Chiara Mezzalira durante le visite nella tendopoli <br> di Citè Soleil (Foto Avsi).

DIARIO DA HAITI /6 Un mese dopo la scossa,
tutti in coda per ringraziare di essere vivi

Sesta puntata del racconto quotidiano di Chiara Mezzalira. Tre giorni di lutto per ricordare «i 35 secondi» in cui è crollato tutto. E «quelle parole» che danno lo sguardo giusto su tutto

Port-au-Prince
Martedì 9 febbraio


Ormai il lavoro di servizio sanitario nutrizionale nei campi tendopoli di Avsi si sta consolidando. Ieri ed oggi sono andata a Place Fierte di Citè Soleil dove, nelle tende, i collaboratori di Avsi controllano le malattie e la malnutrizione e rimandano a noi i bambini bisognosi. Ma anche a quelli non gravi bisogna dare qualcosa, così prepariamo la soluzione reidratante orale e la diamo da bere a tutti in attesa e diamo un sacchetto di reidrax a tutti quelli che mandiamo a casa. Oggi abbiamo iniziato anche la distribuzione di biscotti energetici per prevenire e trattare la malnutrizione in tutti i bambini sotto i cinque anni.
Le religiose della conferenza haitiana hanno mobilitato il mondo: continuano a venire ad aiutare da Messico, America Latina ed ora anche Spagna. Insieme alle religiose e ai collaboratori, abbiamo ripensato la strategia: non più andare nei posti remoti, ma iniziare a dare stabilità affiancando le realtà religiose che già operano. Sia suor Marcella che io abbiamo così ottenuto il supporto giornaliero di un medico e di due infermiere. Con me oggi sono venute Loli, un’infettivologa di Madrid, appena arrivata; suor Maddalena di Cordova, infermiera che lavora in Perù; suor Monica, haitiana della congregazione delle Hermanas Francescanas Hospitalieras de Jesus de Nazareth.
Sono sempre grata di essere ospitata dai padri e dalle suore: è per me un aiuto a dare un ordine alla giornata, con la messa al mattino e la colazione... perché poi non si sa cosa succederà. Sono grata anche per la grande testimonianza di solidarietà della Chiesa, la diversità delle sue espressioni, delle congregazioni, e la chiarezza che noi siamo qui ad accompagnare un popolo nel suo bisogno. Qui di fatto si parlano tutte le lingue ma ci si intende: quella che poteva essere una Babele, è veramente l’esperienza della penstecoste, come ha detto una suora.


Mercoledi 10 febbraio

Oggi eravamo in tre medici, io e due dottoresse spagnole, Loli e Maria, una carmelitana con esperienza in Africa. Con noi, anche le nostre due infermiere. Carichiamo i soliti scatoloni ed arriviamo nella nostra piazza dove già la gente e lo staff Avsi ci aspettano. Visto che Loli gia conosce come fare, approfitto per andare con Maria, Caludinet e due ragazzi di Avsi al famoso “port à port”, le visite domiciliari... che però non hanno né domicili né tanto meno porte. Al di là del muro semicrollato della piazza, c’è una barracopoli, con case di lamiera e mattoni semidistrutte. Penso che prima del terremoto non fosse molto diversa, con canali tipo fogna e spazzatura. In mezzo a questa realtà, vive la gente, vivono i bambini: passiamo in ogni posto a informare del servizio, fermandoci a parlare ed ascoltare.
In fondo a una stradina stretta, ci sono alcune donne sedute: c’è chi si fa le treccine ai capelli, chi lava i panni dentro a catini con pochissima acqua. Sento un pianto di un bambino, guardo dentro e in fondo a uno stretto corridoio buio c’e un bimbo piccolissimo, che si rotola per terra nella sua cacca. Chiamiamo la mamma, ma le donne dicono che non c’e: dentro la stanza, c’e un’altra bambina di circa un anno e mezzo che piange. Mi vengono in mente Rose ed i bimbi trovati nel cassonetto. Trattengo a fatica le lacrime. Mi metto i guanti che ho nello zainetto, prendo in braccio il bambino, che subito smette di piangere, gli tolgo la maglietta e lo pulisco mentre chiedo di portarmi dell’acqua: una bambina mi porta un catino con dell’acqua, naturalmente fredda, lavo il bimbo che non piange più. Nello zainetto magico avevo anche dei pannolini (dobbiamo distribuirne cinquemela e ne ho con me una decina): li uso per asciugarlo e rivestirlo. Lo tengo stretto, lo bacio, lui mi accarezza e fa un sorriso. Com’è grande il bisogno di affetto e come viene immediatamente riconosciuto.
Compare la mamma, allora metto il bimbo nelle sue braccia, il bimbo accarezza anche lei, mi sembra la Madonna della tenerezza: è il figlio che mostra tutta la tenerezza per la madre. Lei ci dice che il bimbo ha 7 mesi, ma che pesa come uno di quattro. Continuiamo il nostro giro, senza parlare per un po’.
Alla sera, facciamo un momento di incontro con tutte le suore, le infermiere, i medici. Le due dottoresse che hanno lavorato con me dicono di essere rimaste colpite nel vedere come mi ero coinvolta con le mamme, la pazienza nell’insegnare ad allattare... o di quando ho lavato il bambino. Non mi ero accorta che questo poteva essere una testimonianza, per me era normale quello che avevo fatto, ma capisco che siamo veramente uno strumento Suo, possiamo “formare” altri anche quando ne siamo poco consapevoli. Anche il gruppo che era andato con suor Marcella è rimasto molto colpito di come lei si muove tra la gente.
Fiammetta ed Avsi mi hanno chiesto di fermarmi fino alla fine di febbraio, per dare continuità al lavoro. Ho accettato. Questa sera, quando l’ho detto all’incontro le suore mi hanno fatto una grande festa!


Venerdi 12 febbraio

Approfitto dei nuovi arrivi per visitare la realtà dove la gente vive: c’è una discarica di bottiglie di plastica e, nel mezzo, baracche di lamiere abitate. In una di queste, una madre ci fa vedere il bambino undicenne affetto da epilessia grave. Ci si abitua a tutto, alle case crollate, alla gente che vive per le strade tra le macerie e sotto stracci che fungono da tende. Mi viene in mente quello che Carrón ci aveva detto: «O l’educazione o l’infarto». Aprendo la Scuola di comunità sulla Carità, mi rimetto a guardare con occhio commosso la miseria di questa gente che è fatta per Lui, come me. Ma qui, per me e per loro, c’è anche «l’infarto».
Oggi è un mese dalla scossa. Il governo ha decretato tre giorni di lutto nazionale e restrizione di movimento. Qui, si decide di non muoversi ed accompagnare la gente con la preghiera. Le suore hanno esposto il Santissimo e a turno si fa un’ora di adorazione. Alla sera, con seminaristi, padri e suore si va in pellegrinaggio, dicendo il Rosario, alle tombe del Vescovo e del suo Vicario, poi la messa insieme nella cappella della Conferenza episcopale.
Dice l’omelia padre Richard, un giovane haitiano scalabriniano: «Abbiamo lottato duecento anni per costruire, in trentacinque secondi tutto è crollato. Il popolo di Haiti deve rimettersi all’opera di fronte a questa nuova provocazione».
Guardo le croci bianche sui cumuli di terra. L’arcivescovo, monsignor Miot, è nato nel mio stesso anno, 1947. Il suo vicario, monsignor Benoit, non ha data di nascita, forse non la sapevano: la data di morte è il12 gennaio 2010, ma sappiamo che per giorni lo hanno sentito parlare da sotto le macerie, senza riuscire a tirarlo fuori.
Suor Marcella sfida le regole e va da sola ad Warf Jeremie, il suo quartiere, dove ha riaperto l’ambulatorio sotto una tenda: oggi i militari italiani vengono con la ruspa a spianare il terreno dove forse riuscirà a ricostruirlo di nuovo. C’è un bambino bloccato da un gesso per frattura scomposta al bacino, che ha molto dolore, e Marcella chiede aiuto ai militari, che lo caricano sulla camionetta per portarlo a fare la radiografia.
Anche Fiammetta, Edoardo e Simone non si fermano: con l’aiuto degli uomini della Protezione Civile, montano le tende per rendere più vivibile l’accampamento. Le tende sono molto belle, un piccolo appartamento anche per due, tre famiglie. Ma vanno bene in alta montagna, per cui durante il giorno sono molto calde. Hanno anche installato, con l’aiuto di Andrea venuto apposta da Le Cayes, l’acqua potabile vicino alle tende. «Vedi Chiara, ti stiamo sistemando tutto per il tuo ambulatorio», mi dice Simone.
Io sono qui, senza uscire, perché noi non possiamo muoverci, ma mi sento come il cuore che batte, la coscienza che sostiene le mani che lavorano.


Sabato 13 febbraio

Ancora giorno di lutto. Per le strade ci sono gruppi di preghiera, che bloccano un po’ gli spostamenti. Edoardo viene a prendermi e vado, per la prima volta, nell’ufficio Avsi a Pétion-Ville. Se ogni tanto non ci fosse qualche edificio completamente crollato, non si direbbe che ci sia stato il terremoto qui. Infatti, Fiammetta mi raccontava che dopo la scossa, terribile, lei non si era resa conto dell’entità di quello che era successo fino a quando non aveva cercato di ritornare a casa. L’ufficio è bello, ci sono le foto con lo staff dei diversi progetti, una storia diversa dal vortice di questi giorni. Ne approfitto per preparare le mie schede per il nostro lavoro e per lasciare qualcosa a chi verrà, per non ri-iniziare da zero. Ne approfitto per usare internet, la posta, i siti, stampo anche il volantino di Cl, in francese e spagnolo, ad un mese è ancora attuale. Così, alla sera, nell’incontro con le suore, il mio contributo è far leggere il volantino, ho detto: «Mi chiedete sempre chi sono, allora questo volantino è un pezzo di risposta a chi appartengo». Mentre con Edoardo pensiamo di chiedere a padre Giuseppe di dire la messa per don Giussani.


Domenica 14 febbraio

Questa mattina, nella cappella senza il tetto, dove padre Giuseppe dice la messa, c’è una grande folla. Anche fuori della chiesa. È il terzo giorno di lutto nazionale.
Mentre il padre confessa, per un’ora prima della messa al microfono si succedono anziani e giovani per ringraziare il Signore di essere salvi; raccontano in creolo quello che hanno passato dopo il terremoto. Tutti continuano a ripetere grazie al Signore. Nell’omelia padre Giusppe spiega il Vangelo delle Beatitudini: è beato chi ha perso la casa, chi soffre, non chi ha tutto.
Per strada ci sono dei gruppi molto folti e padre Giuseppe ci dice che sono protestanti e pentecostali: dicono che la Chiesa cattolica è stata punita, colpita nella sua cattedrale e nel suo vescovo, perciò invitano ad unirsi a loro.
Nel pomeriggio, mentre i miei amici di Avsi sono ancora sul campo a piantare nuove tende, io, impossibilitata a muovermi, aiuto a mettere in ordine il magazzino dei farmaci e approfitto per fare Scuola di comunità, che aiuta a ridare lo sguardo giusto su tutto.