I detenuti padovani cantano le canzoni napoletane.

PADOVA Quella Presenza che irrompe, anche dietro le sbarre

Un gruppo di milanesi, padovani e napoletani fa visita ai detenuti del carcere di Padova. Tra canti popolari e momenti di festa, ecco come continua l'amicizia nata quella sera, al Meeting...
Benedetta Frigerio

È un sabato di primavera ma il cielo è quello grigio dell’autunno e dei muri della Casa di reclusione di Via Due Palazzi a Padova. Ci sta davanti massiccia e opprimente. Aspettiamo fuori dai cancelli insieme alle famiglie dei detenuti, mamme, papà e bambini che stringono a loro sacchetti stracolmi da portare oltre le sbarre. «Il sabato è giorno di visite», è la voce di Nicola Boscoletto che ci viene incontro e ci porta al di là della “soglia”. Siamo un’ottantina tra milanesi, padovani e napoletani, in visita dopo l’amicizia nata con i carcerati venuti al Meeting di Rimini 2008. Prima di entrare, però, dobbiamo consegnare i nostri effetti personali e in cambio riceviamo un tesserino da mettere al collo, su cui, al posto del nome, appare una cifra. Sono il visitatore 848. Convertiti in numeri, siamo davvero pronti per entrare. Ad accompagnarci sarà sempre Nicola. È lui che quindici anni fa, insieme ad alcuni amici, ha iniziato a lavorare per il carcere, fondando poi la Cooperativa Giotto di cui è presidente e che oggi si occupa dell’inserimento lavorativo di disabili e detenuti. «E pensare che poteva finire tutto in pochi mesi», racconta. «Avevamo vinto una gara per la pulizia dell’area verde del carcere, potevamo fare il lavoretto e andar via, ma poi ci siamo detti: qui ci sono centinaia di persone che non fanno niente, ma perché non se lo fanno loro?». Dall’idea un’opera. Andiamo a vederla.
La prima tappa è una stanza in cui al posto delle finestre c’è la gigantografia di una foto dalle facce sorridenti. Sotto, gli stessi volti, che dal vivo appaiono più gravi, i più belli segnati dal dolore. Sono quelli di alcuni carcerati.
«Qui dentro - ci spiegano -, lavoriamo per il call center del servizio sanitario della città». In poche parole, ricevono le richieste per prenotare le visite nei diversi ospedali padovani da raccogliere e riordinare meticolosamente, «perché quella è gente che aspetta per mesi, che per venire si prende un giorno di ferie e magari gli costa pure un bel po’», chiosa Marino, «perciò non voglio sbagliare». «Non voglio sbagliare», detto qui dentro da uno condannato all’ergastolo suona pesantissimo. Un giudizio che non lascia scampo alla leggerezza con cui spesso si lavora, e una coscienza lucidissima del contributo che si può dare facendo il massimo anche nell’occupazione più semplice. Una scelta non scontata: «È stato difficile accettare il lavoro - ci raccontano - devi credere di poter rincominciare, fidandoti di chi ti da un’altra possibilità». «Il lavoro - interviene Marino -, è duro, anche perché ti mette davanti al fatto che la gente fuori ha problemi come te». È il turno di Alberto che ci parla del suo ergastolo, ma che, grazie a chi ha deciso di aiutarlo, è tornato a sperare.
Proseguiamo, passando un corridoio grigio e un cancello rosso, un altro corridoio e un altro cancello, uguali ai primi, e così per un po’, finché arriviamo in un atrio sulle cui pareti ci sono altre gigantografie: sono le foto degli operai del carcere e noi siamo arrivati in “fabbrica”. Il primo reparto è quello dei gioielli Morellato: «Tutti i pezzi difettosi, la ditta li rimanda a noi per sistemarli», racconta Nicola, interrotto dall’arrivo di un ragazzo di colore che corre incontro a don Eugenio Nembrini. Lo abbraccia come un amico di vecchia data, che si rincontra dopo tanto tempo. Non lo vede da sei mesi, da quando l’ha conosciuto al Meeting di Rimini. E con il volto contento, gli occhi commossi e la mano di Eugenio sulla spalla ci porta nel suo “ufficio” e ci mostra le sue creazioni: bracciali, ciondoli e orecchini ordinati in fila su un tavolo coperto con le immagini ritagliate dai giornali, che ritraggono le modelle che li indossano. Sopra il tavolo dei quadri “surrealisti” firmati da lui. Dopo averceli mostrati ci congeda: «Ci vediamo dopo, devo tornare al lavoro». Nella stanza a fianco c’è chi costruisce valigie: tra loro si fa largo un volto solare che sembra impaziente di parlarci. Nicola si accorge e gli chiede di raccontare di sé e della sua storia. «Sì, perché io non sorridevo mai. Prima di incontrarvi ero triste e voi mi avete cambiato la vita», e aggiunge: «Finalmente vi conosco». C’è da chiedersi come possa ringraziare gente che non ha mai visto. Ed è sempre Nicola a spiegare quel che appare impossibile. «Lui è rinato quando i suoi compagni sono tornati dal Meeting e, raccontando la bellezza incontrata, l’hanno testimoniata agli altri». Viene in mente la frase con cui Franco, carcerato conosciuto a Rimini, ci lasciò prima di ripartire per Padova: «Non vedo l’ora di tornare in carcere per raccontare a tutti quello che ho visto». E vengono i brividi a vedere con i propri occhi che il cambiamento di uno può essere davvero per tutti.
Sono già le 11 e 30 e siamo nelle cucine della prigione. «Questo è uno dei pochi carceri dove si mangia bene», mi dice un padovano prevenendo le mie domande. «Mentre quello è lo chef che gli amici del Caffé Pedrocchi hanno deciso di mandare qui a lavorare con i detenuti», mi racconta Caterina. Nel reparto pasticceria i ragazzi si presentano senza interrompere il lavoro. Quest’anno, infatti, non riescono a stare dietro agli ordini: le colombe e i panettoni che producono sono richiesti da tutta Italia.
Uscendo per andare in auditorium passiamo da un cortile: si vedono le finestre delle celle dei detenuti che ci guardano con le mani e il volto attaccati alle inferriate. «Loro là dentro ci stanno 24 ore al giorno», mi dice Franco. Si capisce di più che quanto visto finora è un’eccezione, che in un carcere ha del miracoloso. In auditorium siamo più di un centinaio, contando i carcerati che ci hanno raggiunto a scaglioni. Don Eugenio inizia la messa commuovendosi di «quanto Dio sia geniale», rivelerà durante la predica, «perché le letture sul perdono e il Vangelo sul fariseo e il pubblicano non li ho scelti io. Sono proprio quelli di oggi». «Amici - continua -, non c’è differenza tra me e voi, il frutto dei miei e vostri peccati è lo stesso: il desiderio di felicità riempito in modo sbagliato. Ma c’è un’altra cosa che ci accomuna: la risposta a un certo punto ci è venuta incontro, attraverso questa compagnia che ci testimonia l’amore e la misericordia di Cristo, l’unico che può bastarci». Ed è proprio così: in fila per la comunione è evidente che siamo una cosa sola, bisognosi davanti alla stessa Persona. Finita la messa si va al pranzo preparato dai detenuti. Purtroppo il tempo corre, dobbiamo tornare in auditorium, dove inizia la festa. Gli amici di Napoli hanno preparato un repertorio speciale. Dopo le prime canzoni ecco quella «scritta dagli amici carcerati», annuncia Salvatore che l’ha composta «dopo averli conosciuti». La prima fila è la più scalmanata. Ci sono Franco e alcuni detenuti napoletani che cantano e ballano senza mancare una strofa: Chi sarà che mi regala un sorriso… proprio a me che maledico il giorno in cui ho ucciso…fu così che iniziai a vivere…
Ma sul finale anche i detenuti restano senza fiato. Un secondino coinvolto nel canto, guardando la platea, scoppia in un pianto commosso. E mentre don Eugenio ci ricorda «che gli uomini sono tutti uguali, con lo stesso cuore che desidera felicità», il secondino urla: «È vero, è proprio così!». «E anche chi di voi - chiude Nembrini - è ancora arrabbiato con sé e con la vita, non ha più scuse per lamentarsi. Davanti ai vostri occhi c’è chi vi testimonia che si può essere felici e liberi anche qui». È ora di andare. Si esce commossi di aver partecipato a qualcosa di straordinario, che non si può spiegare da sé: davvero Qualcuno ha voluto fare irruzione tra le sbarre.