Un momento dell'incontro.

LONDRA Giussani e la speranza all’ombra del Big Ben

Il 2 luglio presso la cattedrale di Westminster è stato presentato il secondo volume della versione inglese di "Si può vivere così?". Da una pagina di Dickens ai versi di Leopardi, un invito a stupirsi sempre
Fabrizio Rossi

«Always wonder!». Un invito a stupirsi sempre. Qui sta il cuore della proposta di don Giussani, per monsignor Mark O’Toole, rettore del seminario cattolico della diocesi di Westminster, che giovedì 2 luglio ha presentato insieme a don Julián Carrón il secondo volume della traduzione inglese di Si può vivere così?. Ad ascoltarli, 200 persone che hanno riempito Westminster Cathedral Hall, l’elegante salone della cattedrale cattolica di Londra.
Nel parlare dell’opera, monsignor O’Toole ha dichiarato subito il desiderio «di scoprire qualcosa di più sull’esperienza del movimento», definendosi «un principiante». Nel suo intervento, ha riletto la proposta di don Giussani alla luce delle più celebri pagine di letteratura inglese. Come il romanzo Tempi difficili, in cui Charles Dickens descrive l’effetto devastante dell’educazione impartita alla giovane Louisa dal padre sociologo Thomas Gradgrind, all’insegna del «non stupirsi mai» e «attenersi a fatti e calcoli». Al contrario, «le riflessioni contenute in Si può vivere così? sono un continuo invito a stupirsi» e «ad aprire la ragione, come una finestra spalancata sull’orizzonte intero». Da qui, la capacità di don Giussani di dialogare con chiunque: «Da Tommaso d’Aquino a Sartre, per quel che hanno in comune con ogni uomo: l’incompiutezza, il “cuore inquieto” di cui parlava sant’Agostino». Ripercorrendo, quindi, il momento storico in cui ha preso forma il movimento, monsignor O’Toole ha sottolineato: «Don Giussani mostra che dobbiamo tutti tornare al cuore del cristianesimo: l’incontro con Cristo. E lo ha fatto nella vita concreta, riecheggiando i grandi teologi che avrebbero portato al Concilio Vaticano II: da Daniélou a De Lubac, da Von Balthasar al giovane Ratzinger».
Prendendo spunto dall’umanità di autori come Pavese, Mauriac e Leopardi, don Julián Carrón s’è chiesto: «Esiste un fondamento reale da cui possiamo aspettarci che la nostra sete di felicità venga esaudita? L’attuale situazione, in cui sembra che tutto stia per crollarci davanti agli occhi, rende questa domanda ancora più urgente. È possibile sperare?». Ad aiutarci nel trovare una risposta, Charles Péguy: «Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici - scrive il poeta francese -: bisogna aver ricevuto una grande grazia». Un’affermazione con cui «Péguy si situa agli antipodi di qualsiasi atteggiamento presuntuoso - ha continuato don Carrón -, perché riconosce che la possibilità della speranza si fonda non in qualcosa di costruito da noi, ma in una grazia, vale a dire, in qualcosa di donato. È questa grazia che rende ragionevole la speranza». Una “speranza affidabile”, come la definisce Benedetto XVI nella Spe salvi: «Perciò è tutto tranne che irragionevole. Non è una speranza campata per aria, senza punto d’appoggio, una sorta di ottimismo irrazionale contro l’evidenza dei dati del presente. Anzi, la sua ragionevolezza poggia tutta su una conoscenza verificata nell’esperienza». Per concludere, come esemplificazione di quanto detto è stato proiettato Greater, il film su Rose e le malate di Aids che aiuta a Kampala. Prima di chiudere la serata, Marco Sinisi - responsabile della comunità locale e moderatore dell’incontro - ha invitato i presenti alla Scuola di comunità: «Non abbiamo voluto semplicemente presentare un libro - ha affermato -, ma proporre a tutti il lavoro che ne scaturisce».
Subito dopo, cenando con don Carrón e una dozzina di amici della comunità, monsignor O’Toole ha potuto rivolgere loro altre domande ancora: «Ha dimostrato un’enorme curiosità umana verso la nostra esperienza - racconta Marco -. Alla fine, ci ha confidato: “Comunque, il cristianesimo sta tutto nella prima pagina del Vangelo di san Giovanni: venite e vedete!”».