Jeremy Morris.

MORRIS L’Europa e la neoreligione dei diritti umani

Nei primi giorni di lavoro del nuovo Parlamento europeo, abbiamo chiesto ad alcuni esperti un aiuto a capire meglio cosa c’è in gioco. Seconda puntata, Oltremanica
Fabrizio Rossi

«I diritti umani? Ben vengano. Ma non devono diventare una nuova religione». Jeremy Morris, decano del Trinity Hall College presso l’Università di Cambridge, vede in questo «una grandissima sfida» per l’Occidente. Teologo e sacerdote anglicano, Morris denuncia da tempo quello che lui definisce «Europe’s inner vacuum», il vuoto interiore del Vecchio Continente: l’Europa, in poche parole, «o è cristiana o non è». In questi primi giorni di lavoro del Parlamento europeo eletto a giugno, gli chiediamo un aiuto a capire le sfide che l’attendono.
Quali sono, secondo lei, le principali questioni sul tappeto?
Innanzitutto la situazione economica, che rimane straordinariamente complessa. Anche perché la crisi ha provocato delle differenze significative tra i Paesi dell’Europa. Di qui, il problema della giustizia sociale: come affronteremo la povertà e la disoccupazione nei prossimi anni? Segue a ruota una questione che, a mio parere, va dritto al cuore dell’identità europea: l’impatto dell’immigrazione.
Cosa intende?
L’Europa dovrà capire come affrontare questo problema, che già solleva vari interrogativi. In Francia, per esempio, si discute su cosa possono indossare in pubblico le donne musulmane. Le varie migrazioni, insieme ai conflitti che hanno lacerato la cristianità nei secoli, hanno portato ad un grande pluralismo di valori, fedi e ideologie. Noi cristiani non dovremmo scartarlo: oltre che una ricchezza culturale, è ormai un dato di fatto con cui fare i conti.
Come giudica, in questo senso, l’eventuale ingresso in Europa di una nazione come la Turchia?
Da un punto di vista economico, sono un po’ scettico. La crisi finanziaria ha causato delle tensioni nell’Unione europea, inasprendo le differenze già esistenti tra i suoi membri: se venisse allargata anche a nazioni come la Turchia, queste tensioni aumenterebbero di sicuro. È una questione complessa anche da un punto di vista sociale e culturale. Affinché l’Europa sia un’unità integrata, deve condividere determinati valori comuni. E l’ingresso della Turchia solleverebbe ulteriori questioni, rendendo ancor più complesso individuare dei valori comuni. Perché alla radice dell’idea stessa di Europa c’è un’identità e una storia cristiana.
Lo ha ricordato spesso Benedetto XVI...
Sono assolutamente d’accordo con lui. Ma, allo stesso tempo, nella situazione attuale prodotta dal fenomeno dell’immigrazione negli ultimi 50 anni, l’Europa non può più costruirsi un’identità comune semplicemente in base ad un insieme di valori cristiani. Penso che le Chiese debbano trovare il modo di rinegoziare i loro rapporti con i Paesi europei e con la cultura del Vecchio Continente. Senza smettere di mostrare pubblicamente cosa significhi una società cristiana, ma lasciando spazio anche ad altri valori e fedi.
Più che sui temi economici, l’Europa acquista sempre più peso nelle nostre vite proprio per quanto riguarda la sfera dei valori e dei diritti: dall’uguaglianza alla “non discriminazione”, dalla libertà all’autodeterminazione... Come vede questa situazione?
È una grandissima sfida. Con il rischio, al tempo stesso, che quelli che vengono promulgati come diritti umani diventino una nuova religione. Un esempio tra tanti: l’aborto, su cui si dividono gli stessi cristiani. E cosa avviene nel dibattito pubblico? Assistiamo alla contrapposizione di due tipi di diritti, dove in nome del “diritto” della donna di essere padrona del proprio corpo s’intende ignorare il diritto di vivere del nascituro. Ci scontriamo con la deprimente incapacità dei Paesi europei di fornire un fondamento morale e sociale, che permetta una politica umana in difesa di questo diritto assoluto alla vita.
Al tempo stesso, vengono elaborate delle direttive comunitarie sugli aspetti più disparati...
È paradossale. C’è una burocrazia invadente che punta a regolamentare sempre più oggetti banali. Lo scollamento tra questa realtà e la missione per cui è nata l’Unione aumenta la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni europee. Dobbiamo superare questo clima di sospetto e scetticismo.
In che modo?
Secondo qualcuno, il Trattato di Lisbona aiuterebbe l’Europa a ripartire. Temo invece che non porterebbe a grandi cambiamenti. Anzi, vista l’opposizione che ha incontrato in Irlanda, si avrebbe l’impressione che la volontà di una parte dei cittadini europei non sia stata presa in considerazione. L’Europa ripartirà se non si ferma al localismo: deve alzare lo sguardo e allargare i suoi orizzonti, puntando a strategie e visioni più ampie.