Destino buono non al di là delle circostanze, ma dentro le circostanze.
Vincenzo