Il lago di Tiberiade.

TERRA SANTA Per sapere tutto dell'Amato

Il docente e il ragazzino, credenti e non, un monsignore e un ex dirigente comunista. Tutti partiti per la passione contagiosa di due amici, don Francesco Ventorino e Pietro Barcellona. Il taccuino di un viaggio con un'insolita compagnia
Sergio Cristaldi

In viaggio. Ci si deve svegliare molto presto, nel cuore della notte, per stare agli orari del viaggio da Catania a Tel Aviv. Così si esce da casa prima dell’alba, e l’aria notturna è una lama insidiosa. In compenso, all’arrivo sarà afa sotto una luce inesorabile, come dovunque in Palestina a settembre, quel settembre che da noi è dolce congedo della bella stagione, lì è estate ancora torrida.
Anche un gesto che si tramanda da generazioni, che viene autorevolmente raccomandato, che insomma appare ovviamente doveroso, ha bisogno di recuperare una motivazione, e la fatica ne riaccende l’esigenza. Perché fare un pellegrinaggio in Terra Santa? Per sciogliere un voto, sollecitare una grazia, esprimere una devozione? Tutte ragioni eccellenti, ma il nocciolo della questione sta altrove. Alcuni fra noi ne sono consapevoli: i più innamorati, che perciò non hanno paura del sacrificio. Loro si sono messi in viaggio per conoscere meglio Gesù, e ricordano a tutti che non si può andare per meno di questo. L’amore vuol sapere tutto dell’amato, apprendere i suoi giorni di prima, visitare le strade che gli erano abituali, e se possibile la stanza dove mangiava, la soglia attraversata tante volte per uscire, per rientrare. Il colpo di fulmine c’è già stato, è una passione viva a sollecitare questa ricerca. Del cielo guardato da lui; delle sue antiche preferenze.
Ecco perché, al contrario di quanto si sarebbe indotti a credere, tutti possono partecipare a un pellegrinaggio in Terra Santa, il professore universitario e il ragazzino, il prete e il non credente, non esiste una discriminante culturale o sociologica, e nemmeno una discriminante confessionale, l’unica condizione è l’attrattiva per Gesù, chi è più avanti nel cammino di fede solleciterà chi lo sta cominciando o ricominciando. Tra noi, infatti, ci sono adulti e adolescenti, cattolici e non cattolici, un monsignore e un vecchio dirigente comunista; chi sia davvero più avanti, è un segreto che Dio non ha voglia di confidare.
Ma di una cosa ci si accorge, questo sì, che la passione è contagiosa, tanto più quando afferra, intanto, due o tre, i quali si ritrovano alleati (magari erano prima estranei, addirittura nemici), e allora trascinano inesorabilmente gli altri, e quasi li costringono a entrare in quella loro intesa su ciò che conta, su ciò che è veramente desiderabile. Questo pellegrinaggio è stato voluto, incrollabilmente voluto, nonostante difficoltà d’ogni genere, da don Francesco Ventorino e Pietro Barcellona; ciascuno ha poi coinvolto i propri intimi, anzitutto (perché no?) i familiari, con un’affettuosa insistenza che sollecitava la libertà altrui, e magari la metteva alle strette, esigendo il sì o il no. E sin dalla partenza, si capisce subito che la proposta continuerà a essere esigente, una vera e propria sfida, impossibile da ignorare, da esorcizzare in una comoda neutralità, in una sospensione del giudizio: bisognerà prender partito. La prima sera, a messa ci sono tutti, con le gambe fiacche e addosso la polvere che la doccia non è riuscita a dissipare.

Nel cuore della Galilea. A Nazaret, dove tutto ha avuto inizio, è stata edificata, negli anni 1960-69, una moderna Basilica, intitolata all’Annunciazione; alcuni la ammirano, altri si muovono con un certo disagio entro le sue vaste proporzioni. Ma grazie alla sua ampiezza essa può contenere un gran numero di fedeli, siano più o meno disciplinati, più o meno rispettosi; e nella sua parte più intima, dove sorge l’altare con le parole “Et hic verbum caro factum est”, configura uno spazio raccolto. L’architetto che ha steso il disegno e diretto i lavori si è preoccupato di tutelare, all’interno delle nuove mura, i resti di più antiche costruzioni, una chiesa crociata e una, ancor più remota, di epoca bizantina. Sotto il pavimento bizantino, del resto, giacevano blocchi di un edificio religioso risalente al II o al III secolo, che a sua volta, come ha dimostrato il paziente scavare degli archeologi, racchiudeva una grotta ancora più antica, dove si venerava Maria. Alla base del vasto edificio ci sono dunque le scarne pietre dove si è svolto il dialogo dell’angelo e della Madonna. Come alla base dell’attuale realtà cristiana - molteplice, varia, dove possono stare tutti - c’è quel punto alfa, il messaggio di Gabriele, la risposta della giovane ebrea. Si scava nel tempo, si retrocede attraverso una folla di avvenimenti e di figure, per trovare infine quei due, il loro faccia a faccia non osservato da nessun altro: la pianta viene dal seme umile, che è stato posto per la fioritura grande e sfrangiata.
Maria non fu senza resistenze di fronte alla proposta inaudita. Com’è possibile? È l’obiezione dell’intelligenza, ferma alla propria misura, spaesata di fronte a una misura superiore; è il freno che si vorrebbe mettere all’infinita possibilità di Dio. Nella Madonna si è agitato il nostro dramma, la difficoltà a uscire da uno schema che perfino il Mistero dovrebbe rispettare, piegandosi alle coordinate umane, quando invece il Mistero è tale proprio perché sfugge a ogni preventivo. Dopo l’iniziale turbamento, Maria ha creduto e obbedito; mentre qualche anno più tardi, nella sinagoga di Nazaret, i refrattari abitanti del borgo si sarebbero scandalizzati di fronte a Gesù, respingendo le sue parole (“Oggi si è adempiuta la Scrittura”). La provocazione, ce ne rendiamo conto in un modo o nell’altro, raggiunge adesso anche noi, esitanti tra disponibilità e indisponibilità a ciò che Dio annuncia, alla sua incredibile promessa, che spiazza le acquisizioni più consolidate su di sé e su di lui. Come prestar fede? Eppure, questo stesso pellegrinaggio, che indiscutibilmente sta accadendo, è una prova della capacità che Dio ha di attuare l’inconcepibile, con la connivenza di quella parte di noi che sa concedergli fiducia, a dispetto dell’altra, scettica.

Su lago di Tiberiade. Se Nazaret è oggi il centro più importante della Galilea - ne fa fede il traffico caotico, specie lungo l’ingolfata arteria principale, dove automobili e bus procedono a passo d’uomo - all’epoca della Sacra Famiglia era un villaggio sparuto e periferico: lo ignora l’Antico Testamento, non ne fa menzione lo storico Giuseppe Flavio, nessuna citazione gli dedica il Talmud ebraico. Difatti, quel conoscitore di paesi e di tradizioni che era Natanaele finì per spazientirsi: «Cosa può venire di buono da Nazaret?». Anche di fronte a lui si stagliava la possibilità dell’impossibile. Gesù, comunque, non si è trattenuto ai margini, ha puntato verso il centro, iniziando la sua vita pubblica sulle sponde del lago di Tiberiade, dove passava la via da Damasco all’Egitto, folta di mercanti e carovane.
Per la precisione, Gesù, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, allora fiorente città di contadini e pescatori, dotata di una guarnigione militare e di una dogana. Curiosamente, le parti, oggi, si sono invertite: Nazaret è la capitale amministrativa della regione, Cafarnao ben poca cosa, sostanzialmente un sito archeologico, con trattorie per pellegrini a cui viene imbandito il pesce di san Pietro (per chi vuole, segue una gita in barca sul lago). E si deve all’intrepida fatica dei francescani, che circa un secolo fa avviarono le loro campagne di scavi, se una località così spesso citata nei Vangeli non è un cumulo indifferenziato e malnoto di rovine senza identità. Quanto hanno sudato in questi luoghi cui nessuno più badava gli archeologi francescani, padre Virgilio Corbo, padre Stanislao Loffreda, artefici, fra l’altro, del rinvenimento della casa di Pietro, dove Gesù amava soggiornare. Scomparso di recente, Corbo è stato sepolto presso quei reperti; vive ancora, invece, Loffreda, che incontreremo a Gerusalemme, sornione, arguto, pronto a definirsi, ammiccando, un miscredente: «Se mi fossi imbattuto in un architrave con la scritta: "Questa è la dimora del principe degli apostoli", avrei subito pensato a un falso».
Il fatto è che Gesù e i suoi non hanno lasciato monumenti di clamorosa imponenza, ma tracce povere, tendenti perciò a inabissarsi, a sprofondare sottoterra in seguito alle consuete calamità naturali o storiche. Questi resti semisepolti non si imponevano di per sé, non costringevano a un riconoscimento, e se è per questo, non vincolavano nemmeno l’attenzione in maniera irresistibile, prova ne è che in molti casi la dimenticanza li ha lungamente trascurati; a scoprirne l’importanza, a valorizzarli come meritavano, è stato un impegno determinato, costante, magari mantenuto in circostanze proibitive, se i più illustri archeologi francescani hanno talvolta condotto i loro scavi con magrissime risorse, adattandosi a una vita spartana, non sdegnando le incombenze più umili, a costo di far sorridere i visitatori che verso l’ora di pranzo li sorprendevano alle prese con le casseruole. Nel conoscere, gioca un ruolo determinante, assieme all’intelligenza, anche la libertà: non ci sono sempre (non ci sono quasi mai) evidenze assolute che sia inevitabile ravvisare, e si direbbe che proprio le verità più significative, invece di offrirsi con poca spesa, vogliano essere laboriosamente snidate, mettendo alla prova il reale attaccamento di chi si proclama a esse devoto.
Quando lavorava a Cafarnao, padre Loffreda amava di tanto in tanto sedersi di fronte ai resti della casa di Pietro e guardarne la porta, dicendosi: da lì passava Gesù.

Città Santa. Per raggiungere Gerusalemme, il nostro pullman percorre una scorrevole autostrada che collega il mare alle montagne della Giudea. Peccato che a un certo punto compaia, ai bordi, il filo spinato e poi, sia a destra che a sinistra, un muro, il muro costruito da Israele per arginare, questa la giustificazione, le incursioni dei terroristi. Da questo momento in poi, ci seguirà, più o meno invadente, l’ombra di un conflitto. Pattuglie, posti di blocco, mitra a tracolla su giovani spalle sia maschili che femminili; e improvvisate bande di mocciosi con armi di plastica, puntate contro i turisti occidentali. Gerusalemme sinonimo di pace, emblema del paradiso. Quando vi torniamo dopo la visita a Betlemme, dobbiamo affrontare un checkpoint assai poco rassicurante.
La pace in Palestina è un miraggio che svanisce inafferrabile proprio quando sembra a portata di mano. Amici che vivono qui ci raccontano come poco prima dell’Intifada tutti parlassero di un’imminente fine delle ostilità, di un accordo ormai prossimo tra le parti, desiderose di venirsi incontro, di por fine a una situazione da tutti i punti di vista intollerabile. Evidentemente, gli ostacoli da rimuovere erano massicci, molto più di quanto non si pensasse. E oggi gli ottimisti sono merce assai rara in tutta quest’area; sopravvivono meglio in Occidente, ma recitando un copione in cui sono i primi a non confidare. A un’analisi lucida, in effetti, non sfugge la difficoltà di realizzare i proclami di buona volontà, le soluzioni anche più ragionevoli ed equilibrate, alla cui formulazione hanno presieduto i migliori strateghi della diplomazia che conta. La pace, allora, è sempre inscritta nel futuro, è utopia mai realizzata? Cristo è la nostra pace, dice Paolo, e ha già abbattuto il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, ha già creato dei due un solo uomo nuovo, un popolo solo. Ma dov’è oggi il Signore, e dov’è la sua pace in un mondo che patisce la guerra e il timore per la guerra, quel timore che in Palestina si tocca con mano, magari trasformato in aggressività, in torto feroce che si fa al nemico per mortificare i suoi rancori, con l’effetto di eccitare altro odio ed ennesime ritorsioni?
A Gerusalemme, la Basilica del Santo Sepolcro è gremita di pellegrini provenienti da tutti i punti cardinali, e bisogna fare una lunga fila per accedere alla Cappella del Calvario e mettere la mano sulla roccia del Golgota, così come è necessario rimanere pazientemente in coda per entrare nell’edicola del Santo Sepolcro e inginocchiarsi davanti al banco di marmo collocato sulla roccia dove ha riposato il corpo esanime di Gesù. Non diversamente accade a Betlemme, nella Basilica della Natività: i pellegrini si accalcano, premono, e quando si giunge finalmente alla Grotta, centro gravitazionale della Basilica, si ha appena il tempo di baciare la stella d’argento posta sul luogo della nascita del Bambino, perché altri incalzano, desiderosi a loro volta di adorare. Ogni volta, si fa qualche passo indietro, si esce dalla ressa, si prega per i propri cari e per tutti quelli che ci hanno chiesto di esser ricordati, infine, se si è stanchi, e molti di noi lo sono, si cerca un posto dove sedersi, magari sul basamento di una colonna. La stanchezza non spegne l’emozione, questi sono i Luoghi Santi per eccellenza; del resto, per la Basilica del Santo Sepolcro e per quella della Natività si può affermare con certezza che sorgono effettivamente là dove si sono compiuti gli avvenimenti ricordati. Ma tornano in mente anche le considerazioni che facevamo insieme qualche giorno prima: la risposta alla domanda su Gesù non si trova sul piano della documentazione archeologica.
Quanti amici abbiamo incontrato in questo pellegrinaggio, arabi che si sono messi a nostra disposizione con affabilità e generosità, italiani che vivono lì da anni per seguire - così ci dicono - Cristo e far memoria di lui, del significato che in lui si recupera di ogni cosa. Frattanto siamo divenuti più amici anche fra noi, condividendo i passi e le riflessioni. Quasi ogni sera ci siamo riuniti per concordare il programma dell’indomani (cosa non facile in un contesto dove è norma vivere alla giornata, e i programmi, nel migliore dei casi, sono esposti a contrattempi maliziosi). Stabilito l’improbabile piano delle operazioni, si passava al confronto sull’esperienza fatta, sempre tenuto su una corda personale e non teorica. Avviene così anche l’ultima sera, e gli interventi esprimono gioia. Strana gioia, al margine di uno spettacolo di dolore, ma certa. Ecco, Cristo è dove alcuni si ritrovano insieme a partire da lui, e qui si manifesta toccando il cuore, suscitando una riconciliazione anzitutto con se stessi, col proprio passato, per quanto drammatico. C’è una Gerusalemme in senso letterale e c’è, con la sua pace già in atto, una Gerusalemme spirituale, peregrinans in hoc mundo, nel mondo delle risse e delle sopraffazioni.