Cleuza, Marcos e padre Aldo.

Quattromila chilometri al giorno per imparare a vivere

In un articolo su "Tempi" in edicola questa settimana, padre Aldo racconta un anno di amicizia con Marcos e Cleuza. Un legame capace di portare il nome di Cristo «nel tempio messicano dei senza Dio»
Aldo Trento

È passato già un anno da quando per la prima volta arrivarono qui ad Asunción Marcos e Cleuza Zerbini, responsabili del movimento dei Senza Terra di San Paolo del Brasile, il 17 novembre 2008. Erano stati invitati da alcuni amici, anche perché don Julián Carrón, il responsabile mondiale di Comunione e Liberazione, aveva indicato alcuni segni e alcuni testimoni di cui fidarci per andare a fondo dell’essenza del cristianesimo. Perché il cristianesimo si impone per la grazia di un incontro al quale la libertà umana aderisce, in quanto lo percepisce come un avvenimento che corrisponde alle esigenze ultime del cuore, che possiamo evidenziare nella fame e nella sete di felicità che è il motore della vita e il nostro destino.
Quel giorno ha rappresentato non solo per me, ma per tutti i semplici di cuore con cui divido le giornate, il riaccadere di quel fatto che duemila anni fa cambiò la vita di Giovanni e Andrea. Abbiamo passato due giorni condividendo le nostre realtà, e avendo modo di guardare con l’intelligenza della fede quanto il Signore sta facendo da cinque anni a questa parte in quest’angolo di mondo, così lontano dalla confusione dell’Occidente. E come accadde per i primi due amici di Gesù, anche per noi quell’incontro ha segnato la nostra esistenza.
L’ha segnata a due livelli. Prima di tutto, sul piano della possibilità personale: che ognuno scoprisse all’interno di un’amicizia nuova l’intensità del vivere l’esperienza cristiana. Esperienza possibile solamente là dove esistono persone che si lasciano giudicare e si aiutano a giudicare tutto a partire dalla realtà. L’amicizia che viviamo da un anno è come un pungolo, che non solo impedisce di dormire, ma in ogni istante ci provoca a confrontare tutto con le esigenze ultime che ci costituiscono. Tutto significa non solo le cose che già per se stesse, come il dolore, ci costringono a domandarci il “perché”, ma anche le più belle come un’alba, un tramonto, un orizzonte pieno di bellezza come quelli che molte volte abbiamo contemplato seduti sulla riva del mare. Un anno questo, nel quale non c’è stato un centimetro quadrato di terra o una parola che non siano stati giudicati a partire da quello che ci era capitato. Questo è il miracolo, percepire cosa significa che l’uomo non è il frutto dei suoi antecedenti, di qualsiasi natura essi siano, né del suo stato d’animo, né della salute, né della peggiore violenza, come i miei bambini violentati, ma di una Presenza che ci fa in questo preciso momento.
Tanto per me quanto per Marcos e Cleuza, ciò che ha cambiato allora la nostra vita e continua a cambiarla ogni giorno, ciò che ci ha unito e continua a unirci in un abbraccio potente di amicizia, sono state due provocazioni del Vangelo che Carrón continua a ripeterci, e che hanno costituito il leit motiv dell’esperienza educativa di don Giussani: «Badate bene: anche i capelli sul vostro capo sono contati dal Padre mio che sta nei cieli ». E: «Io sono Tu che mi fai». Un’amicizia o nasce da questa certezza o è soltanto una sbornia di gente un po’ spostata: è interessante e definitiva solo se è frutto di una libertà umana, che si riconosce come fatto, come «Tu che mi fai». Da quel momento non sono mai passati più di quindici giorni senza che ci incontrassimo: o io vado a San Paolo, o loro vengono ad Asunción. Molte volte faccio quattromila chilometri al giorno – andata e ritorno – pur di stare alcune ore con loro, Julián de la Morena e altri amici... con l’unico scopo di imparare cosa vuol dire vivere con serietà la nostra vita, mettere in relazione tutto quello che succede giorno per giorno con il nostro cuore. E il frutto di questa amicizia non è solo il crescere del nostro "io", di una grande esperienza di libertà, ma anche uno sguardo di cattolicità che non avevamo mai sperimentato prima. Nel giro di un anno tutto il continente latinoamericano si è sentito "contagiato" da questo fenomeno, da questo "uragano" positivo, perché non c’è niente di così potente per dare una scossa al borghesismo dell’uomo come un’amicizia carica di drammaticità.

Primavera latinoamericana
Alcuni giorni fa siamo stati assieme in Messico, invitati dalla comunità di Cl. Un invito che non era esclusivamente rivolto per incontrare quegli amici, ma anche determinato dal fatto che l’Università nazionale del Messico, il "tempio" in cui per più di ottant’anni è stato proibito pronunciare il nome di Gesù, grazie ad alcuni ragazzi del corso di sociologia ha permesso che Marcos e Cleuza potessero tenere una conferenza, nella facoltà di scienze politiche (una cosa dell’altro mondo per chi conosce la storia del Messico, della sua università, e in particolare di questo corso) che aveva come tema "Il nome dello sviluppo dell’uomo è Gesù Cristo". L’aula magna era quasi piena. Gli adulti erano stupiti, perché conoscendo quanto drammatica sia stata per i cristiani la storia di questo Paese, con migliaia di martiri, non avrebbero mai potuto immaginare questo miracolo. Stupore e preoccupazione hanno accompagnato tutto l’incontro. Stupore perché era evidente ciò che può una compagnia vissuta seriamente, e finalizzata al destino dell’uomo. Preoccupazione perché ad ogni rumore strano avevamo paura di una protesta da parte degli altri studenti e professori. Ma la Vergine di Guadalupe ha vegliato sull’evento, che è stato un successo.
D’altra parte solo una settimana prima era successa la stessa cosa nell’Università massonica di La Plata (Argentina), sempre con Marcos e Cleuza. Davanti a un pubblico che riempiva l’aula magna, molto attento anche se culturalmente distante, hanno avuto la possibilità, con l’entusiasmo che li caratterizza, di annunciare che il nome di qualsiasi sviluppo umano è Gesù Cristo. A La Plata come in Messico, il cristianesimo finalmente esce dalla sacrestia ed entra nei templi della cultura dominante, quella cultura ideologica che continua a sognare utopie come quella del socialismo del XXI secolo.
Una volta ancora è stato evidente che davanti a un’esperienza qualsiasi resistenza ideologica diventa impotente, e finisce per ritrovarsi nel silenzio del nulla. È come se ogni giorno questa amicizia che scuote il continente latinoamericano permettesse ai semplici di cuore, anche se atei, di dire quello che il più grande giornalista del Paraguay, l’ebreo agnostico Humberto Rubin, ha affermato durante un programma tv realizzato nella clinica Divina Providencia San Riccardo Pampuri: «Se quello che ho visto è Dio, anch’io posso credere in Lui». Abbiamo festeggiato un anno da quel giorno, da quella provocazione, «io sono Tu che mi fai», e ci sembra che non solo noi, ma anche l’aria che respiriamo sia differente. Sinceramente adesso inizio a capire quello che diceva Giovanni Paolo II quando parlava dell’America Latina come del continente della speranza per la Chiesa. La speranza è un fatto visibile, è un "già", un "già" che quotidianamente si moltiplica grazie a una compagnia di amici che prendono sul serio l’eredità di monsignor Giussani, seguendo come figli padre Carrón. Un esempio in più di come vive e cambia il mondo quando è vissuto come una Presenza che accade ora, e con la quale tutto si relaziona. E solamente chi vive come un figlio, e non come un discepolo, sperimenta questa bellezza, che è la nuova primavera di questo grande continente.
(A partire da giovedì 17 dicembre, con "Tempi" sarà in vendita il dvd "Asilo de Dios", per sostenere l’opera di padre Aldo in Paraguay)