Sogni o ideale?

PRIMO PIANO - EUROPA E DIRITTI
Davide Perillo

Dall’uguaglianza alla “non discriminazione”. Dalla libertà all’autodeterminazione. E poi i soldi, il lavoro, la famiglia... Così un’istituzione in crisi (economica e politica) sta guadagnando sempre più peso nelle nostre vite. In nome di valori astratti imposti alla realtà. Mentre si avvicinano le elezioni, MARTA CARTABIA ci spiega perché a Bruxelles c’è in gioco qualcosa che ci riguarda tutti

Mettiamola così: il primo equivoco sta nelle nostre teste. E capita spesso. Leggi “Ue”, o “Bruxelles”, o “Europarlamento”, e pensi subito che si tratti di astrazioni. Roba complessa e da addetti ai lavori, insomma. D’accordo, c’è l’euro. La libera circolazione tra gli Stati. La bandiera azzurra con le stelle. Ma alzi la mano chi pensa che, viaggi o moneta a parte, l’Europa pesi sulle nostre vite quotidiane più delle scelte che si fanno a Roma, o a Milano, o nel consiglio comunale di casa nostra. E invece… «Invece i dati dicono che su 100 leggi pubblicate in Gazzetta Ufficiale, ormai 78 sono esecuzioni di normative europee», spiega Marta Cartabia, docente di Diritto costituzionale all’Università di Milano-Bicocca e grande studiosa della legislazione continentale. «Su questioni fondamentali come la politica economica e il lavoro, ma anche la famiglia, la vita, l’educazione, ormai l’Unione conta come e più dei singoli Stati». Aggiungeteci che in molti casi il diritto europeo è applicato direttamente dai nostri giudici (“il caso Englaro è infarcito di richiami a convenzioni e a sentenze di corti europee e internazionali”) e che sempre più spesso il Parlamento europeo ficca il naso nei corpi sociali (ultimo caso: la risoluzione del 14 gennaio scorso, che mette nel mirino le cosiddette “istituzioni chiuse” perché potenzialmente discriminatorie) e la conclusione è semplice: dall’Europa, in un modo o nell’altro, passano principi che poi pesano eccome, quando si deve decidere se riconoscere le coppie di fatto, introdurre l’eutanasia o tenere i crocefissi a scuola.
Così, a cento giorni dalle elezioni, parlare di Europa e diritti è un’occasione per capire meglio cosa c’è in gioco. Anche perché se ne parla poco. Troppo poco. «È curioso vedere come nel dibattito politico e nei media l’Europa sia completamente assente. Si discute solo delle cose di casa nostra, come non dipendessero da Bruxelles. La politica economica, per esempio, in base a cosa è fatta? Ai parametri di Maastricht. Oggi il destino di molte aziende dipenderà dalla Commissione, che può decidere di approvare o meno gli aiuti di stato all’economia. L’Europa conta. E tanto».

Eppure in apparenza non è che goda di buona salute…
In questi anni c’è stata una parabola, un percorso netto. L’Europa dell’integrazione economica, nel tempo, ha imboccato una strada che ora l’ha messa in seria difficoltà. Non solo perché lo tsunami della crisi è arrivato anche qui, ma perché le stesse istituzioni europee, nate per sviluppare la prosperità del Continente negli anni del dopoguerra, hanno scommesso su principi che non stanno tenendo. L’Europa, da Maastricht in poi, ha puntato tutto sul liberismo, sull’apertura dei mercati e la concorrenza; adesso si trova a dover fare retromarcia e affrontare la crisi parlando di aiuti di stato e protezionismo. Ma anche sul versante politico c’è una certa involuzione.

In che senso?
L’idea originaria puntava sul creare un continente pacifico e democratico, dove potesse fiorire la persona umana. Il grande passo in questa direzione doveva essere il Trattato costituzionale. Ma pure lì c’è stata una battuta d’arresto pesante. L’Europa è stata sconfessata da alcuni Stati importanti: prima Francia e Olanda, poi l’Irlanda…

Ma allora perché Bruxelles ha guadagnato tutto questo peso?
Perché in questi cinquant’anni di vita si è sviluppato un grande apparato che si è messo in moto e che va avanti anche se i due pilastri fondamentali, la vita politica e quella economica, sono in difficoltà. È l’Europa delle burocrazie: la Commissione, ma pure tutta la rete di organismi tecnici - la Banca centrale, la Corte di giustizia, le agenzie, i comitati - di cui è persino difficile fare una mappatura. È su questo fronte che l’Europa conta tanto. Non è quella che si erano immaginati i padri fondatori: è un’Europa tecnica che non riguarda, però, solo argomenti tecnici. Perché interviene su terreni che riguardano la vita delle persone.

Quali sono i settori su cui ha maggiore impatto, e perché?
Partiamo da un dato. Questa Europa si è data una missione: agire in nome della cosiddetta non discriminazione. È uno dei fari delle istituzioni comunitarie. Ma è anche una riformulazione di qualcosa di molto più antico e radicato nei popoli: il concetto di “uguaglianza”.

Passaggio lessicale non indolore...
Vero. È una torsione linguistica che nasconde una torsione concettuale molto importante. Il fatto è che quando si parla di antidiscriminazione si tende a una forma di egualitarismo che è cieco rispetto alle differenze. Mentre la tradizione dei Paesi europei è sempre stata quella di unire differenze ed uguaglianze, perché forti di una comune natura umana. “Unita nella diversità”, avrebbe dovuto essere il motto proposto per l’Unione Europea. Tutti gli ordinamenti statali hanno sempre cercato di valorizzare fin dove possibile le differenze, senza farle diventare forma di esclusione. Per l’Europa, invece, la non discriminazione significa trattare tutti allo stesso modo. E questo è un principio che attraversa in modo trasversale tanti settori. Per esempio: in teoria l’Europa non ha competenza in materia di pensioni. Eppure proprio qualche giorno fa la Corte di giustizia, in nome del divieto di discriminazione, ha condannato l’Italia perché permette alle donne di andare in pensione a 60 anni anziché a 65. Si considera paternalistica una legge che voleva farsi carico di una differenza di ruolo sociale. L’antidiscriminazione in Europa ha questa caratteristica: essere cieca alle differenze.

È da qui che nascono molti dei cosiddetti “nuovi diritti”? Penso alle coppie di fatto, ai matrimoni omosessuali, alla battaglia sulle “differenze di genere”…
In un certo senso, sì. Dopo il fronte dell’uguaglianza uomo-donna, si è passati alla questione della differenza di orientamento sessuale. C’è una forte tendenza ad equiparare le coppie omosessuali alle altre, matrimonio compreso. Per esempio, si dice: se alcuni Paesi riconoscono il matrimonio gay, perché un omosessuale che si sposa in Spagna e poi viene in Italia non può vedersi riconosciuto il matrimonio? Il principio di non discriminazione, unito alla libertà di circolazione - che è un caposaldo dell’Unione -, crea una fortissima pressione sulla politica familiare dei vari Stati.

Famiglia a parte, attraverso questi principi si rischia di scardinare anche altri ambiti. Prendiamo la famosa risoluzione del 14 gennaio. Che cosa intende Bruxelles per “istituzioni chiuse”?
Per ora ci sono solo degli accenni, ma sembrerebbe proprio che la prossima frontiera siano gli ambiti di pluralismo sociale. Il ragionamento che si fa è questo: antidiscriminazione significa non trattare le persone in modo diverso in base a politica, religione e orientamenti culturali. La vita sociale, però, è fatta da tanti soggetti che hanno un’identità culturale forte: dalle scuole libere ad altri tipi di istituzioni, Chiesa compresa. Se si applica quel principio a questo tipo di soggetti, nell’ambito di sfere di autonomia privata, il rischio è che così debbano comportarsi secondo orientamenti che negano la loro stessa identità culturale. Insomma, si rischia l’omologazione culturale. E si può arrivare al paradosso di obbligare un’associazione cattolica che opera nel campo delle adozioni a favorire le coppie omosessuali, come è successo in Gran Bretagna. Oppure, caso pendente a Strasburgo, ci si pone il problema se l’Università Cattolica possa allontanare un insegnante che non insegna secondo i principi della Chiesa. Questo significa negare spazi di libertà che invece, per esempio, in una costituzione come la nostra sono valorizzati, perché si guarda alla vita dell’uomo concreto che vive dentro queste situazioni. Il problema è che l’idea di uguaglianza dell’Europa è astratta: prende l’individuo come se fosse privo di legami e di rapporti e, per questo, mortifica gli ambiti dove si svolge concretamente la sua esistenza. Direi che il vizio del principio di non discriminazione, così come inteso in Europa, è una mancanza di realismo.

Ma come si è arrivati a questa concezione? Come si è passati dall’uguaglianza all’antidiscriminazione?
Probabilmente non c’è un unico fattore. Noi stiamo parlando dell’Europa intesa come Unione. Ma in questa impostazione si nota una forte pressione da parte delle organizzazioni non governative che operano in vari ambiti internazionali (Onu, Consiglio d’Europa e via dicendo). Si sono fatte parti attive, hanno fatto lobbying, e hanno trovato terreno vergine in istituzioni che, non avendo visioni proprie, hanno recepito questi orientamenti culturali. Un’Europa politica più forte forse sarebbe più rispettosa di tante tradizioni. Farebbe una resistenza maggiore. Invece si è scelta una via debole, come dimostra anche la vicenda della negazione delle radici cristiane nella Costituzione.

È un altro fronte su cui l’Europa spinge molto: la secolarizzazione.
Vero. Nelle istituzioni comunitarie c’è una forte tendenza alla laicizzazione della politica. È l’idea che le società democratiche sono degne di tale nome solo se confinano il fatto religioso a un ambito puramente privato. Vedi la vicenda del velo in Francia, che proprio l’altro giorno è arrivata a sfiorare il ridicolo: hanno obbligato un sikh a fare la foto della patente senza turbante perché si tratta di un simbolo religioso. Ma anche qui, è stata l’assenza del dibattito pubblico a portare a questo risultato. Tutte queste vicende, dal fine vita al matrimonio omosessuale, al multiculturalismo e via dicendo, sono questioni che premono dalla società. Dove manca una decisione politica, come è successo in Italia nel caso Englaro, non per questo le domande vengono meno. E allora si incanalano davanti ai giudici, nelle aule giudiziarie. Lì una risposta la trovano, in un senso o nell’altro. In assenza della politica, sono altri ambiti a prendere le decisioni. Il declino dell’Europa delle origini ha lasciato spazio a questo fenomeno: l’Europa dei giudici, delle burocrazie e dei diritti. Probabilmente, poi, ha inciso anche l’allargamento, così imponente e indiscriminato: dal 2004 il numero dei Paesi è quasi raddoppiato senza ristrutturare le procedure decisionali. È chiaro che le mediazioni tipiche della politica, le decisioni, gli accordi sono diventati più difficili. Lo si vede benissimo su un altro punto decisivo.

Quale?
L’immigrazione. È una questione che va a toccare la composizione stessa del demos, del popolo. Il paradigma è lo stesso. L’Europa vede negli immigrati, regolari o no, dei soggetti deboli da non discriminare. Attenzione meritevole. Senonché lo strumento con cui viene affrontata è ancora l’egualitarismo. I diritti dei cittadini europei, enfatizzati all’epoca di Maastricht, ora, attraverso una serie di decisioni giurisdizionali, tendono ad essere estesi indistintamente a tutti gli stranieri presenti sul territorio. Dal legame di appartenenza a un popolo si passa all’idea di residenza come ciò che ti rende titolare di diritti.

Anche questa è un’astrazione…
Sì. Non perché ci sia qualcosa di male nell’attenzione allo straniero, chiaro. Ma è in una dinamica di ospitalità, in cui c’è un ospitante e un ospitato, che puoi davvero creare una situazione di accoglienza realistica, compatibile con la tenuta delle nostre società. L’apertura indiscriminata delle frontiere rischia di portare al collasso. Basta guardare a cosa succede in certi centri di accoglienza. Non è un terreno secondario: sono fenomeni che cambiano il volto della società.

Ma questa insistenza sull’antidiscriminazione non le pare una negazione, neanche troppo implicita, della realtà? È la realtà che è fatta di differenze: perché dovremmo averne paura?
Credo che la paura nasca da una debolezza rispetto alla propria identità. Quando una persona, un popolo, un corpo sociale, hanno un’identità chiara, raramente hanno paura a misurarsi con l’altro: sanno che in lui riconoscono qualcosa di comune, che permette di entrare in rapporto. È quando l’identità viene negata che si ha paura di sottolineare le differenze, perché sembra che sottolineandole si voglia allontanare l’altro. Solo che nell’esperienza non è così.

Vuol dire che anche qui siamo di fronte a un caso eclatante di “distacco della ragione dall’esperienza”…
Guardi, l’Europa è nata dall’idea di perdono cristiano. Dopo che erano falliti tanti tentativi di pace basati sulla vendetta, sull’umiliare il nemico, quell’abbraccio alla Germania, quel tenderle la mano dopo gli orrori del nazismo e della Seconda Guerra mondiale attraverso una collaborazione economica, era un’incarnazione del perdono cristiano. Ma ciò era possibile perché i padri fondatori avevano queste idee di accoglienza e solidarietà, come qualcosa di vissuto. Che cosa è successo a un certo punto? Che quella tradizione viva si è trasformata in una serie di valori astratti: l’accoglienza, l’uguaglianza, la solidarietà… Sono diventati valori. E, come scrisse un grande giurista del secolo scorso, i valori tendono ad essere tirannici. Applicati senza tenere conto di tutti i fattori della realtà, diventano assoluti. Dei dittatori di se stessi. Questo è accaduto proprio nel momento in cui quei valori, da esperienze vissute, sono diventati testo: al momento della stesura della Costituzione europea. Sono stati consegnati alla carta scritta con l’idea che non andasse perduto un patrimonio. Ma ridotti a parole, sono diventati preda di un uso distorto della ragione. L’antidiscriminazione ha subito un processo di questo genere. Ma lo stesso è successo all’altro caposaldo dei “nuovi diritti”.

Quale?
L’idea della libertà come autodeterminazione. È un altro cambiamento lessicale che si è sviluppato proprio negli ultimi anni, ma ha matrici più antiche. In campo filosofico risale a molto tempo addietro, ma nel mondo giuridico matura negli anni Sessanta, frutto di un’evoluzione che in America si è formalizzata nel diritto alla privacy: “su questo aspetto decido io”.

La famosa sentenza “Roe versus Wade” che introdusse l’aborto negli Usa…
Esatto. È lì che questo “diritto alla privacy” è stato codificato. Qualcuno ha detto che è nato «nella penombra dei diritti»: non c’era neppure un appiglio testuale. Il principio di autodeterminazione ha avuto un grande appeal e ha fatto velocemente il giro del mondo, perché in fondo pesca in un lato nobile dell’uomo: il desiderio di non essere schiavo. Abbiamo alle spalle una storia in cui bisognava liberare il singolo da uno Stato oppressore. Ma i totalitarismi hanno lasciato un’eredità pesante: per liberarsi dalla loro pesante eredità si è concepita la libertà solo come rifiuto da vincoli esterni. Quando lo Stato tiranno non c’era più, è rimasta l’idea che conti solo la libera decisione dell’uomo. Violentando, anche qui, la realtà, perché la libertà si muove nel dato, nello spazio che il reale gli dà, non contro di essa.
Così si arriva al paradosso: si finisce per negare quello che c’è (il bambino nel grembo, la vita di Eluana) e per rivendicare quello che non c’è come se fosse un diritto, anziché un dono…
E infatti tutto diventa diritto. C’è una proliferazione e una banalizzazione dei diritti: tutto ciò che si desidera deve essere assicurato dallo Stato. Come se la vita o la salute potessero essere oggetto di una pretesa.

Ma in questo distacco dal reale non ci trova i segni di un’irreligiosità di fondo? È una concezione dell’uomo e della realtà che non riconosce il primo dato dell’esperienza: se ci sei, vuol dire che qualcuno ti fa essere, che dipendi da Altro…
Come scrive don Giussani nel Senso religioso, ci sono solo due figure degne dell’umano: o l’anarchico, o l’uomo autenticamente religioso. Una mentalità del genere ha presa perché fa leva su questo bisogno di infinita affermazione dell’uomo. Che ha preso la strada dell’affermazione assoluta di sé, anziché del riconoscimento del legame con l’Assoluto.

A proposito di Senso religioso: non crede che sia proprio il cuore, come lo intende don Giussani, l’unico punto che permetta di rimettere a fuoco libertà e uguaglianza senza sbilanciamenti? Un fattore totalmente tuo, ma al tempo stesso oggettivo, dato; e, insieme, un fattore comune a tutti gli uomini. Glielo chiedo perché se l’Europa è questa, viene da domandarsi da dove si possa ripartire senza impegnarsi in battaglie antistoriche o marciare contro Bruxelles…
È un punto fondamentale. Io credo che si possa provare a ripartire proprio cercando di valorizzare l’impeto buono che si può facilmente riconoscere, pur sotto le ceneri di questa degenerazione culturale: il valore del soggetto. Che cosa c’è dietro questa affermazione ottusa della non discriminazione e dell’autodeterminazione? Il tentativo di affermare il valore dell’individuo. Nessuno intende mettere in discussione il valore dell’individuo, ci mancherebbe. Occorre affermare fino in fondo il valore di ciascun “io”. Ma il fatto è che ogni io è dato. Per questo occorre arrivare a dire, anche in termini politici e giuridici, “io che sei tu”, “io che sei noi”. La strada da percorrere è un approfondimento del punto in cui siamo, un andare a fondo. Non una battaglia “contro”.

Che cosa ci può essere di aiuto in questo?
La risposta non è facile. Però c’è un passaggio del Senso religioso che ci può aiutare: è quello in cui si parla dell’esperienza come fonte di conoscenza. Bene: qui non si tratta di fare la battaglia dei valori cattolici contro i valori laici, ma di ripartire da una capacità conoscitiva. Non è una battaglia etica: è una battaglia di conoscenza. È su questo terreno che c’è ancora una possibilità di incontro anche con chi, in buona fede, per affermare il valore di ogni persona finisce per portare a una società disumana, come dimostra il caso Englaro. Lì il problema non era difendere il valore della vita contro il valore della libertà; era chiedersi “ma noi vogliamo che una persona in carne e ossa, che appartiene alla nostra società, muoia di fame e di sete?”.

Impensabile anche solo come domanda, ai tempi di Schuman e De Gasperi…
Se si riprende la dichiarazione Schuman che ha dato origine al processo di integrazione europea, ci si trovano dentro grandi ideali e grande realismo. Diceva: dobbiamo costruire l’Europa per portare pace e prosperità; ma dobbiamo farlo a piccoli passi, non a tavolino né di colpo. L’idea di Europa era molto bella. Ma si è persa una componente fondamentale: la dimensione incarnata dell’ideale. In Schuman c’era l’ideale dentro l’incarnazione. Tendi a qualcosa di grande, ma passo per passo. Proprio come scrive ancora don Giussani in Si può vivere così?: «L’ideale è la realtà che conquisti pezzo per pezzo, passo per passo; mentre il sogno svanisce, muta…». Ecco, meglio mettere da parte i sogni. E tornare all’ideale.