Io non chiudo

PRIMO PIANO - IMPRENDITORI
Davide Perillo

Fatturati a picco. Operai da licenziare. Aziende che chiudono i battenti. Ma c’è qualcosa che permette di affrontare la situazione più dura degli ultimi anni senza essere travolti? Lo abbiamo chiesto a un gruppo di imprenditori che vivono un’amicizia. E ci hanno raccontato dove nasce la loro speranza. Concretissima e possibile anche a chi non fa il loro mestiere

«Era giusto un mese fa. Avevamo appena cominciato a tagliare gli straordinari. Un giorno vedo una ragazza che è ancora lì a lavorare, a sera tardi. Vado da lei e le dico: scusa, come mai sei qui? “No, guarda, ho già timbrato. Ma stavo finendo questo lavoro e volevo farlo bene”...». Sorpresi? Eppure di episodi così te ne raccontano in serie. Il venditore che dovrebbe incassare il premio di fine anno e dice al titolare, in difficoltà, «lascia stare, me lo darai quando puoi...». Il concorrente di una vita che, dopo un pomeriggio passato insieme a discutere i guai della sua azienda, ti dice “se riesco a salvarla, voglio lavorare con te”, il licenziato che se ne va abbracciando il “capo”... Fatti impensabili, in questo scenario a tinte sempre più cupe in cui, ormai, chi guida un’azienda rischia di ritrovarsi sequestrato dai suoi operai inferociti (è successo a una pletora di supermanager in Francia) e le folle assediano i banchieri (vedi la Londra dei giorni del G20). Però succedono. Qui e ora. E generano un effetto strano: nel mondo dei venti milioni di posti di lavoro a rischio, delle chiusure a raffica e dei fatturati da inverno siberiano («meno 36 da inizio anno», «io meno 40», «noi siamo a meno un terzo»), anche fra chi fa impresa capita di vedere facce serie, a tratti tese, ma serene. Come quelle sedute attorno a questo tavolo.
Otto imprenditori, settori e provenienza varie, aziende grossomodo tra i dieci e i cento dipendenti. E due o tre cose in comune tutt’altro che secondarie, anche quando si tratta di rimboccarsi le maniche e affrontare i guai. La fede, anzitutto. L’amicizia, che li ha portati sette anni fa a mettere in piedi - all’interno della Compagnia delle Opere -, quel Club Libera Impresa che oggi conta una mailing list allargata di un migliaio di persone. E un modo insolito di concepire se stessi e la realtà, oltre al lavoro. Anzi, dentro il lavoro: nel rapporto con i dipendenti e nella ricerca dei clienti, nelle scelte da fare e nei rischi da correre. Fino alla crisi, appunto. Che può diventare un’occasione persino in tempi davvero duri.

Guerra di trincea.«Partiamo da un fatto: sei mesi fa non c’era ancora nulla, oggi siamo al disastro», dice Matteo Brambilla, 53 anni, titolare di un’azienda metalmeccanica da 40 dipendenti e socio fondatore del club: «Per capirsi: noi a settembre abbiamo fatto il record di fatturato. A marzo, c’è stato un calo degli ordini del 90%». La crisi è rapidissima, insomma. E riguarda tutto il mondo, senza eccezioni. «L’unico riferimento possibile è il 1929, ma la globalizzazione fa sì che tutto proceda molto più in fretta. È in corso una lotta per un nuovo assetto economico e politico a livello mondiale. Lo dico per realismo, ma anche per senso delle proporzioni: noi siamo come fanti in trincea durante la Guerra mondiale». Guerra che sta facendo morti e feriti, se è vero che solo in provincia di Milano, per citare un dato della Camera di Commercio, potrebbero chiudere 70mila imprese (una su quattro) e che i fallimenti sono all’ordine del giorno.
Il rischio c’è, insomma. Anche per qualcuno di loro. Meglio dirlo subito e spazzare via qualsiasi tentazione di immaginarli come casi di gente fuori dal mondo o, peggio ancora, modelli di bravura e di eroismo. «D’istinto, neanche noi avremmo voglia di aprire bocca - dice Brambilla -. Siamo qui a parlarne e quando esce l’intervista, colleghi e concorrenti sapranno che potrei anche tirare giù la saracinesca. Però anzitutto sono certo di una cosa: può anche chiudere la mia azienda, ma non chiudo io. E poi, crisi o no, non possiamo non riconoscere l’imponenza di alcuni fatti». Con uno su tutti: «In questo caos ci siamo trovati addosso, quasi nostro malgrado, un certo modo di fare e di pensare. Non è stato l’esito di una serie di passaggi deduttivi: c’è la crisi, siamo cattolici, quindi dobbiamo fare certe cose... Ci siamo sorpresi così».
«Così» vuol dire in primo luogo più consapevoli di un dato, che non vale solo per chi fa il loro mestiere: «Capisci meglio che l’azienda non è tua. E diventa centrale la domanda: Signore, tu che mi hai affidato questa cosa, che magari - come è successo a me - ho ereditato e che anni fa non pensavo neanche di dover guidare, che cosa vuoi da me ora? Che cosa mi chiedi?». Spiritualismo? «No: realismo. Questa domanda fa essere più sereni, perché dà la giusta proporzione; ma rende anche più determinati nell’azione. Tenerla viva non è da stupidi: fa prevalere la positività. E aiuta pure a tenere viva l’azienda». In che senso? «Dire che non è roba tua non è una cosa astratta. Tocca il modo con cui concepisci i soldi, per esempio: li reinvesti o te li porti via per farti la villa in Sardegna? Se l’azienda è qualcosa che servi, e non una vacca da mungere, una volta che hai il tuo stipendio gli utili li rimetti lì dentro. Be’, guarda caso questo è ciò che adesso fa la differenza tra un’azienda e l’altra. Oggi stiamo in piedi perché con umiltà abbiamo sempre lasciato dentro i soldi».
Realismo, insomma. È la prima premessa anche per Marco Montagna, pesarese, titolare di un’impresa edile con commesse in mezzo mondo e un fatturato oltre i 60 milioni: «Io prima ero più distratto. Ero convinto che l’azienda, ormai, fosse a un livello in cui bastava dare un filo di gas per filare via lisci. Non era vero. Mi sono ritrovato ributtato nella realtà. Ho cominciato a soffrire, ma ho ricominciato pure a vivere». O per Fortunato Grillo, 48 anni, traslochi e affini: «La prima preoccupazione è stata mettere in sicurezza l’azienda, per non restare intrappolati nei debiti. Abbiamo buttato dentro dei soldi di famiglia. Il più possibile. Ce l’abbiamo fatta, con le banche che ci dicevano che eravamo matti. Poi abbiamo cercato di mantenere il personale. Qualcuno lo abbiamo lasciato a casa qualche giorno, altri si sono messi in ferie. Ma abbiamo cercato anche di vedere cos’erano capaci di fare, oltre ai traslochi. Qualcuno sapeva fare tinteggiature? Abbiamo cominciato a farle. O le manutenzioni. Insomma, per ora stiamo lavorando tutti». Poi si vedrà.

Rifare i conti.«Questa crisi ci ha riportato a un’essenzialità, anche sui numeri», osserva Ambrogio Beretta, 43 anni, settore cavi e trasmissioni flessibili. «Devi rifare i conti. Vedere se ci stai dentro. E affiorano cose che non ti aspetti». Esempi? «A un certo punto in azienda ci siamo detti: non ce la facciamo, quello che stiamo facendo costa troppo in rapporto ai ricavi. Dobbiamo provare a fare di più con meno, perché la realtà ci chiede questo. Non pensavo di tirare conseguenze immediate. Ma su 18 persone che erano lì, otto, di cui due operai, sono venuti a dirmi che avrebbero potuto accettare anche una riduzione di stipendio: “Piuttosto che far licenziare qualcuno, siamo disponibili”. Ed è gente che prende mille euro al mese. Ecco, mi colpisce che quello che abbiamo seminato per tanto tempo, e che non è merito nostro, abbia generato un livello di condivisione del genere».
Anche Anastasia Accattoli, titolare di una piccola azienda vinicola marchigiana, parte da lì, dal rapporto coi dipendenti. «La crisi l’abbiamo sentita tempo fa. Avevamo il problema di tagliare gli straordinari e stare attenti a tutto, per risparmiare. I dipendenti non l’hanno accettato da subito: erano abituati a farli da una vita, ed erano soldi. Ma dopo un po’ hanno iniziato a coinvolgersi. Adesso capita che stiano anche fuori orario. E stamattina uno di loro mi chiedeva: che dici, accendo la caldaia o aspettiamo stasera, che spendiamo meno? È un’attenzione al particolare, un atteggiamento di condivisione, che prima non c’era. Ed è importante, per chi guida un’azienda». Brambilla la mette giù così: «La persona vale più dei conti. Se riesci, provi a salvargli il posto. Ma se devi mandare via qualcuno, conta come lo fai. Nella mia azienda ho quattro lavoratori interinali. Secondo certe logiche sarebbero i primi a dover saltare, no? Be’, io almeno in una prima fase ho detto: non voglio buttarvi a mare, siete anche voi sulla stessa barca. Restateci, finché si può. Faremo un po’ più di cassa integrazione, ma si può tentare. Poi magari non ce la faccio, ma almeno ci provo. Oppure, altro caso: dovevo licenziare uno dell’ufficio tecnico. Un altro di noi mi ha detto: potrei prenderlo io, anche se con uno stipendio più basso. Gli ho chiesto se era disponibile. L’ho sostenuto con lo stipendio per altri tre mesi, mentre imparava un lavoro diverso. Ha iniziato di là. Dopo un po’ ha trovato un altro posto ed è venuto a salutarci. Baci e abbracci. E l’avevo licenziato, eh?».
Eccolo, l’altro indizio dei «fatti che ci siamo trovati addosso»: un modo diverso di guardare l’uomo. E questa è una cosa che le persone capiscono. Non solo gli interessati, ma anche gli altri. «A pensarci bene, le aziende sono rimaste uno dei pochi luoghi di aggregazione non casuale», dice Montagna: «La scuola, le amicizie, persino le famiglie a volte sono posti dove diventa difficile dirsi le cose. In azienda, invece, la realtà ti detta ancora una disciplina, un modo di guardare la realtà. È un ambiente dove l’umanità è ancora mobilitata».
«Da me è venuto il proprietario di uno dei capannoni che abbiamo in affitto», racconta Paolo Zanella, settore robotica: «Aveva le lacrime agli occhi. Mi fa: “Ho investito tutto in macchinari nuovi e ora non ho un cliente. Non so più cosa fare”. Ti chiedono consiglio. Tu cerchi di aiutarli, di riportarli a un livello di ragionevolezza. Ma, facendolo, ti accorgi che l’equilibrio che hai non dipende da te. Non è una questione di eroismo. È che siamo appoggiati a qualcosa che viene prima di azienda, lavoro e crisi. Anche quando manca il fiato. Mi è capitato di dover dire a diverse persone di stare a casa. Una mi ha detto: “Mi dispiace davvero. Non tanto perché perdo il lavoro, ma perché perdo una possibilità di rapporto in una situazione che per me è stata unica”. Questo ti spiazza. E ti dà ancora più coscienza del fatto diverso che abbiamo incontrato».
È per questo che in molti ti parlano di un «nuovo inizio», di un «periodo in cui si sta riaprendo tutto» (Paolo) o in cui sei più pronto ad accogliere l’imprevisto. «Ma anche la capacità di cogliere le possibilità che si spalancano sono frutto di un rapporto - dice Pietro Zuretti, settore meccanica, 23 dipendenti -. Ormai è difficile che decida qualcosa senza sentirci tra di noi. Venerdì scorso ho fatto un conto: in una giornata ho preso una trentina di decisioni. Su quelle più importanti ho sentito sempre gli amici. Ma non per delegare la responsabilità: perché trovi un varco di luce in più». Un varco di luce. Come quello che Montagna trovò anni fa, in un dialogo con don Giussani, «che in una frase mi fece capire tutto: andai da lui e parlai per un’ora dell’idea di mollare il lavoro, perché il rapporto con mio padre era troppo faticoso. E lui mi dava corda. Alla fine dico: “Allora è deciso, torno a casa e dico a mio padre che mollo tutto, ok?” “Ok”. Mi alzo. Mi guarda. E fa: “Non sei convinto?” “No”. “È giusto: perché se molli questo, molli la realtà”».
Ricapitoli, e ti accorgi che, in fondo, si sta girando intorno proprio a quei due fattori che si dicevano all’inizio, mica ad altro. Uno: la loro amicizia. Decisiva: da soli, non ce la farebbero a vivere così. «Quello che stiamo vivendo ha reso ancora più urgente capire la natura di questa compagnia, che è nata dieci anni fa dal fatto che Marco a Pesaro e io qui abbiamo avuto nel rapporto con don Giussani un aiuto ad affrontare il nostro lavoro - spiega Brambilla -. La crisi non solo non ha messo in dubbio l’amicizia, ma l’ha resa ancora più interessante».
Ma il secondo dato è la fede. È davvero un fattore di conoscenza. Persino di competenza. È qualcosa che ti permette di conoscere meglio che cos’è un’azienda. Chi sono i dipendenti. Chi sei tu. E ti dà una certezza «che in giro non si trova», come dice Montagna. Viene fuori chiaro e tondo dal racconto di Paolo Camillini, produttore di tubi di plastica: «Non vedere il frutto del proprio lavoro, per un imprenditore, è una cosa pesante. Può essere persino annichilente, in una situazione così. A me colpisce l’immenso aiuto che mi dà la Scuola di comunità. Stiamo toccando con mano che il luogo in cui Cristo ti raggiunge è l’unico punto di giudizio solido. È per te. Anche quando non sai dove ti porta. A volte mi sento come quelli che erano usciti dall’Egitto e si erano ritrovati nel deserto: un gran successo per non ottenere niente e girare quarant’anni... Solo che quelli, nel frattempo, stavano scrivendo la Bibbia. Puoi anche sbagliare, ma sei su una strada. Non in un vicolo cieco».

Parole e fatti. «Giussani lo leggo da anni, dai tempi di Gs - dice Beretta -. Ma ora ho potuto prendere quelle parole e dargli corpo, fino a farle mie. Prendi la “libertà nei rapporti”, per esempio: ne parli decine di volte, ma è quando la metti in discussione con i tuoi collaboratori che capisci che cos’è la libertà, che c’è uno spazio totalmente dell’altro. Ecco, a me capita questo: grazie alla crisi, sto ripercorrendo il testo dalla parte dei fatti».
E i fatti cosa dicono? In questo caos, dove sta la vostra speranza? Giro di tavolo, incroci di sguardi. Si parla di investimenti da concretizzare, di una semina di cui si aspetta la raccolta, di prodotti già sviluppati in attesa di ordini. Ma soprattutto di sé. «Il primo fattore di speranza è come sono cambiato io in questo periodo», dice Zuretti, secco. «Io ho sempre avuto un odio per i budget, perché spostano i problemi nel futuro - aggiunge Camillini -. Invece, tocca partire dalla realtà. Questo cliente è accaduto. Questo prodotto c’è. Questo problema ce l’hai e ti spinge a cercare una soluzione. La realtà. Devi far leva su quello, non sui sogni». «Se apri i giornali, trovi un sacco di gente che prova a darti la ricetta giusta per la crisi - dice Beretta -. La ricetta è una sola: che io tenga. Che la mia consistenza mi faccia tenere come uomo dentro le circostanze».

Qualcosa che c’è.«Giorni fa sono tornato a casa depresso - racconta Brambilla -. Una notizia tragica via l’altra: chiusure, fallimenti... Un disastro. Il pomeriggio dopo, invece, mi sono reso conto che ero più di buonumore. Mi sono chiesto: perché? E mi sono accorto che era bastato un incontro che mi aveva fatto vedere una possibilità di rilanciare, di comprare un pezzo di un’altra azienda. Qual è la differenza? Che era successo qualcosa. C’era qualche cosa. La differenza la fa una presenza, non dal fatto che ti dici “stai su”. La speranza nasce da una cosa presente, che c’è. Questo mi fa capire di più la natura di Cristo. È un fatto presente. Se no, non conta». Invece c’è. E ti cambia. «L’altra sera torno a casa e mia figlia mi fa: papà, vabbè che c’è la crisi, però mi puoi anche abbracciare, no?». E tu? «Le ho sorriso. E l’ho abbracciata».