I ragazzi del movimento di Santiago al lavoro per la <br> ricostruzione.

CILE «Dov’è l’altro?»: il grido su cui costruire

A due settimane dal violento terremoto, le testimonianze di chi vive a Santiago. Tra le illusioni che cadono di fronte al disastro improvviso e una domanda che dà forma alle giornate
Alessandra Stoppa

«Oggi potrei morire tranquillo». È stato questo il pensiero di Juan Emilio. Vive a Santiago del Cile. Nell’ultima notte estiva di febbraio la sua casa ha iniziato a tremare: tre minuti di boato e sussulti, e lui si è messo lì a pregare con la moglie e i figli. Poi è sopraggiunta una calma tesa. La preoccupazione per i parenti, i vicini. Gli amici. È stato pensare a loro che gli ha tolto la paura. «Nella mia vita sono stato educato a riconoscere il luogo della mia appartenenza. Il luogo del mio rapporto con il Destino. Ho pensato che i miei figli sarebbero potuti rimanere soli, ma so che avrebbero seguito questa appartenenza. Di generazione in generazione. È una certezza. Non posso dimenticare l’esempio di don Julián Carrón: “Se la pioggia bagna, perché dubitare che bagnerà nuovamente?”».
Come si sa, l’energia del sisma cileno del 27 febbraio è stata tra le più potenti mai sprigionate dalla terra. Grado 8,8 della scala Richter. Poi è seguito lo tsunami sulle zone costiere. Due milioni di sfollati, quasi ottocento morti, un numero indefinito di dispersi, un milione di edifici danneggiati, tra case, ospedali, aeroporti, autostrade. «Eppure tutti questi dati impallidiscono di fronte al grido in quella notte», dice Juan Emilio: «“Perché?”». Da questa domanda è scaturita un’urgenza incontrollabile, che ha dato forma alle prime ore, ai primi giorni: «Dov’è l’altro?. Dove sono i tuoi, gli amici, i conoscenti? Quelli che ti sono stati dati. Il grido stesso si è trasformato nel bisogno dell’altro». E costruire su questo grido si può. «Da soli no, ma coinvolgendosi con gli altri sì».
Infatti, ora che lo spavento è stato assorbito, la domanda è che cosa si impara davanti a questo disastro improvviso. Innanzitutto cade un’illusione. Dove stanno la crescita, il progresso, dove sta la vera ricchezza? Come scrivono gli amici della CdO cilena: «I simboli dello sviluppo cileno non possono essere più identificati con le opere mastodontiche costruite in questi anni, aeroporti e autostrade dotate delle migliori risorse tecnologiche, se non esiste qualcosa che viene prima, come indicava il Papa nella Caritas in veritate: la risorsa più preziosa per lo sviluppo sono le “risorse immateriali”». Davanti ai simboli dello sviluppo che si sbriciolano, lo sguardo si sposta. È costretto. Si riempie della mossa immediata di solidarietà tra la gente. Delle tante case che si aprono all’ospitalità, dei genitori che si prendono cura dei figli degli altri. Delle parrocchie trasformate in centri di accoglienza e di raccolta di viveri.
O di un gruppo di giovani. Che non si è fermato al lamento. Sono i figli della comunità del movimento, che piano piano hanno coinvolto altri amici. Hanno cominciato a lavorare, casa per casa, nel comune di San Bernardo, nella parte più colpita di Santiago, scavando le macerie e abbattendo muri distrutti, stando vicini alle persone nel loro dolore. Hanno iniziato a dare una mano in una scuola danneggiata. Poi nella casa di un professore, poi in un’altra ancora. Via via, si sono messi a rispondere ai bisogni che incontravano per strada. Si trovano la mattina, alle nove, gli attrezzi in mano, e si mettono all’opera dove serve. Luz María li guarda stupita. Vede in loro il fiorire dello stesso seme che è nei loro genitori. «È Cristo che semina nei loro cuori. La loro presenza è la carezza del Nazareno in mezzo al dolore di cui siamo testimoni. È il focolaio della speranza qui». La risposta alla violenza del terremoto e a quella di chi, in questi giorni, ne approfitta per saccheggiare.
Santiago non è, in apparenza, molto danneggiata. La ricostruzione delle case dopo il terremoto del 1985 è buona. Altre, invece, sono crollate, soprattutto alcune abitazioni nuove della classe medio-bassa, «realizzate con i risparmi di una vita ma da costruttori senza scrupoli», come racconta Karin: «Due regioni del sud, Biobío e Maule, sono state molto danneggiate, sia dal terremoto che dallo tsunami: il mare ha cancellato praticamente interi villaggi. Navi e containers sono rimasti a centinaia di metri della riva».
Ma il desiderio di ricominciare è evidente, lo è stato fin da subito: «La gente impiega ore per andare sui posti di lavoro, anche a piedi, da lontano, pur di riprendere la vita quotidiana», racconta Ornella, che lavora in un'agenzia di viaggi di Santiago. Lunedì mattina, a due giorni dal terremoto, ha visto i dipendenti di una banca che si abbracciavano incontrandosi all’ingresso. Prima di entrare in ufficio. «La gente si incrocia per strada e si abbraccia, felice di esserci», dice.
Il giorno del terremoto, don Martino De Carli, missionario della San Carlo Borromeo, era nell’estremo sud del Cile. È tornato nella sua parrocchia, nel quartiere Puente Alto di Santiago, dopo un lunghissimo viaggio, per via delle strade spaccate e dei collegamenti interrotti. Ora la città ha ripreso la sua vita normale. Mentre altrove, come a Concepción, è tutto molto più difficile. Appena rientrato, don Martino ha trovato la casa tutta sottosopra, i vetri rotti, i mobili rovesciati. Ci sono voluti due giorni per sistemarla. Quando hanno finito, Everton, uno dei seminaristi della San Carlo che vive con lui, gli dice: «Io vorrei tanto essere a Concepción per aiutare, ma mettendo a posto tutte le stanze della casa, i libri uno a uno, ho risposto a Cristo come se fossi a Concepción». Il punto di lavoro ora è questo: «Ci stiamo aiutando a vedere che ciascuno costruisce rispondendo a quello che Dio chiede qui, ritornando alle cose di tutti i giorni», dice don Martino. Per questo, appena ha potuto, ha riunito tutti, i seminaristi, le persone che segue, gli amici, ragazzi e adulti: «Per poterci incoraggiare l’un l’altro a riprendere la vita quotidiana».
Luca è un ragazzo italiano atterrato in Cile il 22 febbraio, per un progetto post-laurea. Dal giorno del terremoto ha condiviso la casa con altre quindici persone, senza corrente e con la difficoltà della lingua. «Ho pensato a quello che mi aveva detto un amico prima di partire: “È il momento di verificare la fede, se quello che hai incontrato è vero, ovunque andrai”. Allora mi sono giocato davanti alla convivenza con quelle persone, che ha trasformato un rifugio improvvisato di fronte al terremoto nella “mia” casa, nella mia famiglia cilena». Dopo la scossa, anche gli uffici in cui doveva iniziare a lavorare non esistevano più. Così Luca è andato con altri giovani ad aiutare nelle zone più colpite, spostando mattoni e smantellando muri a pezzi.
«Il piano di Dio è molto diverso dal piccolo piano che ciascuno di noi pretende di avere. Possiamo solo essere mendicanti», conclude Juan Emilio. Oggi c’è questo dolore terribile del terremoto, ma «tra qualche mese sarà passato, e torneremo a non saper più riconoscere a chi apparteniamo. Allora chiedo aiuto ai miei amici, perché ce lo ricordiamo».