Don Stefano Alberto.

TERRA SANTA
Il realismo di Benedetto XVI

Il Papa ha chiesto più volte la fine delle ostilità nella Striscia di Gaza. In un articolo sul Riformista, don Stefano Alberto spiega perché quello del Pontefice è «un giudizio storico carico di ragionevolezza»
Stefano Alberto

In questi giorni con la guerra nella Striscia di Gaza è entrata nei nostri cuori anche la terribile evidenza che essa è destinata, ancora una volta come gli innumerevoli conflitti che insanguinano da decenni la Terra Santa, a non risolvere i gravissimi problemi di quella regione. Lo sgomento e il senso di impotenza crescono di fronte alle morti innocenti, alle sofferenze delle popolazioni civili, alla mostruosa ideologia fondamentalista di Hamas, che punta esplicitamente alla distruzione dello Stato di Israele e che, violando la tregua con continui lanci di razzi, ha provocato la reazione di Israele con la forza militare.
«Una volta di più, vorrei ripetere che l’opzione militare non è una soluzione e che la violenza, da qualunque parte essa provenga e qualsiasi forma assuma, va condannata fermamente. Auspico che, con l’impegno determinante della comunità internazionale, la tregua nella striscia di Gaza sia rimessa in vigore - ciò che è indispensabile per ridare condizioni di vita accettabili alla popolazione - e che siano rilanciati i negoziati di pace rinunciando all’odio, alle provocazioni e all’uso delle armi» (Discorso di Benedetto XVI al Corpo diplomatico, 8 gennaio 2009).
La voce del Papa che, instancabile, si è più volte levata di fronte a questo nuovo conflitto in Terra Santa, è stata da molti formalmente accolta con rispetto quale altissimo richiamo spirituale e morale, ma sostanzialmente ricondotta a un “pacifismo” di principio, senza possibilità di reale incidenza concreta. Anzi, non sono mancate le voci di chi rimprovera alla Chiesa ambiguità e indecisione nel (non) difendere, con Israele, i valori di democrazia e libertà della civiltà occidentale, minacciati dal crescente fondamentalismo islamico, radice ideologica di un terrorismo cieco e devastante. Ai ripetuti moniti di Benedetto XVI sembra così riservata la stessa sorte di quelli di Giovanni Paolo II in occasione delle guerre in Iraq.
Al contrario, noi guardiamo all’insegnamento del Papa non appena come richiamo ideale e spirituale, ma come giudizio storico carico di ragionevolezza e di realismo.
Esiste una guerra “giusta”, nelle condizioni attuali? Il diritto-dovere della legittima difesa può implicare l’uso della forza, ma la responsabilità dei governanti, secondo la tradizionale dottrina cattolica, deve rispondere ad alcune rigorose condizioni: che il danno causato dall’aggressore sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, 2309). Si può prescindere da queste condizioni nel valutare la necessità e la proporzionalità dell’opzione militare proprio di fronte alle nuove terribili minacce, che nascono dall’odio assoluto e dall’estendersi sistematico della pratica terroristica propria di Hamas? Si può vincere la guerra e si può sempre perdere la pace, quella pace che Israele e la grandissima maggioranza del popolo palestinese vivamente desiderano.
Il Papa, sempre l’8 gennaio, ha ricordato che a una «difficile, ma indispensabile riconciliazione» non si potrà giungere «senza adottare un approccio globale ai problemi di quei Paesi, nel rispetto delle aspirazioni e degli interessi legittimi di tutte le popolazioni coinvolte». E ha ancora indicato come l’arduo cammino passi anche attraverso il dialogo tra Siria e Israele, il consolidarsi in atto delle istituzioni in Libano, la lentissima ripresa della democrazia in Iraq, la necessaria soluzione diplomatica della delicatissima controversia sul programma nucleare iraniano.
Di fronte alla complessità degli scenari e alla tragicità degli eventi, la tentazione più grande è la disperazione senza futuro, che porta a censurare il grido e le aspirazioni del cuore a una pace duratura e a una convivenza dignitosa, non riconoscendo i germogli di speranza già presenti. La persona del Papa e il suo insegnamento sono uno di questi, insieme alla presenza e alle opere di tanti uomini di buona volontà - cristiani, ebrei, musulmani - in Terra Santa e non solo.
La terribile situazione attuale, con le sue scarse vie d’uscita, quasi obbliga a riconoscere che la pace è impossibile all’uomo, se non la riconosce come dono di Dio. La pace va domandata e i suoi germogli coltivati nell’opera della propria vita, così che qualunque cosa si pensi o si faccia, la speranza non venga meno.
(Da Il riformista, 18 gennaio 2009)