Giorgio Vittadini.

GIORGIO VITTADINI L'Europa in cui crediamo

Alla vigilia delle elezioni europee, il presidente della Fondazione per la sussidiarietà invita a sostenere chi ha «un’idea di uomo come essere unico e irripetibile» (da ilsussidiario.net, 5 giugno)

Siamo al voto europeo, ma il dibattito che l’ha preceduto in questi mesi non è servito a delineare i tratti di una personalità del nostro continente, non solo matura e unitaria, ma nemmeno cosciente della strada per esserlo. Ciò che la affligge è un problema di identità. Dove è finito quell’afflato ideale che ne ha costituito il Dna originario e per cui cinquantacinque anni fa Paesi che si erano massacrati senza esclusione di colpi decisero, non solo di trovare un accordo, ma di fare scelte determinate da ideali comuni? Dove sono gli ideali di riferimento che attingevano nel background dei padri fondatori Adenauer, De Gasperi, Schumann, Monnet e che hanno determinato lo straordinario successo del processo di integrazione europea? Dietro una retorica europeista ipocrita dominano pensieri di breve respiro e mancanza di valori.
L’idea liberista vigente, degna solo della ideologia - rivelatasi ormai perdente - di un Financial Times, impedisce ai governi di intervenire, per non alterare la concorrenza, quando piccole e medie imprese avrebbero bisogno di incentivi, ma quando si tratta di grandi imprese la Francia non esita a scendere in campo per difendere la «francesità» della Danone o della Suez o i privilegi corporativi della sua agricoltura; i tedeschi entrano a gamba tesa a determinare le sorti della Opel; gli italiani cambiano le regole sugli slot per garantire il monopolio della Nuova Alitalia.
Si parla di Europa dei popoli, ma si cerca di far fuori ogni residuo di economia sociale normalizzando le banche popolari, le banche di credito cooperativo, le realtà non profit, le cooperative, semplicemente facendo finta che non esistono.
Si dice di difendere la dignità della persona e, soprattutto per iniziativa di Paesi nordici, si vogliono introdurre novità degradanti il valore dell’uomo, quali l’assenza di vincoli nell’abortire, l’eutanasia, le sperimentazioni sugli embrioni.
Si parla di Europa unita nel difendere le libertà dei popoli nel mondo, ma molti Paesi europei praticano politiche neocolonialiste o di acquiescenza con Paesi canaglia o si scannano per un seggio individuale nel nuovo Consiglio di sicurezza.
Si vuole superare lo statalismo e si è generata una burocrazia multinazionale mostruosa e una legislazione lontana e sorda di fronte alle realtà sociali dei diversi Paesi. Il venir meno della politica nel suo compito di esprimere pensiero e volontà popolari lascia campo libero alle prassi acefale dei burocrati. E il loro potere è davvero grande, più di quanto si dica: su 100 leggi pubblicate in Gazzetta Ufficiale, ormai 78 sono esecuzioni di normative europee.
Non è strano allora che i cittadini europei, quando sono interpellati, bocciano l’Europa. Determinati dalla volontà di difendere privilegi o dalla paura di un Moloch che avanza, è comunque evidente il loro scetticismo nei confronti di una entità sempre più senz’anima.
Bisogna allora astenersi dal voto? No. Quello che occorre è la fatica di discernere dove sono tenuti vivi quegli ideali (cristiani, socialisti, liberali) che sono ancora nelle nostre fondamenta e, per questo, possono ridare vita ad un’Europa dei popoli.
E per questo bisogna scegliere quegli uomini che vogliono promuovere, a partire dalla legislazione, un’idea di uomo come essere unico e irripetibile, i cui diritti fondamentali hanno un valore oggettivo che si basa sulla sua natura profonda, uguale in ogni tempo e luogo e lo rende capace di perseguire il bene per sé e per gli altri.
Occorrono uomini che promuovendo il principio di sussidiarietà, favoriscano cioè la crescita dei corpi sociali, delle comunità intermedie che educano l’uomo a prendere consapevolezza di sé e della realtà, e lo fanno in modo non coercitivo e repressivo, difendendolo contro le riduzioni individuali e del potere.
Occorrono uomini che, per questo, invece di difendere un preistorico welfare state o un pernicioso mercato selvaggio sappiano vedere, ascoltare, valorizzare ciò che liberamente si sviluppa come risposta «dal basso» ai bisogni dei singoli e della collettività, anche e soprattutto dalle realtà non profit.
Occorrono uomini che, capito l’inganno di uno sviluppo basato sull’ideologia finanziaria degli ultimi anni, promuovano la crescita di quel mondo operoso di imprese che producono beni e servizi; non solo le grandi e grandissime, ma anche le medie, piccole, piccolissime, patrimonio insostituibile europeo e soprattutto del nostro Paese.
Le imminenti votazioni europee dovrebbero rappresentare per tutti i partiti e gli schieramenti l’opportunità di invertire la rotta promuovendo ai vertici europei persone impegnate in questa rinascita ideale, unica decisiva battaglia per il nostro futuro.

(da ilsussidiario.net, 5 giugno 2009)