Nel campo sfollati di Avsi (© Ilaria Di Biagio).

DIARO DA HAITI /8 «Perché te ne vai?»

Ottava e ultima puntata del diario di Chiara Mezzalira. Che, dopo sei settimane, lascia Port-au-Prince. Con la domanda di un bambino e il cuore risvegliato. Certa di un solo fatto: senza cui «mi sentirei inutile»
Chiara Mezzalira

Orly, martedì 2 marzo

La mia missione ad Haiti è finita. Sono ripartita dall’aeroporto di Port-au-Prince, riaperto ai civili. E qui a Orly, dopo un giorno di viaggio, aspetto il volo per Linate. Così ne approfitto per aggiornarvi su questa ultima settimana, che è davvero volata.
È arrivata la nuova pediatra, Rosella di Desio. A guardarla sembra che il vento se la porti via. Ma lei, che non ha per nulla la stazza del tipico volontario delle ong come ho visto alla base delle Nazioni Unite, ha dato la sua disponibilità. Il marito Ezio, al ritorno da un incontro di Medicina e Persona in cui si richiedevano medici per Haiti, le aveva chiesto se conosceva una pediatra che parlasse il francese. Risposta: «Io». Così, con il sostegno dei figli, ormai universitari, è arrivata ad Haiti.
Abbiamo fatto insieme un giorno di formazione con una trentina di persone locali, prima della distribuzione di massa dei biscotti e della crema di arachidi arricchita, una strategia dell’Unicef e del Ministero della Sanità per prevenire la malnutrizione tra bimbi e donne gravide. La formazione è sempre un’occasione di rapporto, dove ridire il perché si lavora. E, per la prima volta, abbiamo anche mangiato insieme e cantato.
Davanti a Rosella e alle sue domande, mi sono accorta di come ci si abituata al fatto che la gente viva nelle tende, o abbia delle malattie. La prima sera di ambulatorio, Rosella ha detto che avrebbe ricoverato in Italia tutti i bambini che aveva visto... Ci si abitua alle case cadute. Invece bisogna lasciare aperta la ferita, perché il cuore possa commuoversi sempre e quindi muoversi.
Venerdì è stato l’ultimo giorno di lavoro con lo staff. E il nostro team di Avsi ci ha stupito: hanno improvvisato un biglietto per ciascuno, con fiori disegnati e le firme accompagnate da piccole frasi. La suora infermiera aveva le lacrime agli occhi, anche Jehu - un ragazzo dello staff - era commosso. Come Loli, che mi ha ringraziata per la possibilità che le abbiamo dato di lavorare con noi e per quello che ha imparato da come mi sono mossa. Mi colpisce che si scopre di più quello che è accaduto nella nostra vita da come ci guardano gli altri. C’è una diversità, mi verrebbe da dire ontologica, che traspare, quasi nonostante noi.
Mi sono scoperta più grata per l’incontro e per la vocazione, grata anche per la possibilità che mi è stata data di venire ad Haiti, per il fatto che la mia disponibilità sia stata accettata. E grata a Fiammetta: avere visto come si è mossa senza risparmiarsi e aver sentito le sue prime parole dopo il terremoto ha provocato il mio desiderio di partire.
È proprio chiaro, di fronte al dramma immenso ed al bisogno infinito, al degrado che c’era anche prima del terremoto, che non sono io a rispondere al loro bisogno: posso solo accompagnare e condividere un pezzetto di strada così piccolo, che se non ci fosse la certezza che la mia piccola goccia riempie un secchio insieme alle altre, mi sentirei inutile. Mi viene in mente quel che scriveva santa Teresina del Bambin Gesù, sulla fiammella che serve ad accendere tutte le altre, arrivando alla fine ad illuminare tutto. Il volantino del movimento, La nostra vita appartiene ad un Altro, mi è tornato spesso alla mente, anche quando mi hanno chiesto se ritorno: quel che sarà non lo so, ma sono certa che tutto sarà ancora per il bene di Haiti.
Ad Isabel, una giovane suora spagnola, è crollata la casa dove abitava con le consorelle. Un giorno mi ha raccontato, ancora sotto shock, quel che le è successo: un uomo tra le macerie le chiedeva aiuto con il braccio teso; lei non sapeva cosa fare, quando è crollato tutto e lo ha schiacciato. Ora non riesce a togliersi dagli occhi quell’immagine. Davanti a lei che, triste, mi diceva di non avere futuro, m’è venuta in mente una poesia di Antonio Machado che mi ripeto spesso: «Caminante no hay camino / se hace camino al andar... Caminante no hay camino / sino estelas en la mar» (Viandante non c'e un cammino / si fa il cammino camminando... Viandante non c'è una via / ma una scia sul mare...). Isabel mi è venuta dietro e l’ha recitata con me. In queste settimane ho visto che il cammino si è svolto e la scia è rimasta dietro, senza preoccuparmi prima di cosa avremmo fatto domani e senza fare grandi programmi.
Sono partita come se dovessi restare: ho caricato i bagagli nella jeep insieme alle medicine con Rosella e le infermiere, che mi hanno lasciato all’aeroporto, come se fosse una giornata normale.
Ci si affeziona per sempre, e si parte come se si restasse per sempre. Ho provato un momento di nostalgia nel partire. Prima di andarmene, desideravo andare a trovare il bimbo di sette mesi che avevo trovato abbandonato, nella sua cacca, dalla mamma e dai vicini. Ma non ci sono riuscita, non c’è stato il tempo, così ho offerto. Un’altra sera, mentre stavamo caricando in auto le casse dei medicinali, un bimbo di circa 8 anni che mi era stato appiccicato tutto il giorno, con quel bisogno di contatto che avevo visto nei bimbi orfani, mi ha detto: «Pourquoi tu vais?». Perche vai via? Me lo sarei tenuto sempre stretto. Ma anche lui appartiene ad un Altro, e l’ho affidato a Lui.
È difficile riassumere queste sei settimane ad Haiti, ma vorrei ripetere quello che ha detto una suorina dell’isola: «Haiti è uno dei Paesi più poveri e dimenticati del mondo. Ma adesso il mondo è venuto a conoscere Haiti, con questo terremoto che ha commosso il cuore del mondo». Un terremoto che ha risvegliato il cuore dell’uomo. Prego perché non ci si dimentichi del suo bisogno. Chiedo che si impari ad essere sempre aperti all’imprevisto. E al bisogno dell’altro, segno concreto dell’Altro cui appartiene la nostra vita.