La cattedrale di Sayidat al Najat, Baghdad.

BAGHDAD La vita per una messa

Dopo la strage di cristiani nella capitale irachena, il racconto di chi ha parlato con i sopravvissuti. Le notizie false sul blitz, la paura, e la decisione di rimanere. «Perché loro la fede, la vivono»
Alessandra Stoppa

Alcuni sono rimasti a terra fingendo di essere morti. Altri non se lo spiegano ancora, come hanno fatto a salvarsi. «Ma hanno detto che domani torneranno a pregare lì. Rischiano la vita per andare a messa». Behnam (il nome è di fantasia, ndr) è iracheno, ma vive in Italia da tanti anni. La sua famiglia e i suoi amici sono ancora a Baghdad, ed è in contatto con loro dopo la strage nella chiesa siro-cattolica di Saiydat al Nayat (Nostra Signora del Perpetuo Soccorso), nel centro della città. Dove, domenica scorsa, una cellula di al-Qaeda ha ucciso cinquantadue cristiani.
Sui giornali, le fonti raccontano del blitz delle forze governative irachene. E si dice persino che il vero bersaglio del commando sarebbe stata la Borsa Valori, nelle vicinanze: fallito l’assalto, gli uomini armati, per scappare dalla polizia, si sarebbero rifugiati in chiesa prendendo in ostaggio i fedeli. «Chi c’era, in quell’inferno, dice che le cose non sono andate così», riporta Benham: «Era una cosa organizzata. C’era un progetto, molto preciso». Ed era quello di un attacco estremista al grido di Allah Akbar, «segno del martirio islamico». Ci si chiede come abbiano potuto passare i controlli due auto piene di bombe a mano ed esplosivi, «quando dai posti di blocco non passa nemmeno un dentifricio».
I terroristi erano tutti giovani. Parlavano dialetto iracheno e dialetti di Paesi vicini. Sono entrati in chiesa e hanno ammazzato i due giovani sacerdoti. Per primi. Padre Tha’ir Saad e padre Boutros Wasim. «Poi hanno violentato le ragazze. Strappato alla gente tutto quello che avevano addosso. E alla fine hanno fatto la strage. Anche dei bambini», continua Benham. «So solo questo di quei momenti. Non ho voluto sapere altro, non ce la facevo ad ascoltare».
Ieri lo Stato islamico iracheno, la sigla di al-Quaeda in Iraq, ha reso pubblico un messaggio di rivendicazione e minaccia: «Tutti i cristiani e le loro chiese sono “obiettivi legittimi” dei mujahidin e sono quindi in pericolo». Nel testo c'è un riferimento esplicito anche al Vaticano: «Questi politeisti ed i loro capi nel Vaticano devono sapere che la spada non cadrà sulla testa dei loro seguaci se annunceranno la loro innocenza e prenderanno le distanze da quanto è stato fatto dalla chiesa egiziana», che - secondo gli estremisti - sarebbe responsabile della prigionia di due donne convertite all’islam. «Ci sentiamo persi dopo l’attacco di domenica», ha detto subito dopo l’arcivescovo di Baghdad, Athanase Matti Shaba Matoka. Ha accusato l’indifferenza delle autorità irachene, che limitano le misure di sicurezza. E ha supplicato l’intervento della comunità internazionale: «Devono trovare una soluzione, perché siamo senza governo da sette mesi. Com’è possibile non capire che questi attentati mirano proprio a provocare un’emigrazione collettiva di tutti i cristiani iracheni? Noi non chiederemo più ai nostri di resistere e rimanere, se devono vivere in queste condizioni».
Resistere e rimanere. «Tanti nostri fratelli non vogliono andarsene. Non se ne andranno davanti a nulla. Vivono, ogni giorno, con l’idea del martirio per la fede», racconta Behnam. Piange. «Piango per la debolezza con cui viviamo la fede qui, in Italia. Dove non c’è nessun pericolo, dove siamo liberi. Loro, là, danno la vita per una messa. Non vivono di discorsi: la fede la vivono. Basta stare là un giorno per capire cosa significa essere cristiani in Iraq. Non parlano di Gesù, ma da come vivono le giornate si vede per Chi stanno vivendo».
Di continuo, le famiglie ricevono a casa minacce scritte. Li intimano di non andare a messa. Nelle case, si guardano in faccia, poi decidono. Vanno. Scelgono messe diverse, perché sia più alta la probabilità di salvarsi. «Io oggi chiedo a Dio di capire cosa vuole da me, che cosa devo imparare». Benham è tormentato. Si chiede se la sua presenza sia più utile là o qui. «È una questione aperta con Dio. Perché ha abbandonato il Suo popolo?». Dice che avrebbe preferito esserci lui al posto di quei due giovani sacerdoti e di tutti gli altri martiri. «Ho bisogno di vedere che cosa vale la mia vita per il sacrificio di quella gente. O il mio stare qui è vivere realmente da cristiano, o non serve a nulla. Mi sento chiamato a vivere concretamente il mio rapporto con Gesù Cristo, ora, qui. È l’unico desiderio che ho. L'unica cosa che ha senso».