Fiammetta all'opera ad Haiti.

HAITI Il terremoto che muove le giornate di Fiammetta

È appena rientrata in Italia la volontaria che, per Avsi, ha contribuito ad affrontare l’emergenza sull’isola. Qualche settimana di riposo, poi il ritorno a Port au Prince. Dove la sua presenza si vede. Come racconta chi l’ha seguita da vicino
Alver Metalli

Più che una fiammetta, un fuoco. Fiammetta Cappellini - questo il suo nome e cognome - è una delle migliaia di volontari che si muovono tra le macerie di Port au Prince, un “quadro” di una delle centinaia di ong che il terremoto ha mobilitato all’ennesima potenza. Una potenza buona, benevola, opposta all’altra che nello spazio di pochi attimi ha abbattuto una quantità colossale di edifici e vite. La giornata di Fiammetta inizia con le prime luci dell’alba. Apre la porta e si siede a terra sulla soglia della casa, che grazie a Dio ha retto bene quei 57 secondi di convulsioni e sobbalzi che a poche centinaia di metri di distanza hanno fatto strage di haitiani. Guarda fuori, nel giardino trasformato in un deposito. Pale a centinaia, accatastate a mazzi come vecchi fucili di guerra in un bivacco di soldati, e casse di alimenti non deperibili, sacche azzurre di tela robusta con dentro i componenti per le preziosissime tende, che a poco a poco sostituiscono gli accampamenti precari spuntati come funghi all’indomani del terremoto, e materassi, pile di materassi, poi brandine da campo, confezioni di lenzuola, scatoloni di tubetti di dentifricio, casse di sapone, recipienti di disinfettante.
Il generatore comincia a ronzare, e anche il modem manda il segnale che il contatto con il mondo esterno è ristabilito. Con una mano Fiammetta sorregge la tazza del caffè, con l’altra sostiene il computer in precario equilibrio tra le gambe incrociate all’indiana. Un’ora di mail, con i “capi” in Italia e con i tanti che le scrivono. Amici e sconosciuti, che hanno saputo di lei, della sua vita e del suo lavoro leggendo i giornali, ascoltando la radio o vedendo delle fugaci immagini in televisione. Li aggiorna sugli ultimi fatti: la nascita di una bambina nella sua tenda di stracci nel campo di Place Fierte, due metri per due dove vivono anche mamma, papà, zia e quattro fratellini; l’acqua potabile che è arrivata, con un depuratore della Protezione Civile italiana, 7500 litri per le circa 1200 persone del campo; la prima scuola in tenda che ha cominciato a funzionare per duecento bambini dalla materna alle elementari, e il primo ambulatorio allestito all’aperto da due medici italiani.
Intanto, mentre lancia in rete i suoi messaggi, arrivano i collaboratori, “espatriati” come lei (alcuni italiani, Simone e Edoardo, e un francese, Jean Philippe), e dietro di loro, uno dopo l’altro, gli haitiani, quelli che Fiammetta ha cominciato a reclutare da quando è arrivata in questo pezzo disgraziato dei Caraibi. Una concentrazione di disastri naturali, mescolati a quelli politici: trent’anni di dittatura di François Duvalier, tre colpi di Stato tra il 1988 e il 1991, l’avvento di Jean-Bertrand Aristide e la sua odissea, fino alle elezioni presidenziali con il secondo mandato di René Préval.
Trentasei anni, la seconda di quattro figli, Fiammetta ad Haiti c’era venuta una prima volta nove anni fa. Allora lavorava a Bergamo, in una casa editrice per testi scolastici. Era poi tornata sull’isola per alcuni mesi come volontaria, stavolta con le suorine di Madre Teresa. Conoscendo così quello che oggi è suo marito, Frederich Fritz, 44 anni, brillante avvocato in servizio per un progetto della Banca Mondiale. Lui voleva rimanere ad Haiti. Lei ha accettato, ed è tornata nel 2006 «per vedere se potevo viverci e trovare il mio posto», dice con qualche reticenza. Il sopralluogo è stato positivo. Ha iniziato a lavorare per Avsi. Si è sposata ed è arrivato un bimbo, un morettino che oggi ha quasi due anni. E siamo al terremoto, alla casa trasformata in magazzino, agli haitiani che si siedono in cerchio nel giardino per fare il punto con lei sul lavoro della giornata.
La riunione delle 8 inizia. Si assegnano i mezzi, furgoni, jeep, auto a seconda della natura dei generi trasportati, si stabiliscono le priorità e le destinazioni nei diversi accampamenti. E via a Cité Soleil, la bidonville più malfamata di Haiti, un crogiolo di miseria e violenza, dove la lotta quotidiana è per la sopravvivenza. La quasi totalità degli uomini di Cité Soleil non ha un impiego stabile e gli introiti in famiglia sono bassissimi, frutto del commercio informale, per strada e nei mercati, che alla fine della giornata lascia appena di che sfamarsi. Le tariffe le conoscono tutti. Una giornata da manovale 150 gourdes (due euro e mezzo), 20 gourdes il bucato per conto terzi (30 centesimi di euro), 10 gourdes il trasporto dell’acqua; poi ci sono i kokorat, bambini e adulti che frugano nei rifiuti di prodotti da riciclare, 10-15 gourdes la libbra per la plastica, qualcosa di più per ferro o alluminio.
A Cité Soleil i capibanda, i violenti, hanno ripreso il loro posto, dopo essere evasi dal carcere. Un’evasione per modo di dire: non si possono tenere rinchiusi dietro le sbarre neppure i delinquenti, quando attorno il mondo crolla. I carcerieri hanno aperto le porte del penitenziario, e in 4mila hanno ripreso la strada delle bidonville di Port au Prince. «A Cité Soleil si stanno riorganizzando - conferma Fiammetta - e cercano di coinvolgere nuovamente nelle loro bande quelli che si sono messi con noi». Ci sono dei soldier nel personale di Avsi. Da leader del male sono diventati leader nel bene. «Tonton era un soldato tra i più affidabili del capo della banda dei Boston», racconta Fiammetta. «Nel 2006 si è coinvolto con noi come mediatore di pace e negli ultimi sei mesi ha lavorato come assistente sociale per identificare i bambini di strada della bidonville e - dopo il terremoto - i piccoli che hanno perso entrambi i genitori. Li segue uno per uno, va a casa loro, è impegnato tutte le ore del giorno in questo lavoro: ce la mette veramente tutta. L’altro ieri mi ha detto che il capobanda lo aveva richiamato in servizio. Ha deciso di rimanere con noi».
Fiammetta percorre l’accampamento. Si ferma, aspetta di avere attorno delle mamme, spiega che non devono cucinare all’interno delle tende e che non devono usarle come toilette. Le epidemie sono in agguato. Raccomanda di non preparare il latte artificiale nel biberon, l’acqua non è ancora potabile. «In queste condizioni ci sono parti anticipati e gli ospedali non se ne fanno carico. Due neonati, ieri, non ce l’hanno fatta». Alle sue spalle due medici entrano con lei sotto le tende e visitano i piccoli: infezioni, malnutrizione, problemi gravi di igiene ovunque.
Chiediamo a Fiammetta dove sia l’originalità di intervento di Avsi. «Nell’attenzione alla persona concreta con i suoi problemi, e nella valorizzazione delle risorse che ha in sé per affrontarli e risolverli». Comprime in una frase un intero trattato di dottrina sociale. Sta a noi dilatarla, tirare fuori quello che c’è dentro. Ma per farlo bisogna guardare a quello che c’è fuori.
Boulangerie du bon pain boniface. Un locale dalla facciata intonacata alla meglio e ripassata con una mano di vernice celeste. Un ingresso stretto tra grate di ferro. È un panificio. Scopriamo che ce ne sono altri nella bidonville di Cité Soleil. Li chiamano Ager, attività generatrici di reddito. Con i panifici ci sono anche quattro atelier per la fabbricazione di sandali in cuoio e plastica, tre lavaggi di auto e moto, un laboratorio per la produzione di candele (a Cité Soleil non c’è corrente elettrica), un internet point con quattro computer che funziona con un generatore. Poi allevamenti domestici di polli da posa, una fabbrica di mattoni forati, un negozio da parrucchiera, una falegnameria, un laboratorio di taglio e cucito. «Dei panettieri avevano perso il lavoro ed erano sul punto di mendicare», spiega Fiammetta. «Abbiamo procurato loro dei forni, delle teglie di cottura e dei sacchi di farina e si è cominciato. Adesso, dopo due anni, funzionano con le proprie forze». Il terremoto li ha risparmiati. Le chiediamo a bruciapelo cosa succederebbe se, di lì a poco, le fosse chiesto di smobilitare e tornare in Italia: «Credo che il mandato di una ong sia quello di prepararsi ad andarsene. Io potrei andarmene, ma quelli del posto, gli haitiani che lavorano con noi, continuerebbero a fare quello che stanno facendo».